varie 21/1/2015, 21 gennaio 2015
ARTICOLI SUL TOTO-QUIRINALE DAI GIORNALI DI MERCOLEDI’ 21 GENNAIO 2015
FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA -
Cosa cela la clamorosa svolta del Cavaliere sulla legge elettorale: un patto inconfessabile con Renzi o un patto politico con Alfano? È una «svendita» come sostiene la minoranza forzista, o un «investimento» come spiega l’area dei fedelissimi? E il punto non è quale sia la prospettiva a breve termine di Berlusconi, se il sostegno incondizionato all’Italicum lo porterà in maggioranza, come lascia intuire Romani quando dice che «da oggi siamo determinanti», o persino «al governo dopo il Quirinale», come prevede Fitto. Sullo sfondo sembra intravvedersi un disegno a lungo termine.
Accettando il premio di maggioranza alla lista, il Cavaliere di fatto dà seguito al vertice di Milano con i dirigenti di Area popolare, a cui ne seguirà un altro oggi: c’è l’idea — come lui stesso ha detto — di «mettere insieme i partiti italiani del Ppe», prefigurando la nascita di un contenitore simile all’Ump, che in Francia è la somma di varie formazioni di centrodestra. E siccome — per effetto del ballottaggio — l’Italicum ricalca il modello elet-torale francese, l’obiettivo è di arrivare al ballottaggio, quando si tornerà alle urne. E di vincere al secondo turno con i voti della Lega: «Perché vinceremmo. Vinceremmo anche con il Consultellum».
Si vedrà se si tratta di un alibi per nascondere dell’altro, se la manovra «è dettata dal suo conflitto d’interessi», come denunciano gli esponenti della minoranza forzista. Di certo ieri Berlusconi ha preso tre piccioni con una fava: si è reso indispensabile alla maggioranza; ha acquisito un forte credito sulla scelta del successore di Napolitano, siccome «sta nei patti, perché su questo punto ho avuto precise garanzie da Renzi»; e si è riavvicinato ad Alfano per costruire già l’accordo alle Regionali, visto che — assicura — «ho già parlato con tutti quelli della Lega. E non esiste che si vada divisi».
Per effetto del caso o di un disegno, ieri Berlusconi si è trovato a un bivio, mentre il premier gli spiegava che «non ho i voti per far approvare la legge elettorale»: avrebbe potuto agevolare l’operazione organizzata da una parte del Pd contro il suo segretario, o aiutare Renzi a emanciparsi dalla minoranza del suo partito. Sapeva che se avesse scelto la prima opzione, il leader del Pd gli avrebbe addebitato la rottura del Patto del Nazareno e si sarebbe accordato con il suo partito tanto sulle modifiche all’Italicum quanto sul Quirinale. Prima che il premier ultimasse il suo ragionamento, il Cavaliere ha deciso di dargli una mano. In realtà aveva già deciso, mettendo nel conto la rottura con Fitto, «perché vorrò vedere in quanti gli andranno dietro». Al bivio, Berlusconi ammicca ad Alfano senza impressionarsi degli attacchi di Salvini, e si muove d’intesa con Renzi per il Colle. Sul nome da candidare non sono arrivati in fondo: il premier — per natura diffidente — vuole prima incassare la legge elettorale. Ma sui nomi da eliminare dalla corsa sembrano agire di conserva.
Su Mattarella, per esempio, il Cavaliere pone il veto: «Brav’uomo per carità, ma mi ricorda Scalfaro». Raccontano che Renzi non si sia stracciato le vesti quando l’ha saputo. Semmai il premier è preoccupato per i tanti supporter — interni ed esteri — che puntano su Amato. Non è la sua prima scelta, per dirla così, lo accetterebbe infine se costretto, ma teme l’impatto che avrebbe nell’opinione pubblica e che gli verrebbe addebitato: «Nei sondaggi è ultimo per gradimento».
Berlusconi, da buon samaritano, è pronto ad andare in suo soccorso. E chissà se ieri gli ha spiegato il motivo per cui l’ex braccio destro di Craxi è stato inserito nella terna messa a punto la sera prima dalle forze di centrodestra, e che comprende anche Casini e Martino. Il loro obiettivo è evitare che la partita del Quirinale inizi con un candidato del Pd: nessuna preclusione, ma è chiaro che se si partisse con un esponente di area democratica, sarebbe impossibile poi «cambiare verso», perché — quello sì — sarebbe uno smacco insopportabile per il partito di Renzi.
Perciò c’è Amato nella lista, quello stesso Amato che nel 2001 — alla vigilia della vittoria berlusconiana — spense il sogno del centrodestra di avere al Colle un proprio rappresentante. Fu lui infatti, da presidente del Consiglio, a scegliere abilmente la data di scioglimento delle Camere che consigliò poi al presidente della Repubblica Ciampi: «Così il prossimo Parlamento non eleggerà il prossimo capo dello Stato...». E il Cavaliere non l’ha dimenticato .
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MASSIMILIANO SCAFI, IL GIORNALE -
Marta Cartabia, segnatevi questo nome. Solo pochi mesi fa non la conosceva nessuno, oggi è vicepresidente della Corte Costituzionale e domani, chissà, potrebbe essere la sorpresa, l’asso rosa di Matteo Renzi per il Colle.
