varie 20/1/2015, 20 gennaio 2015
ARTICOLI SUL TOTO-QUIRINALE DAI GIORNALI DI MARTEDI’ 20 GENNAIO 2015
MARIA TERESA MELI, CORRIERE DELLA SERA -
«Basta ipocrisie, la minoranza non sta ponendo problemi di merito, ma sta facendo un’operazione politica, come altro si può definire l’emendamento Gotor?». Matteo Renzi non ha dubbi: sull’Italicum si sta giocando, dentro il Pd (ma anche fuori), una partita che poco ha a che fare con i contenuti della riforma elettorale. Riguarda invece la vicenda del Quirinale, e non solo quella, perché nel Partito democratico, sostengono i renziani, c’è chi vorrebbe «mettere in minoranza il premier», cavalcando la battaglia dell’Italicum.
La tensione è altissima. E l’incontro della scorsa settimana tra Pier Luigi Bersani e il presidente del Consiglio non è andato affatto bene. L’ex segretario, dopo quel faccia a faccia, ha confessato ai suoi: «Quel colloquio mi ha lasciato interdetto».
Renzi non ha fatto un nome per il Quirinale a Bersani, il quale da parte sua ha aperto all’ipotesi di una candidatura di Giuliano Amato, che, com’è noto, è caldeggiata da Silvio Berlusconi. Insomma, nonostante la scadenza dell’elezione del capo dello Stato sia imminente, tra la minoranza e Renzi non si è addivenuti a un compromesso. E il terreno per trovare questa intesa non sarà certo quello della riforma elettorale, perché, per dirla con il premier, «non ci sono più margini di modifica del testo del disegno di legge». Tant’è vero che il presidente del Consiglio per forzare la mano oggi incontrerà Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, con l’obiettivo di chiudere un accordo definitivo con entrambi per far passare l’Italicum a Palazzo Madama nei tempi stabiliti.
Inevitabilmente, si parlerà anche del Quirinale in entrambi gli incontri. L’inquilino di Palazzo Chigi, però, non scoprirà le sue carte nella partita presidenziale. «È ancora troppo presto», spiega ai suoi.
Renzi non intende fare passi falsi e vuole aspettare di comprendere le reali intenzioni altrui e di capire sino a che punto l’alleato Alfano e l’oppositore Berlusconi sono determinati a impuntarsi su un nome.
Gira voce che entrambi, alla fine della festa, puntino su Giuliano Amato, come Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. E nella minoranza più dialogante del Partito democratico si dà per scontato che alla fine Renzi sarà costretto a convergere anche lui su Amato.
Il presidente del Consiglio, però, al momento, non dice né sì né no di fronte alla maggior parte dei nomi che gli vengono fatti. Una cosa è certa: non vuole farsi imporre nessun papabile, non intende finire questa partita quirinalizia con le spalle al muro, costretto a scegliere un nome altrui. «Vedo che ci sono molti professionisti della politica che si sono autocandidati», si limita a dire in questi giorni ai fedelissimi, continuando a tenere ben coperte le sue prossime mosse.
Ora quello che interessa al premier è spingere sulla riforma elettorale. Il nodo della presidenza della Repubblica lo scioglierà solo alla fine, qualche giorno prima della data fissata per le elezioni del successore di Giorgio Napolitano. Adesso Renzi deve «stringere» sull’Italicum. Perciò non vuole assolutamente intavolare nessuna nuova trattativa su quel testo con la minoranza del suo partito. Perché, come spiega un autorevole esponente renziano, «significherebbe riaprire tutta la pratica e a quel punto non ne usciremmo più vivi».
«A questo punto non ci sono più mediazioni possibili, le abbiamo fatte tutte», ha perciò annunciato ieri il presidente del Consiglio ai compagni di partito. Renzi, infatti, non è più disposto a temporeggiare o a farsi «cuocere a fuoco lento». Lo ha spiegato con grande nettezza anche ai suoi, alla vigilia dell’approdo nell’aula del Senato della riforma: «Se c’è qualcuno che vuole tornare al 2013, con una legge elettorale impraticabile e con la confusione massima sull’elezione del capo dello Stato, si accomodi. Noi, però, non ci stiamo, così si va tutti a casa».
