Lanfranco Vaccari, SportWeek 17/1/2015, 17 gennaio 2015
IL FALÒ DELLE RIVALIT
I tifosi del baseball hanno cominciato a cantare nel 1908, anche se non lo sapevano ancora. Take Me Out to the Ball Game racconta la storia di una ragazza che accetta l’invito a uscire dal suo bello, ma solo se la porta alla partita. È diventato l’inno non ufficiale dello sport molto prima che gli autori mettessero piede in uno stadio: Jack Norworth, al quale si devono le parole, lo avrebbe fatto addirittura 32 anni dopo, nel 1940, e Albert Von Tilzer, che le ha messe in musica, nel 1928. È stato suonato la prima volta durante una partita di liceo a Los Angeles, nel 1934, e ha debuttato nella Major League qualche mese dopo. Ci ha messo poco a diventare virale. Adesso viene cantato in tutti gli stadi, a metà del settimo inning di tutti gli incontri. Se andate su YouTube, potete vedere in azione colui che è reputato il suo massimo interprete, Harry Caray. Un italo-romeno il cui cognome originale era Carabina, ha cominciato a fare da anfitrione, guidando il coro dello stadio, all’inizio degli Anni 70, quando chiamava le partite per i Chicago White Sox, e ha smesso poco prima di morire, nel 1998 a 84 anni, quando era l’annunciatore dei Chicago Cubs.
Take Me Out to the Ball Game è forse l’unica manifestazione trasversale del tifo americano, con la marginale differenza che, nel ritornello, le parole home team vengono sostituite con il nome della squadra di casa. Per il resto, che sia basket o football, baseball o hockey, gli adepti si comportano come se fossero stati iniziati a una religione alla nascita, considerano il logo della loro squadra come il simbolo della fede e si sottomettono, completamente e volontariamente, alla mitologia dello sport, al suo pantheon di buoni e cattivi (gli avversari in genere, ma qualcuno più di altri), ai suoi meccanismi e alla sua logica (c’è una logica in questa follia). Per quanto pagano sia il rito, ciascuna setta celebra le tradizioni e custodisce le sue liturgie con meticoloso scrupolo, fino a farle diventare tratti identitari.
I canti ne sono l’espressione più ovvia. Ognuno ha i propri, spesso più di uno, e alla Texas A&M University gli studenti si trovano alla mezzanotte della vigilia di gara per le prove generali – ma soprattutto hanno un’altra scusa per ingollare qualche lattina di birra (è un tema ricorrente: alla University of Iowa, dopo ogni vittoria, la banda intona la Hawkeye Victory Polka, la cui prima strofa inizia con “In cielo non c’è birra, per questo la beviamo qui”). Alla Utah State University aggiungono una parola per volta mentre recitano la frase I Believe That We Will Win in un crescendo estatico fino a che il frastuono riempie l’intero stadio. Alla University of Wisconsin le fondamenta sono scosse dai salti con cui i 90 mila spettatori, nell’intervallo fra il terzo e il quarto quarto, accompagnano le note di Jump Around. È un successo del gruppo hip hop House of Pain che risale al 1992, ma è stato adottato solo il 10 ottobre 1998: contro Purdue, i Badgers rimontarono e vinsero dopo non aver segnato per i primi tre quarti, e da allora è diventato una tradizione. Al country si è invece ispirata la West Virginia University quando ha adottato, nel 1972, Take Me Home, Country Roads di John Denver, un inno allo stato. Viene cantata all’inizio di ogni partita e dopo che, il 6 settembre 1980, il cantante l’ha eseguita dal vivo per l’inaugurazione del nuovo stadio, il Mountaineer Field. Anche alla fine, se si è conclusa con una vittoria: sulle note della banda dell’università, giocatori e spettatori cantano insieme.
Il lancio è un altro tratto caratteristico di diverse tifoserie. Alla Joe Louis Arena di Detroit, i sostenitori dei Red Wings fanno volare sul ghiaccio dei polpi. Tutto è cominciato nel 1952, quando i fratelli Pete e Jerry Cusimano ne lanciarono uno per evidenziare il numero di vittorie che mancavano alla Stanley Cup, una per ogni tentacolo. Da allora ne sono piovuti centinaia, il più grosso di 23 kg. Al Superior Fish Market, assieme a ogni polpo destinato al lancio, viene consegnato anche un foglio con l’etichetta per l’uso dell’octopus, l’Octoquette: bollirlo per almeno mezz’ora (i tentacoli di quelli crudi tendono ad attaccarsi al ghiaccio e lasciano una scia viscida quando vengono raccolti), lanciarlo solo dopo un gol dei Red Wings (altrimenti viene fischiata una penalità alla squadra per aver ritardato il gioco) e possibilmente lontano da arbitri e giocatori. La stessa regola seguono alla University of New Hampshire, dove i tifosi dei Wildcats lanciano un pesce morto sul ghiaccio dopo ogni rete degli avversari.