È lei infatti, la giurista lombarda allieva di Valerio Onida, l’ultimo regalo di Napolitano al premier, la soluzione di riserva, la carta nascosta da giocare in caso di necessità. La Cartabia in molti punti corrisponde perfettamente al profilo ideale del capo dello Stato cercato da Renzi. È una donna, e già questo per il Quirinale sarebbe una mezza rivoluzione. È giovane, cinquant’anni, l’età minima per diventare presidente. È «nuova», nel senso che non ha in tasca tessere di partito e non viene dalla politica. È cattolica, di sinistra ma non troppo.
E poi, grazie a Giorgio Napolitano, ha una carica istituzionale di rilievo. Qualcuno storse la bocca quando a dicembre, saltando i criteri di anzianità, fu eletta vicepresidente della Consulta, anche se Alessandro Criscuolo aveva già un numero due. Adesso il senso dell’operazione è più chiaro. Come con Mario Monti, nominato senatore a vita subito prima di affidargli l’incarico di sostituire Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, pure con la Cartabia Napolitano ha costruito a freddo una «riserva della Repubblica» e, prima di dimettersi, l’ha consegnata a Renzi: se serve, gli ha detto, ecco pronta una soluzione.
Manca una decina di giorni al primo scrutinio e quindi è ancora presto per capire se il presidente del Consiglio giocherà davvero quella carta. Intanto però, in attesa di vedere che fine farà l’Italicum e di sapere che cosa si diranno martedì prossimo Renzi e Berlusconi, tutte le candidature finora in pista mostrano diversi problemi. Dal vertice di lunedì tra il Cavaliere e Alfano è venuto fuori che Fi e Ncd gradirebbero uno tra Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini e Anna Finocchiaro. Il dottor Sottile piacerebbe pure a Pier Luigi Bersani e persino a Massimo D’Alema. Ma Renzi, raccontano, quando ha sentito i nomi della rosa, è rimasto piuttosto freddino. Casini, spiegano, incarna un’idea neocentrista e non può quindi piacergli. Anche Amato, con il suo peso e il suo curriculum, sembra lontano dall’identikit del premier, che però si tiene ancora le mani libere. Ma la sinistra del Pd pensa che alla fine sarà costretto ad accodarsi.
Il negoziato potrebbe avere nella Finoccharo il suo punto di caduta. Non è nuova ma è una donna, è una ex Ds ma non è giustizialista e al Cav potrebbe andare bene. Sicuramente, a quanto si racconta alla Camera, più di Sergio Mattarella, il quale, oltre ad avere un profilo più sbiadito, sconterebbe il veto di Alfano, che considera un cattolico di centrosinistra al Colle un ostacolo per il suo disegno di costruzione del Ppe in Italia.
Per motivi analoghi sono il calo le quotazioni degli ex segretari Pds-Ds-Pd Massimo D’Alema e Piero Fassino. L’unico che tiene botta è Walter Veltroni. Anzi, il sito di scommesse Paddy Power dà l’ex sindaco di Roma come favorito a 6,50. Nel tabellino dei bookmakers Veltroni supera Romano Prodi, quotato a 9, Roberta Pinotti, 10 come Fassino, e Paolo Gentiloni, 11. Staccati Amato, Mattarella, Stefano Rodotà, Laura Boldrini e Pier Carlo Padoan.
Giochi aperti, con l’incognita Cinque Stelle. Roberto Fico, membro del direttorio M5S, fa una mezza apertura: «Se ci viene presentato un nome di alto profilo, indipendente dal governo, lo valuteremo».
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MASSIMO REBOTTI, CORRIERE DELLA SERA –
«Se si ha un’idea forte, si può partire anche in pochi». Riccardo Nencini, segretario Psi e viceministro dei Trasporti, parla del Quirinale e dei voti del gruppo di socialisti e autonomisti.
Pensate a Giuliano Amato.
«Intanto abbiamo individuato i criteri: europeista, garante dell’unità nazionale, politico».
Amato?
«Certo, ma non è l’unico. Anche altri rispondono a quei requisiti, non siamo un Paese che si è impoverito così tanto. E poi, sarebbe un bel binomio: le capacità di Renzi e un presidente con esperienza».
Quanti siete?
«Siamo un pacchetto di mischia, 31 voti. Sa chi propose per primo, nel 2006, il nome di Napolitano? Furono i parlamentari della Rosa nel pugno. Ed erano di meno».
Socialisti in entrambi i casi.
«È una storia di libertà e civiltà che mettiamo a disposizione».
Anche Renato Brunetta, ex socialista, ha parlato bene di Amato.
«Ora lui fa il capogruppo di FI. Distribuisce veti e avanza tante candidature. Noi abbiamo proposto un criterio».
E con chi ne parlerete?
«Con il Pd. La prima riunione è fissata per domani. Renzi ha scelto il percorso giusto: si è assunto la responsabilità di individuare un nome, ma esige una discussione corale».
Tante riunioni, ma alla fine si deciderà in extremis?