Quindi il premier vuole un voto nel gruppo del Partito democratico a Palazzo Madama, all’assemblea prevista per oggi: «Ci vuole chiarezza, niente palude e niente tranelli», ha spiegato l’inquilino di Palazzo Chigi. Già, perché i renziani sono convinti che la minoranza al Senato voglia proprio tendere una trappola al presidente del Consiglio, «saldandosi con una fetta delle opposizioni, con i fittiani, per esempio». «Vogliono far saltare il banco del governo e riprendersi il partito», è l’atto d’accusa dei luogotenenti del premier.
Una manovra, questa, ben più insidiosa della microscissione che viene prospettata da alcuni dopo la decisione di Sergio Cofferati di abbandonare il Pd.
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PAOLA DI CARO, CORRIERE DELLA SERA -
L’accelerazione è imposta dal frenetico incrocio di voti — Quirinale, riforme, legge elettorale — e dal montare delle tensioni interne a Pd e FI che potrebbero far saltare i delicatissimi equilibri del patto del Nazareno. Per questo l’incontro tra Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, con rispettive delegazioni (Toti e Ghedini da una parte, Lupi e Quagliariello dall’altra e Cesa in rappresentanza dell’Udc), è stato anticipato a ieri sera, a Milano in Prefettura. Come è stato ufficializzato quello che si terrà stamattina a Palazzo Chigi con Matteo Renzi, per discutere di Quirinale e riforme.
Se si tratti di momenti decisivi e conclusivi per la maxipartita riforme-legge elettorale-Quirinale lo si capirà nelle prossime ore, ma una cosa è certa: Berlusconi tenta in tutti i modi di conquistare assoluta centralità nella scelta del candidato al Colle. Vero obiettivo, quello al quale tiene più di qualsiasi altro per ritornare a quella «piena agibilità politica», che rivendica, e non solo. Per questo ha deciso di ricostituire proprio su questo terreno l’asse moderato con Alfano e i centristi, che serve anche a rimettere in piedi un’alleanza sgretolata. Per questo ha incontrato vis-à-vis domenica sera a cena, ad Arcore, Matteo Salvini (mentre Alfano ieri si è incontrato con Maroni). E per questo ha placato (per ora) i suoi in subbuglio chiedendo toni bassi e pazienza, da Brunetta (col quale ha parlato ieri mattina) a Fitto, che incontrerà tra oggi e domani, ma che resta sul piede di guerra e deciso a votare no con il suo gruppo sia sulle riforme che sulla legge elettorale se non passerà il premio di maggioranza alla coalizione al posto di quello di lista imposto da Renzi.
In questo puzzle ancora totalmente da comporre, l’intesa con Alfano è comunque un risultato molto positivo per il Cavaliere, che prima di entrare in Prefettura si era detto «ottimista» sulla possibilità di arrivare a un presidente «garante di tutti e non di una parte». Alla fine delle quasi due ore di colloquio, è stato il leader dell’Ncd ad annunciare quella che si profila come una svolta: «Abbiamo deciso di unire le forze che si riferiscono al Ppe per condividere la scelta di un candidato presidente della Repubblica di area moderata e non del Pd. Ci rivedremo nei prossimi giorni per indicare un nome. Abbiamo concordato sul metodo», che vedrà una consultazione permanente. Conferma Giovanni Toti: «Faremo pesare i nostri voti (sulla carta quasi 150 per FI e circa 80 per l’area moderata, ndr ), indispensabili per eleggere il capo dello Stato. Che non potrà essere esponente del Pd perché non è possibile che la sinistra abbia tutte le cariche istituzionali del Paese: è ora di un presidente espressione dell’area popolare e di centrodestra».
Su come arriverà la proposta dell’asse moderato ancora non ci sono certezze: si parla della possibilità che venga avanzata una rosa di nomi, oppure — ipotesi di cui si parla in queste ore — si andrebbe sulla candidatura di Antonio Martino alla prima votazione, che rappresenterebbe la «bandiera» sotto la quale contare i propri voti e farli pesare per il quarto scrutinio (a maggioranza assoluta). Solo a quel punto, verificata la tenuta dei rispettivi eserciti, si cercherebbe di far passare uno dei due candidati ad oggi fra i più gettonati del toto-Quirinale: o Amato (che però non sarebbe certo il più gradito a Renzi) o Casini, sul quale potrebbe convergere senza sforzo l’area ex popolare del Pd.
Chiaro però che la partita sia ancora totalmente aperta, e come negli scacchi si sia solo alla fase del posizionamento. Ma, se l’intesa di centrodestra reggerà — gli azzurri sperano che, nel segreto dell’urna, anche la Lega sia disponibile a collaborare —, un vantaggio strategico per Berlusconi e Alfano sarà già acquisito.