Ma l’oggetto preferito per il lancio è la carta igienica. Nessun rotolo è famoso quanto quelli che, dal 1972 al 2011, hanno adornato le due querce all’incrocio fra Magnolia Avenue e College Street a Auburn, Alabama, dopo ogni vittoria della squadra di football. La tradizione è cominciata a fine Ottocento. Proprio su quell’angolo c’era la farmacia di Sheldon Toomer, che ospitava anche l’unico telegrafo in città. Gli impiegati buttavano i nastri perforati sui fili che arrivavano al Toomer’s Drugs per segnalare che i Tigers avevano vinto in trasferta. Poi, all’inizio degli Anni 70, è arrivata la carta igienica sugli alberi, trasformando il Toomer’s Corner in un luogo sacro. È stato violato alla fine del 2010 da un tifoso di Alabama, Harvey Updyke Jr., che durante una trasmissione alla radio si è vantato di aver avvelenato il terreno. Era vero, lui è stato condannato a sei mesi di prigione e gli alberi nel 2013 sono stati abbattuti. Adesso, il 16 febbraio, ne verranno piantati altri due, alti una decina di metri, ma per un anno, fino a quando le radici avranno preso, non potranno essere addobbati. Per ristabilire la tradizione, fra i tentativi di salvare le vecchie querce e il trapianto di quelle nuove, la Auburn University ha speso 900 mila dollari.
IN SILENZIO FINO AL DECIMO
La carta igienica viene usata anche alla James Brown University, in Arkansas, per celebrare il primo canestro della stagione degli Eagles. La partita riprende dopo che è stato tutto ripulito, al modico prezzo di un fallo tecnico. È quanto pagano anche alla Taylor University, un piccolo ateneo di affiliazione evangelica nel centro dell’Indiana. La prima partita di basket dell’anno è conosciuta come “la notte del silenzio”. Gli spettatori non fiatano fino a quando i Trojans non segnano il decimo punto. A quel punto perdono il controllo e celebrano senza inibizioni per diversi minuti, come se niente di divertente possa accadere fino all’inizio della stagione successiva.
Il fuoco è il terzo elemento in comune a diverse tifoserie. Alla West Virginia lo usano sia per celebrare le vittorie che le sconfitte e sono largamente primi nella classifica nazionale degli incendi appiccati. Il loro record è di 1.230 fra il 1997 e il 2003, anno in cui ne accesero 120 dopo una vittoria contro Virginia Tech. Adesso sono scesi alla media di una dozzina alla settimana, per tener dietro al motto ufficioso dei tifosi dell’università: “Si vinca o si perda, noi beviamo comunque”. Al secondo posto ci sono i sostenitori dei Terrapins, come vengono chiamate le squadre della University of Maryland. Anche loro, comunque vadano a finire le cose, danno fuoco a qualsiasi cosa, dai cassonetti alle macchine della polizia, passando per i mobili e i ripetitori delle tv via cavo (le cui reti trasmettono le partite). Nessuna partita con Duke si conclude senza qualche dozzina di arresti.
Come ovunque, anche in America il tifo ospita la peggior collezione di umanità al di fuori del sistema carcerario. È minoritaria, certamente, ma non irrilevante. Philadelphia ha accolto con un coro di Boooo! sia Babbo Natale in visita allo stadio che i Phillies dopo la vittoria in una World Series, oltre che salutare così, nel 1999, anche l’infortunio al collo che mise fine alla carriera di Michael Irvin, il wide receiver dei Dallas Cowboys. Nel contrappasso dal peggio al meglio, meritano una menzione i tifosi dei Cardinals, che accolsero con una standing ovation i Boston Red Sox quando si presentarono per la prima volta a St. Louis dopo aver spezzato, nel 2004, la Maledizione del Bambino e vinto le World Series. E quelli dei Cornhuskers, che applaudono chiunque riesca a vincere nello stadio della University of Nebraska, a Lincoln (un posto in cui c’è il tutto esaurito in ogni partita dal 1962; i matrimoni, in settembre, vengono fissati dopo che è stato annunciato il calendario del football; e, sui voli in arrivo e in partenza, il comandante ragguaglia sul punteggio della partita, oltre che sulla rotta).
Che cos’altro? In ordine sparso: i Cheeseheads, i tifosi dei Green Bay Packers, hanno un sito internet dedicato di dating, dove si possono trovare uomini e donne che condividono la stessa visione del mondo; dopo ogni partita in trasferta, i tifosi dei Seminoles “rubano” una zolla di terreno che ripiantano nel Cimitero delle zolle, in un angolo della Florida State University, a Tallahassee; e a Pittsburgh hanno fatto diventare un simbolo degli Steelers la Terrible Towel, l’intimorente asciugamano giallo e nero agitato da tutti i 65 mila spettatori dell’Heinz Field (i ricavati delle vendite finanziano un centro per disabili mentali, per un totale di 3 milioni di dollari in 30 anni). Si arriva così all’altra manifestazione trasversale che unisce lo sport americano, il tailgating. Ha poco a che fare con il tifo e molto con l’idea di stare insieme e divertirsi un po’. Si fa attorno agli stadi di football, perché lì c’è lo spazio per aprire gli sportelloni posteriori e tirar fuori tutto quello che serve a un picnic. Diventa un happening mangereccio di dimensioni gigantesche. Ma anche i più famosi, come Kansas City e Green Bay, sono poco in confronto a quello che succede a Oxford, in una zona della University of Mississippi nota come The Grove, il boschetto. Nella notte della vigilia vengono erette 2.500 tende su quattro ettari e il meglio della cucina del Sud viene preparato per 100 mila visitatori. L’università ha speso più di mezzo milione di dollari per le toilette mobili. Le pulizie impegnano 185 persone e costano quasi 40 mila dollari l’anno (le opere di giardinaggio qualcosa di più). Ma, nei weekend delle partite di Ole Miss, è l’evento sociale più importante dello stato.