«Il lavoro sulla scelta di un presidente viene sempre fatto prima. Certo, a volte non è stato risolutivo».
E questa volta?
«Finirà come Ciampi, o come il primo Napolitano».
Sicuro?
«Sì. Il presidente sarà eletto alla prima o alla quarta votazione».
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FABIO MARTINI, LA STAMPA -
A Palazzo Madama c’è una consistente e trasversale «lobby Finocchiaro» che nelle ultime ore ha proiettato la senatrice siciliana del Pd nella pole position per la scalata al Quirinale. E per tutta la giornata Anna Finocchiaro ha indirettamente incoraggiato le dicerie che si stavano infittendo sul suo conto: mentre nell’aula del Senato tutti gli oppositori della legge elettorale urlavano, lei è rimasta statuaria, con la posa presidenziale, alla necessaria distanza dai suoi ex compagni di cordata dentro al Pd. E d’altra parte proprio in Senato la Finocchiaro vanta i suoi più convinti sostenitori. Una «lobby» formata dai capigruppo della «nuova» maggioranza: Luigi Zanda, Paolo Romani e Renato Schifani. Ma anche dal leghista Roberto Calderoli, il primo a lanciare la sua candidatura alla presidenza della Repubblica. Quella per la Finocchiaro è una «lobby» di fatto, che non si muove in gruppo, ma come singoli. Renato Schifani è al centro di due episodi eloquenti. Nel febbraio 2009, quando si seppe che era morta Eluana Englaro, la Finocchiaro, presidente del gruppo Pd, attaccò il presidente del Senato, Schifani, perché lui stava parlando al telefono. Successivamente furono ritrovati i bigliettini che i due si erano scambiati («Scusami Anna, stavo parlando col Presidente della Repubblica», «caro Renato»), uno scambio di reciproca cortesia che era stato preceduto, un anno prima, da un intervento veemente della presidente in difesa del presidente: «Trovo inaccettabile che possano essere lanciate accuse gravi, come quella di collusione mafiosa, nei confronti del presidente del Senato, in diretta tv sulle reti del servizio pubblico, senza possibilità di contraddittorio». Una difesa d’ufficio: si trattava di accuse lanciate, non nell’aula del Senato, ma in uno dei tanti talk show televisivi, in quel caso da Marco Travaglio.
Durante la discussione della riforma del Senato e di quella elettorale, anche Romani ha apprezzato le doti di freddezza e di coerenza governativa della Finocchiaro e nei giorni scorsi un grande giornale ha pubblicato la foto di un plateale abbraccio tra i due. E quanto a Luigi Zanda, capogruppo dei senatori Pd, è la sua cifra di «civil servant» che potrebbe renderlo favorevole all’ascesa della sua amica Anna, se nel Pd la cosa prendesse corpo. Renzi? Dopo l’attacco per la foto che ritraeva un agente della scorta che, cortesemente, trasportava un carrello della senatrice all’Ikea, potrebbe superare le diffidenze del passato per due ragioni forti: la Finocchiaro potrebbe «scongelare» i voti della minoranza Pd, senza dimenticare che questa candidatura porterebbe una donna al Quirinale per la prima volta nella storia.
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STEFANO FELTRI, IL FATTO QUOTIDIANO -
Come si fa a candidarsi per la Presidenza della Repubblica? A volte un curriculum autorevole, un profilo europeo, una stima diffusa nel sistema dei partiti può non essere sufficiente. Ci vuole un biglietto da visita, un segnale: un libro che garantisce recensioni, ospitate tv, presentazioni, magari perfino un po’ di diritti d’autore se l’aspirante diventa davvero candidato.
Prendete Giuliano Amato, un vero professionista: due anni fa scodellò in libreria Lezioni dalla crisi (Laterza, con Fabrizio Forquet), a gennaio, per posizionarsi verso il Colle. Dopo la rielezione di Giorgio Napolitano, si apre la partita dell’incarico a Palazzo Chigi, Amato è ovviamente in corsa e per il Mulino arriva pronto sugli scaffali Grandi Illusioni - Ragionando sull’Italia, analisi di storia patria firmata con Andrea Graziosi. Oggi c’è di nuovo il Quirinale e il dottor Sottile, complice il suo status attuale di giudice costituzionale, va ben oltre il pamphlet del 2013: ecco un mattone di 480 pagine, pubblicato nella collana più seria del Mulino, Le istituzioni della democrazia, con il sottotitolo molto presidenziale “Un viaggio lungo cinquant’anni”. Un libro, anche se raccolta di articoli con prefazioni multiple e autorevoli, significa recensioni: come quella di Andrea Manzella su Repubblica, e come si fa a non eleggere al Colle uno che per mezzo secolo ha rispettato la “regola dell’equilibrio”?
Al giro precedente, quelli della Laterza non ci potevano credere: la campagna del Quirinale trasformò in un best-seller un saggio denso e impegnativo come Il diritto di avere diritti di Stefano Rodotà. Quatto quatto, stavolta l’ex garante della Privacy si è posizionato con un libretto molto più agile, a beneficio di quelli che potrebbero trovarsi ancora a scandire “Ro-do-tà”: 140 pagine, scritte grandi, e un titolo con la rima, che va sempre bene: Solidarietà (Laterza).