Perché però la posizione dei moderati sia davvero di forza è necessario che i partiti che compongono il uovo asse siano uniti al loro interno, o perlomeno lo appaiano ai blocchi di partenza. Cosa che allo stato non è affatto certa.
In Forza Italia infatti, nonostante ieri i toni siano rimasti bassi e alcuni liti paiano rientrate, la partita è tutta da giocare. Berlusconi appunto ha parlato con Brunetta, e si è riappacificato dopo lo scontro di due giorni fa: il capogruppo, rassicurato dal fatto che sulle riforme il voto finale alla Camera dovrebbe slittare a dopo il Quirinale, ha accolto l’invito a troncare la polemica con Renzi. Con Fitto invece le posizioni restano distanti. Oggi all’incontro con Renzi, al quale andrà accompagnato da Letta e Verdini, Berlusconi dovrebbe ribadire l’indisponibilità del suo partito a votare il premio di lista, ma dovrebbe anche ribadire il sì finale alla legge elettorale. Se ci saranno cedimenti su questo fronte, sarà difficile per il Cavaliere mantenere compatte le sue truppe, dopo che già ieri nel voto alla Camera sul bicameralismo FI ha avuto pesantissime defezioni. Ma anche se l’intesa del Nazareno fosse semplicemente confermata, il gruppo dei fittiani è orientato a votare no alla legge elettorale, come sulle riforme. Un segnale forte per marcare l’identità di una minoranza che però potrebbe poi allinearsi alla maggioranza nel voto sul Colle se il candidato fosse espressione del fronte moderato.
Saranno gli incontri delle prossime ore a fare almeno un po’ di chiarezza su un cammino che appare ancora accidentato e molto, molto lungo.
Paola Di Caro
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FRANCESCO BEI, LA REPUBBLICA -
«Se Renzi vuole uscire vivo da questo Vietnam l’unica è che proponga subito a Bersani di andare al Quirinale». Mario Mauro, senatore ex montiano, fornisce una chiave di lettura paradossale di quanto sta avvenendo in Parlamento a dieci giorni dall’inizio delle votazioni per il Colle. Ma fotografa una verità: alla vigilia della battaglia finale sull’Italicum mai come in questo momento il Pd risulta spaccato. Un pessimo viatico per Renzi, che fronteggia una minoranza agguerrita e decisa a farsi valere anche a costo di votare contro la legge elettorale. E se Paolo Orsini, senatore bersaniano, ci tiene a precisare che «metodologicamente l’Italicum e il Quirinale sono due questioni diverse», nel governo nessuno si fa illusioni sul comportamento dei dissidenti democratici.
Per questo la strategia del premier viene costantemente aggiornata. Per capire il profilo del candidato giusto bisognerà prima aspettare il finale di partita sull’Italicum. E capire quanti della minoranza effettivamente si faranno prendere la mano fino ad arrivare a un punto di non ritorno. I renziani sono convinti che, al momento del voto, solo una quindicina di irriducibili seguirà Miguel Gotor. Ma se fossero più numerosi? Nella cabina di regia istituita a palazzo Chigi si pensa quindi al profilo migliore per disinnescare eventuali rappresaglie delle minoranze organizzate di Pd e Forza Italia. Dopo aver scartato i segretari e i leader del centrosinistra del passato Renzi ha iniziato infatti a valutare gli “outsider”. Quei candidati dall’identità più neutra, in grado di venire incontro all’area di centrodestra. L’unica che potrebbe compensare, con i propri 250 voti, quei buchi che dovessero aprirsi nelle file del Pd. Così da ieri, sulle frequenze di Radio Montecitorio, sono tornati a frusciare i nomi di alcuni esterni di lusso. Come Ugo De Siervo, già presidente della Corte costituzionale e allievo di quel Paolo Barile sul cui manuale di diritto si sono affaticate legioni di studenti. Un candidato nato in riva all’Arno, il che non guasta nell’era renziana. Oltre al sempreverde Mattarella, si è quindi iniziato a guardare a Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. E le previsioni per la prima volta ottimistiche, uscite ieri da Bankitalia per bocca del direttore generale Salvatore Rossi («il primo trimestre del 2015 dovrebbe far segnare un piccolo aumento del PIL e si tratterebbe del primo di una serie di rialzi trimestrali che proseguirebbero fino a tutto l’anno prossimo ») sono subito risuonate in Parlamento come una conferma della nuova sintonia tra Visco e il premier.