Anche il giurista Sabino Cassese, collega di professione e di generazione di Amato e Rodotà, quando ha provato a esplorare lo spazio per una sua candidatura, ha usato un libro. Lo aveva pubblicato quasi un anno fa, a marzo 2014, ma appena lasciata la Consulta, a dicembre, Cassese lo ha rispolverato per farsi una tournée in prima serata (Otto e mezzo, Dimartedì): anche il titolo di quel saggio, sempre del Mulino, evocava destini quirinalizi, Governare gli italiani. Senza libro – e senza editoriale sul Corriere della Sera – Cassese avrebbe potuto contare soltanto sul suo prestigio. Che non è poco, ma meglio ricordarlo agli smemorati del Parlamento.
Il gioco lo ha capito anche Matteo Renzi. Pochi giorni fa il premier si è aggregato alla presentazione di un saggio uscito a luglio, Corruzione a norma di legge (Rizzoli), di Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri. Motivo: si parla di Mose e c’era Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità anticorruzione, poco più che cinquantenne ma già molto quirinabile. Per giorni gli aruspici del Transatlantico si sono interrogati: era un messaggio? Renzi stava segnalando il suo candidato segreto in caso di fallimento di trattative col fronte berlusconiano? Poi Cantone ha detto di non essere disponibile, ma chissà.
Il più instancabile divulgatore di politica in versione libresca è Corrado Passera, l’ex banchiere ed ex ministro impegnato da mesi nel lancio del suo partito Italia Unica. A ogni ospitata tv ha sempre pronta una copia del suo manifesto Io siamo (Rizzoli) da offrire a conduttori e ospiti. Qualche giorno fa, ad Agorà su Rai3, ne ha regalato una copia perfino al peones leghista, Cristian Invernizzi. Se i libri di questi quasi-politici ambiziosi abbiano anche un successo di pubblico o una reale efficacia non è dato sapere. Ma se tutti gli aspiranti ne accumulassero scorte a uso promozionale come Passera, gli editori risolverebbero molti dei loro problemi di bilancio.
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MARCO CONTI, IL MESSAGGERO -
Ma passa, passa. Qui vogliono arrivare tutti al 2018!». Ci vuole il realismo dell’ex ministro e senatore azzurro Francesco Nitto Palma - parlamentare alla quarta legislatura - per capire, a metà pomeriggio - che anche i dissidenti di Pd e FI non hanno nessuna intenzione di fermare il treno dell’Italicum e di pregiudicare il vitalizio non ancora maturato. Dettagli, forse, di una battaglia che Renzi ha combattuto con Berlusconi in maniera talmente evidente da irritare molti della ditta-Pd. «Se qualcuno della sinistra mi parla ancora della ditta gli rido in faccia. Qui siamo passati dalla ditta all’azienda!», sbotta Augusto Minzolini, senatore azzurro che promette di votare contro l’Italicum «fino in fondo».
ALLEANZE
Sarà quindi uno dei «tredici», numero fatto ieri mattina da Denis Verdini nel corso dell’incontro a palazzo Chigi con Berlusconi, Letta, Renzi, Lotti e Guerini. «I nostri saranno una ventina in tutto, ma sul voto finale potrebbero essere anche meno», ribatte il vicesegretario del Pd.
La vittoria sembra a portata di mano, anche se si inizierà a votare oggi e si chiuderà solo la prossima settimana. Renzi difende i cento capilista bloccati e l’impianto della legge che prevede il premio di maggioranza alla lista vincente. La sinistra del partito perde pezzi, ma la frattura resta consistente insieme al rischio di ritrovarsi, al momento del voto finale, senza la maggioranza che guida il governo. Musica per le orecchie di Silvio Berlusconi che non aspetta altro, e problema non da poco sia per Renzi - che si ritroverebbe nelle condizioni di Enrico Letta - e per la sinistra del Pd che, dopo aver rimproverato al premier di trattare con Berlusconi, consegnerebbero il partito ad un’alleanza stabile con FI permettendo anche all’uomo di Arcore di alzare la posta sul Quirinale.
A palazzo Grazioli sostengono che ieri mattina Berlusconi e Renzi non abbiano parlato del successore di Napolitano. Tantomeno che il premier abbia fatto nomi che «Berlusconi, per come è fatto, avrebbe rivelato nel giro di ventiquattrore». Però, e questo è ciò che conta, hanno condiviso il metodo da seguire per trovare insieme una strada per il dopo Napolitano. I due si rivedranno martedì, quando il presidente del Consiglio inizierà il giro delle delegazioni di partito. Il profilo che Renzi disegna, «un garante di tutti», per ora basta a Berlusconi che in questi giorni sta incassando - malgrado sia ancora consegnato ai servizi sociali - un dividendo politico in grado di legittimare l’ennesimo ritorno sulla scena.