La lista degli outsider comprende anche Anna Finocchiaro, possibile cerniera fra l’ala bersaniana e i renziani. Soprattutto se l’Italicum dovesse passare indenne le forche caudine del Senato. Ieri, nella buvette di palazzo Madama, l’ex magistrato Finocchiaro, elegantissima come una Iotti, distribuiva sorrisi e scongiuri a chi la salutava con un «signora Presidente ». E Giuliano Amato? Corre voce che farà parte della rosa che Berlusconi e Alfano proporranno a Renzi. Ma il premier sospetta invece che l’ex dottor Sottile sarà il candidato occulto di un patto tra bersaniani e vendoliani siglato proprio per danneggiare palazzo Chigi. Per questo guarda con circospezione a una candidatura che nasce, per il momento, fuori dalla sua sfera di controllo.
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SEBASTIANO MESSINA, LA REPUBBLICA -
A Montecitorio oggi le assenze si notavano più del solito: anche se l’aula stava votando la riforma della Costituzione, si aveva la sensazione che tutto stesse accadendo altrove. Renzi era al Senato, alle prese con i dissidenti, mentre da Milano arrivava la notizia di un incontro tra Berlusconi e Alfano e nei corridoi rimbalzavano le voci di contatti segreti tra berlusconiani e bersaniani per sostenere Giuliano Amato.
A metà pomeriggio è spuntato Orfini, l’altro Matteo del Pd. Era di buon umore. «Volete il nome del mio candidato?» ha chiesto ai giornalisti. «Ve lo dico: Clarence Seedorf. Ah, voi parlavate del Quirinale? Io pensavo della panchina del Milan…». In quel momento attraversava a passo svelto il Transatlantico Antonio Martino, che stavolta non sarà tra i grandi elettori ma è una delle voci più ascoltate da Berlusconi (che gli diede la tessera numero 2 di Forza Italia). Anche lui era allegro. «Come diceva Lenin, cercate il grano delle cose sotto la paglia delle parole. E io sotto la paglia delle parole di Renzi non vedo nulla». Sorprendentemente, il fatto che siano in rialzo le quotazioni di Giuliano Amato per Martino non è una buona notizia. «Per carità! Non dimentico quello che Amato fece nel 1992, quando mise le mani nei conti correnti degli italiani. E non dimentico come voltò le spalle a Craxi nel momento della caduta. Certo, è intelligente. È meglio di Prodi. E Prodi è meglio della Bindi. E la Bindi è meglio di Zagrebelsky. Ma non è che per prendere il meno peggio dobbiamo farci fregare…».
Come se avesse sentito di essere stata evocata, la Bindi è arrivata dopo cinque minuti. Era trafelata – per il ritardo – e si è tolta la sciarpa di seta con fiori blu mentre entrava in aula, di fretta perché nel Transatlantico già risuonava il cicalino che annuncia le votazioni. Quando è uscita non ha voluto commentare le voci di una convergenza dei bersaniani su Amato, che notoriamente non dispiace a Massimo D’Alema. «Ma state attenti – ha detto – a non confondere i dalemiani con i bersaniani. I dalemiani sono una cosa ben definita, i bersaniani ormai sono una galassia con tanti pianeti e numerosi satelliti, ed è difficile dire se la pensano tutti allo stesso modo».
Ma lei, abbiamo provato a chiederle, chi preferirebbe al Quirinale? Amato? Mattarella? Veltroni? «Io un nome ce l’avrei. Ma non lo dico neanche sotto tortura perché se Renzi viene a sapere che c’è un candidato che mi piace, automaticamente quel nome è bruciato». Già, la storia dei duelli verbali tra lei e il premier è così lunga da riempire un quaderno. Alle primarie del 2012, giusto per dirne una, lei appoggiava Bersani, e definì Renzi «figlio del ventennio democristiano». E lui se la legò al dito: «Non vengo ai vertici di partito con Rosy Bindi» mandò a dire da Firenze dopo la “non-vittoria” di Bersani. Da allora, lei è una delle parlamentari più toste, una che non molla mai. E il nome, oggi, non vuole proprio rivelarlo. «Le dico l’identikit. Dev’essere autorevole e indipendente. Soprattutto indipendente. E indipendente dal governo, si capisce. Il capo dello Stato è una figura di garanzia, chiamato a presiedere il Csm e quindi a tutelare l’autonomia del potere giudiziario. Gli italiani devono essere certi, quando il nuovo presidente prenderà una decisione, che l’avrà presa usando la sua testa, non la testa di Renzi. Direi la stessa cosa di qualunque presidente del Consiglio, sia chiaro». Ma oggi c’è Renzi, a Palazzo Chigi, ed è a lui che Rosy Bindi manda il suo messaggio in bottiglia, prima di andare a presentare un libro alla Feltrinelli. Autore, Antonello Capurso. Titolo: Storia dell’insolenza.
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FABIO MARTINI, LA STAMPA -
Nessuno dei dieci Presidenti della Repubblica italiana, dal 1948 ad oggi, è stato eletto grazie al decisivo appoggio degli alleati americani, il Quirinale è sempre restato fuori dalla sfera delle ingerenze, e anche per questo motivo l’ambasciatore a Roma John Phillips si è sentito libero di poter esprimere la propria opinione sulla imminente elezione del Capo dello Stato. In una intervista al «Messaggero», l’ambasciatore americano ha sciorinato una conoscenza approfondita della politica italiana proponendo un auspicio non rituale: «Sia un Presidente indipendente, a volte capace di opporsi ai desideri del premier».
Un identikit, quello di Phillips, che pur restando sul piano degli auspici, sembra privilegiare pochi, selezionati candidati e accantonarne altri. Primo messaggio: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica sarà «un test importante» per Matteo Renzi. Secondo: Phillips traccia un identikit molto preciso del Presidente «ideale»: «Per gli italiani è importante non ritrovarsi qualcuno che non è mai stato sulla scena politica nazionale», «credo che molta gente osserverà con attenzione le mosse di Renzi nella convinzione che abbia la confidenza per sostenere qualcuno davvero indipendente, provvisto di una forte personalità e autorevolezza».
Un identikit che culmina con due pennellate a tinte forti. La prima: «Non qualcuno che sia percepito come sottomesso, o troppo giovane e con una limitata capacità di autonomia». La seconda: «Sarà un test per dimostrare la capacità di portare al Quirinale qualcuno di riconosciuta statura, con la capacità e lo standing di un Presidente della Repubblica». In altre parole l’ambasciatore fa capire che alla Casa Bianca si aspettano un Capo dello Stato sul modello di Giorgio Napolitano, elogiatissimo da Phillips, per le doti apprezzate da Obama: «equilibrio», «saggezza», «capacità di giudizio», «acume» politico. Doti che a Washington non riconoscono ancora a Matteo Renzi? Questo l’ambasciatore non lo dice e neanche vi allude, ma sicuramente la Casa Bianca vorrebbe rivedere quelle virtù nel nuovo Capo dello Stato. Ovviamente John Phillips si guarda bene dal far nomi. D’altra parte, anche negli anni della Guerra Fredda non risulta che gli americani si siano mai spinti oltre all’espressione di un «non gradimento» nei confronti di determinati candidati. Stavolta per chi fa il tifo la Casa Bianca? Impossibile dirlo. Di certo pochissimi candidati corrispondono all’identikit di Phillips. Sicuramente Giuliano Amato. Probabilmente Ignazio Visco e Romano Prodi, in parte Pier Carlo Padoan.
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MARCO LILLO, IL FATTO QUOTIDIANO -
Il “carabiniere” dovrebbe diventare consigliere della sicurezza mentre il “poliziotto” dovrebbe essere il suo segretario generale. È questo lo scenario delineato, secondo fonti vicine al generale Leonardo Gallitelli e al presidente di Finmeccanica Gianni De Gennaro, se Giuliano Amato riuscisse a diventare presidente. Dietro i due probabili futuri collaboratori ci sono pezzi importanti degli apparati e delle forze di sicurezza più vicine alle alleanze atlantiche, nel segno della continuità.
POTERI che resistono ai ribaltoni e per questo preziosi per chi vuole avere un referente costante nell’instabile Stato italiano. Entrambi sono nati nel sud, entrambi nel 1948. Entrambi hanno segnato la storia del loro rispettivo corpo di appartenenza. Per anni Gianni De Gennaro è stato chiamato “il capo” dagli alti gradi della polizia anche dopo i fatti del G8 e anche dopo il suo passaggio al Dipartimento di Informazione e Sicurezza, l’organismo di vertice dei servizi segreti. Mentre il “Gallo”, come è soprannominato l’ex comandante che per quasi un decennio è stato l’uomo forte dei carabinieri, prima dal 2006 come capo di Stato Maggiore e poi dal 2009 da comandante generale. Fonti vicine ai due sostengono che entrambi avrebbero una sorta di patto tacito con Giuliano Amato. Gallitelli aveva cercato di ottenere la proroga per arrivare a questo passaggio con i galloni di comandante ma ha dovuto lasciare il posto al generale prescelto dal ministro Pinotti: Tullio Del Sette.