TRAPPOLE
Lo stress-test sull’Italicum, imposto al partito di cui è segretario e alla maggioranza, sta producendo non poche tossine. Renzi non sembra preoccuparsene. Tanta è l’irritazione per «il comportamento ricattatorio» che avrebbe avuto la minoranza Dem. «Con me quelli hanno chiuso, pensavano di mettermi in un angolo e ci sono finiti loro». Il premier è infatti sempre più convinto che la sinistra del partito stesse lavorando per affossare definitivamente le riforme, indebolire il governo e logorare la sua leadership. Il premier mette in fila la polemica sul decreto fiscale del 3%, sino alla porta sbattuta di Cofferati. «Trappole, solo trappole, ma hanno sbagliato a fare i conti. Un’altra volta», sosteneva ieri pomeriggio il premier.
La mancata saldatura tra le minoranze del Pd e di FI, insieme all’interesse di Lega e M5S per il premio di lista, hanno fatto il resto. Così come è stato decisivo il riavvicinamento tra Berlusconi e Alfano (i due si rivedranno oggi) che ha indebolito la fronda raccoltasi intorno Raffaele Fitto il quale ieri è uscito dall’incontro con l’ex Cavaliere comunque convinto di poter giocare ancora un ruolo importante in FI.
I numeri che potrebbero venir fuori dalla prova generale sull’Italicum, spiegano perché Renzi nei giorni scorsi abbia parlato dell’elezione del capo dello Stato al quarto scrutinio. Le minoranze di Pd e FI potrebbero anche votare contro il candidato frutto dell’intesa tra Renzi, Berlusconi e Alfano, ma non basterebbero a comprometterne l’elezione dal quarto scrutinio in poi quando è sufficiente la maggioranza assoluta. Calcolatrice alla mano il patto a tre è in grado di reggere sino a 190 franchi tiratori, più del triplo di coloro che da oggi si schiereranno contro la legge elettorale.
Marco Conti
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EMILIA PATTA, IL SOLE 24 ORE -
Dopo lo scontro del premier Matteo Renzi con la minoranza del Pd sull’Italicum andato in scena in Senato nelle ultime ore, si chiarisce anche meglio la partita del Quirinale: il premier la giocherà dalla stessa parte di Silvio?Berlusconi, ricevuto ieri mattina a Palazzo Chigi con tutto il rilievo mediatico del caso per un colloquio di un’ora. Al centro dell’incontro la partita della legge elettorale. Ed è il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani a dire poco dopo come stanno le cose: «In questo momento, stante questa situazione politica in cui Renzi non ha più la maggioranza al Senato, riteniamo di sostituire i senatori che non concorrono all’approvazione della legge elettorale con i nostri». E lo schema con il quale si approverà in Aula - almeno secondo le previsioni - il maxiemendamento a firma Stefano Esposito (Pd) con tutte le modifiche volute da Renzi alla prima versione dell’Italicum sarà lo stesso con cui si eleggerà tra qualche giorno, a partire da giovedì 29, il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale: Pd senza la minoranza (almeno quella più agguerrita), Fi senza i fittiani e i centristi di Angelino Alfano compatti. Quasi la nascita di una nuova maggioranza, che non a caso lascia «interdetti» i bersaniani, a cominciare dallo stesso Pier Luigi Bersani. Non ci sarà la sigla del novello patto con un vertice a tre Renzi-Alfano-Berlusconi come ipotizzato negli ultimi giorni, Ma il fatto politico c’è tutto. E si tratta di una “maggioranza” che può sopportare fino a 180-190 franchi tiratori.
Il percorso, intanto: Renzi e Berlusconi hanno concordato di rivedersi martedì 27 per chiudere su un nome, giusto il giorno prima della “proclamazione” pubblica all’assemblea dei grandi elettori del Pd come annunciato da Renzi. E questa volta sarà un incontro ufficiale all’interno delle consultazioni di rito previste a partire da lunedì mattina con tutti i gruppi parlamentari: il premier sarà accompagnato dalla delegazione decisa all’ultima direzione del Pd, ossia i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, il presidente del partito Matteo Orfini e i capigruppo di Camera e Senato Roberto?Speranza e Luigi Zanda. Dopo la proclamazione del nome - e i collaboratori di Renzi assicurano che non c’è alcun nome coperto, nessun coniglio pronto a spuntare dal cilindro - si procederà con le votazioni e il Pd darà ai suoi circa 450 grandi elettori l’indicazione di votare scheda bianca, un modo per controllare subito la disciplina dei parlamentari e dei delegati regionali (per mettere la scheda nell’urna senza scrivere il nome non occorre fermarsi). Modello Napolitano 2006, dunque. Mentre Forza Italia dovrebbe dare indicazione di votare un candidato di bandiera come Antonio Martino. Poi l’elezione alla quarta votazione, scontando i dissidenti fittiani e gli irriducibili contro del Pd. Soprattutto dopo la forzatura sull’Italicum, sono in molti tra i renziani del giro stretto a pensare che parecchie decine di parlamentari del Pd, nel segreto dell’urna, sarebbero pronti a bocciare la qualunque pur di colpire Renzi e il patto del Nazareno financo se il candidato fosse Bersani.
E qui si inserisce la questione del chi. Perché, nonostante lo strappo sull’Italicum, una buona parte dei 120 parlamentari di Area riformista - la corrente della minoranza che ha come riferimento il capogruppo?Speranza - dovrebbe comunque votare il candidato proposto da Renzi se autorevole e proveniente dell’area del Pd. Berlusconi avrebbe offerto a Renzi una rosa composta da Giuliano Amato, Anna Finocchiaro e Pier Ferdinando Casini.?Tolto quest’ultimo, che mai sarebbe votato dal pattuglione del Pd, della rosa restano gli altri due. Ieri in Transatlantico salivano le quotazioni di Anna Finocchiaro, nonostante la sua provenienza dalemiana e la bocciatura pubblica da parte di Renzi un anno e mezzo fa. La prima presidente donna sarebbe certo un colpo d’immagine per il premier. Restano stabili le quotazioni di Amato, che faceva parte della rosa di Bersani la volta scorsa e che Renzi ancora sindaco di Firenze aveva già allora approvato. Sulla carta una larghissima maggioranza che in un Parlamento non così balcanizzato come l’attuale potrebbe essere eletto alla prima votazione. Ma sono in molti, tra i renziani, a pensare che in realtà sia Sergio?Mattarella ad avere più chance. Nonostante il fatto che Berlusconi avrebbe nuovamente fatto pollice verso, come nel 2013. Certo, a Mattarella mancherebbe lo standing internazionale che ha invece Amato, si riflette. E non è ancora esclusa la carta di un outsider alla Sabino Cassese. «Tuttavia in cuor suo Renzi, se potesse, punterebbe su Pier Carlo Padoan», confida un renziano vicinissimo al premier. La carta Padoan potrebbe essere rimessa in effetti sul tavolo se dalle elezioni greche dovesse arrivare un risultato che mette a rischio la tenuta dell’euro. «C’è sicuramente un insieme di personalità tra le quali può essere operata una scelta adeguata alle esigenze del Paese e delle istituzioni» ha commentato ieri Giorgio Napolitano a Ballarò. «Auguri a chi dovrà scegliere. Non sono io».
Emilia Patta
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SEBASTIANO MESSINA, LA REPUBBLICA -
Oggi tutti vanno di fretta, a Palazzo Madama, e il salone Garibaldi è attraversato prima dai senatori del Pd che vanno alla loro assemblea e poi da quelli di Forza Italia che tornano dalla loro riunione: due rese dei conti parallele. Anche se ha perso la sua battaglia tra i berlusconiani, Augusto Minzolini è il più sorridente di tutti. Un sorriso che nasconde un’ira bipartisan. Perché l’ex direttorissimo, passato da squalo del Transatlantico a sabotatore di Palazzo Madama, ce l’ha sia con Renzi, «che ha voluto fare una prova di forza sulla legge elettorale perché non si fida dei suoi», sia con Berlusconi, «che gliel’ha lasciata fare, anche con il Quirinale vuoto». E visto che è stato lui a citare il palazzo presidenziale, gli domando chi vorrebbe mandarci Berlusconi. Lui non si tira indietro. «Al momento il dilemma è tra Casini e Amato» risponde, spiegando che Alfano spinge per Casini ma l’ex Cavaliere vuole pensarci su. A Minzolini piace sparigliare, e infatti è stato lui a suggerire a Berlusconi di eleggere Prodi, «l’unico che riuscirebbe a tener testa a Renzi». Non era una provocazione, e lui non dispera che la sua idea prenda consistenza quando si comincerà a votare, «e voglio vedere cosa farà Renzi se alla prima o alla seconda votazione spunteranno quaranta o cinquanta schede con il nome di Prodi».
Eppure anche Minzolini - che ha assistito da giornalista a quattro elezioni presidenziali, prima di partecipare alla quinta come grande elettore - sa che nove giorni sono un’eternità, nelle grandi manovre per il Quirinale. «Ci saranno ancora morti e feriti, prima che si cominci a votare» dice. Ma voi, gli domando, vi aspettate che Renzi vi offra una rosa di candidati, o che si presenti con un nome secco? «E chi ci propone, come nome secco? Mattarella?». Non vi piace Mattarella? «Io ho una mia idea, un altro nome. Un uomo che ha un profilo identico a quello di Mattarella, però non è un politico e non lo è mai stato».
Tre colleghi si avvicinano, incuriositi. E chi sarebbe, gli domanda uno, un altro giudice costituzionale? «Un ex giudice costituzionale». Un avvocato? «Un ex presidente della Consulta». Il nome? «Ugo De Siervo. Voi dovete andare in Toscana. Dovete cercare le radici del renzismo. Dovete tornare a Matulli. Quello è il giro. De Siervo non solo è toscano come Renzi, ma è stato il suo professore. E poi, diciamoci la verità, bisogna vedere se Renzi cede o no. Se cede, si va su Amato. Se non cede, arriveremo a un nome del genere». E Veltroni, gli chiedo, lo scartate in partenza? «È un nome che nessuno ci ha fatto. Quello lì è come Nerone. Sospetta di tutti. Quello no, quello neppure, quell’altro neanche. Alla fine chi rimane? Uno come De Siervo». E voi lo votereste? «Noi siamo passati dal tafazzismo al pupazzismo. Qualunque cosa ci chieda, noi diciamo di sì. E così lui continua, per vedere dove può arrivare. Fa bene: ma perché dovrebbe fermarsi, se ogni volta trova un muro di pastafrolla?». Poi Minzolini si ferma. «Oh, stiamo parlando tra noi: non è che scriverai queste cose, vero?», mi chiede, lui che non ha mai lasciato una frase rubata sul taccuino. «Figurati, neanche una parola» gli rispondo. E ci salutiamo, sapendo entrambi che sto andando a scrivere questo articolo.
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CLAUDIO TITO
«Ma allora, al Quirinale chi vorresti? Si potrebbe fare Amato o Casini...». L’incontro tra Renzi e Berlusconi stava per finire. I due si stavano dando la mano proprio sulla soglia dell’ufficio del presidente del consiglio. Il commesso aveva già aperto le porte dell’ascensore di servizio che porta gli ospiti davanti allo scalone d’onore di Palazzo Chigi. E, proprio in quel momento, il leader di Forza Italia si è fermato un momento. Ha lanciato uno sguardo verso Gianni Letta, poi si è rivolto sorridendo al premier: «Chi vorresti al Quirinale? Amato o Casini?». Renzi non ha risposto. Ha continuato a camminare verso l’ascensore e ha tagliato corto: «Ne parliamo martedì» .
LA“ partita” è dunque ufficialmente aperta.
Fino a ieri la corsa al Colle era solo uno spettro, anche se aleggiava su ogni incontro e discussione. Soprattutto incombeva su tutte le votazioni per l’Italicum e per la riforma costituzionale. Ma da ieri quel sottile diaframma dietro il quale il capo del governo si era difeso per rinviare il più possibile il negoziato sulla successione di Napolitano, si è improvvisamente infranto. Le candidature si sono moltiplicate la scorsa settimana e ora si riducono come in un imbuto che seleziona e screma. Se il Cavaliere avanza i nomi di Amato e Casini, nel centrosinistra si rincorrono quelli di Sergio Mattarella, Anna Finocchiaro e praticamente ti tutti gli ex segretari di partito da Veltroni a Bersani. Più qualche ministro come Padoan. E infine quello che i renziani definiscono il «colpo a sorpresa ».
Nei prossimi quindici giorni, il leader Pd si gioca buona parte del suo futuro. Di certo buona parte delle chance di concludere la legislatura. La legge elettorale, l’abolizione del Senato e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se uno solo di questi tasselli si rompe nel delicato mosaico di Palazzo Chigi, tutto salta. Renzi lo sa bene. E prepara la sua strategia: quella del «triplo forno». Con un obiettivo: «Portare alla presidenza una persona civile».
La partita del Quirinale, però, è tutt’altro che semplice. I gruppi parlamentari sono sempre più “balcanizzati”. Il Pd è strattonato dalle correnti e da una gran parte di eletti che rispondono alla vecchia segreteria, quella di Bersani, e non a quella attuale. L’aria che si respira tra i banchi democratici è quella del tutti contro tutti. Con in più la malattia contagiosa della sinistra: fare fuori il capo della corrente avversa. Renziani contro dalemiani, veltroniani contro ex popolari, bersaniani contro amatiani. Forza Italia poi è messa a soqquadro da un caos sistematico. E il M5S, paralizzato dalla diarchia Grillo- Casaleggio, deve fare i conti con un esodo continuo di dissidenti. Nel Transatlantico di Montecitorio e in quello di Palazzo Madama, il clima è sempre più teso. Le previsioni dettate dall’incertezza Il capo del governo sperava di arrivare a questo appuntamento avendo allentato la tensione con l’approvazione delle riforme. L’obiettivo è svanito nelle ultime ore. «Ma io non mollo ripete prima di partire per Davos -. Io non sono uno che si tira indietro». Con i suoi fedelissimi allora sta mettendo a punto il suo piano. «Abbiamo tre forni cui rivolgerci - osserva -: il nostro partito con la minoranza in primo luogo. A Bersani l’ho detto: dobbiamo decidere insieme». Poi c’è il secondo fronte: quello dei «berlusconiani ». E infine i «dissidenti grillini». Il candidato, da ufficializzare al quarto scrutinio, sarà il risultato dell’accordo stretto con «uno o due» di questi forni. «Vedremo quale può essere la soluzione migliore in base a chi accetterà un’intesa ».
Per l’inquilino di Palazzo Chigi, del resto, non c’è alternativa a questo schema. «Io resto comunque centrale». Il motivo è molto semplice: «Senza di me, non si elegge nessuno. Tutti gli altri dovrebbero coalizzarsi contro di me». Ma su chi? Appunto, su chi? Se in pubblico Renzi non fa nomi, con i suoi uomini in realtà le candidature sono state già vagliate e valutate. Amato? «È possibile - chiede ai suoi - che Bersani, Berlusconi e Vendola si mettano insieme per eleggere Amato contro di me? Sarebbe un’alleanza ben strana. E Grillo cosa fa? E la Lega cosa fa? Non mi pare siano sufficienti». Prodi? «La Lega, Berlusconi e i democristiani del Pd dovrebbero unirsi per sostenere Romano contro di me? Anche questo mi pare difficile. E poi Forza Italia accetta questa ipotesi e non fa con me una persona civile? Non credo. Per un semplice motivo: Berlusconi vuole stare al tavolo. Vota l’Italicum perché sa che altrimenti il Quirinale ce lo facciamo da soli».
Il capo del governo, dunque, disegna una scacchiera con tre pedine e tre tappe. Eppure le variabili - in un Parlamento tanto anarchico e frammentato - sono infinite. Basti pensare, appunto, al partito democratico. Dove le faide sono profonde e quasi tutte puntano a far fuori l’avversario interno. Di certo, ai nastri di partenza, anche a Palazzo Chigi, più che Casini e Amato vedono Mattarella e Anna Finocchiaro. Sul primo Renzi da qualche giorno riferisce un episodio che gli è stato raccontato da De Mita: «Quando lo ha nominato commissario per la Dc in Sicilia, ha chiamato il questore e si è raccomandato: “Questo va preservato”».
Anche Bersani parla dell’attuale giudice costituzionale. L’ex segretario segue da giorni una linea abbastanza definita: «Al Quirinale non deve andarci per forza uno della “ditta”», ossia un ex diessino. «L’importante - spiega - è che ci vada una persona autonoma e autorevole ». E con i suoi non nasconde che il suo “campione” è l’ex popolare. Un’opzione fondata sulla stima, ma anche determinata dallo scontro con i dalemiani. Bersani accusa l’ex premier di averlo tradito e si mette di traverso su tutto ciò che proviene da quell’area. A cominciare da Giuliano Amato. Il fronte favorevole all’ex socialista, infatti, è composto in primo luogo dai sostenitori del “lider massimo” e dagli esponenti della Fondazione ItalianiEuropei. Basta sentir parlare il capogruppo democratico alla Camera Speranza (che ascolta spesso i consigli dell’ex presidente della Repubblica Napolitano): «Giuliano è il migliore per quel ruolo». Sono poi dalla sua parte molti degli ex Psi, quelli di Nencini e quelli presenti nelle altre formazioni (ad esempio gli Ncd Cicchitto e Sacconi). Nel frattempo gli ex popolari ridanno vita al metodo delle cene di corrente. Fioroni li riunisce e lancia Mattarella, ma si tiene una carta di riserva: quella di Dario Franceschini. Così come Rosy Bindi che nel bel mezzo del Transatlantico di Montecitorio dice a chiare lettere: «Per me c’è un solo candidato», ossia Romano Prodi. Mentre nel salone Garibaldi del Senato, un altro democratico come il lettiano Francesco Russo, dice a bassa voce: «Per me Matteo andrà su Pierluigi Castagnetti».
Ma la “guerriglia” intestina non risparmia nemmeno Forza Italia. Anzi, lì è ancor più cruenta. «Berlusconi - si lamentava ieri Renzi a un certo punto mi dice: l’emendamento Esposito non lo posso votare perché ho un accordo con Boccia. Con Boccia? E che c’entra?». Boccia è il deputato pd, eletto in Puglia, vicino a Enrico Letta e Massimo D’Alema. Secondo il premier, in questa fase agisce di concerto con un altro pugliese: il forzista dissidente Raffaele Fitto. «Ed entrambi sono guidati - è l’avvertimento dato al Cavaliere - dal “Gran Pugliese”». Ossia, ancora Massimo D’Alema.
Di sicuro Fitto si muove in opposizione al governo e soprattutto al Patto del Nazareno. «Io non mi tiro indietro - avvisa camminando nella Corea, il corridoio più nascosto della Camera né sull’Italicum né sul Quirinale. Non voto l’uomo di Renzi». Pure Berlusconi, quindi, deve fare i conti con la fronda interna. Lancia quindi i nomi di Casini e Amato per alzare la trattativa con palazzo Chigi. «Il mio obiettivo è tornare in pista a febbraio, quando la pena dei servizi sociali sarà finita - è il ragionamento del capo forzista -. Devo recuperare almeno 5 punti nei sondaggi e non mi voglio caricare del peso di mandare al Quirinale uno odiato dall’opinione pubblica ».
Tutti, insomma, fanno il loro gioco. Bastava ascoltare cosa diceva ieri pomeriggio proprio Casini al Senato conversando con Renato Schifani: «Ho parlato le scorse settimane con Alfano e con Berlusconi e ho avuto buoni segnali. Ma altro non faccio. Gli ex ds, che comunque mi stimano, votano Amato. Poi certo bisogna vedere se Renzi non si inventa un colpo di teatro. Ma non lo vedo e in ogni caso il centrodestra muore se vota qualsiasi nome gli proponga il capo del governo».
Ecco, la “sorpresa”. A Palazzo Chigi è un’idea che sta maturando. Le quotazioni del ministro Padoan, ad esempio, sono tornate a salire, anche se di poco. Ma nella road map renziana il punto di partenza è un altro: «Il nome dipende da chi farà l’accordo con me: Bersani, Berlusconi o gli ex grillini?».