L’INCARICO di consigliere è oggi ricoperto dall’ex comandante della guardia di ginanza Rolando Mosca Moschin, 76 anni a marzo. Gallitelli nella sua nuova posizione dovrà gestire la razionalizzazione dell’elefantiaco apparato che si occupa della sicurezza del capo di Stato: 250 corrazzieri per la sicurezza interna più 240 poliziotti e altrettanti carabinieri per la sicurezza esterna del Quirinale, di Castelporziano e di Villa Rosebery, oltre a tutti gli spostamenti del presidente. C’è un apposito ufficio presidenziale della polizia e un apposito reparto dei carabinieri. Con la follia ulteriore di affidare il coordinamento della scorta mista un giorno all’Arma e un giorno alla polizia. Gallitelli avrà il compito di dare un senso, anche economico, a questo apparato. De Gennaro punta invece alla poltrona di segretario generale. Una carica ben retribuita (circa mezzo milione di euro all’anno) che potrebbe assumere anche un’inedita valenza internazionale grazie ai suoi rapporti internazionali. Entrambi porterebbero al Colle il vantaggio di un filo continuo con magistratura, carabinieri, polizia e servizi segreti, non solo italiani. Gallitelli in più vanta un feeling ottimo con Berlusconi che non lo vedrebbe male addirittura come candidato di riserva al posto di presidente della repubblica. Anche se l’uomo di punta del Cavaliere è l’ex braccio destro di Bettino Craxi. L’intesa tra De Gennaro e Amato è cementata dall’asse atlantico. L’ex presidente del Consiglio è stato a lungo il presidente del Centro studi americani (sempre finanziato generosamente dalla Finmeccanica di Guarguaglini) poltrona che ha lasciato, quando è stato nominato giudice costituzionale, proprio a De Gennaro.
L’EX CAPO della Dia e della polizia, dai tempi delle storiche operazioni antimafia Pizza Connection e Iron Tower è considerato una sorta di agente in più degli americani. Rapporti celebrati nel 2006 con la medaglia al merito consegnata alla presenza dei capi dell’Fbi Louis Freeh (dal 1993 al 2001) Robert Mueller (2001-2013) e James Comey, in carica dal 2013. Sottosegretario con delega ai servizi segreti nel governo di Mario Monti, De Gennaro nel luglio del 2013, non a caso, è planato sulla poltrona di presidente di Finmeccanica, società strategica per l’Italia ma anche per gli Usa soprattutto dal 2008 quando ha comprato per 5,2 miliardi di dollari la Drs, un’azienda i cui segreti possono essere portati a conoscenza solo di cittadini americani. Nel curriculum firmato di suo pugno nel luglio 2013 per Finmeccanica, De Gennaro cita solo un politico: Amato, il ministro dell’interno che lo ha scelto nel 2007 come capo di gabinetto del ministero e prima ancora, da premier, come capo della polizia. Ora è giunto il tempo che le strade di Gianni e Giuliano si incrocino ancora. Sul Colle.
LO SCENARIO accreditato dalle fonti vicine ai due uomini dell’ordine pubblico italiano però prevede anche un “piano B”. Se Amato fallisse c’è già pronto un altro candidato che ha un profilo simile. È Piero Grasso. Anche lui amico di De Gennaro (ha un figlio in polizia dai tempi d’oro del “Capo”) e di Gallitelli ma anche delle forze di sicurezza e della magistratura. E anche lui è ben visto da Silvio Berlusconi, come Amato.
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MASSIMILIANO SCAFI, IL GIORNALE -
RomaAncora lui, ancora il Dottor Sottile. Non è una donna e nemmeno una faccia nuova, anzi gli italiani lo conoscono benissimo e, stando ai sondaggi, non lo amano un granché, soprattutto dopo la storia del prelievo notturno del sei per mille sui conti correnti, che però risale al lontano 1992. Eppure, a questo punto della corsa, Giuliano Amato è in testa. Nel palazzo del Quirinale lo danno già per sicuro.
Di sinistra ma non troppo. Parla bene l’inglese e sa di economia. Ha scritto la nuova Costituzione europea. Piace a Washington, a Berlino e a Bruxelles. Politico di grande esperienza: due volte presidente del Consiglio, vicepremier, ministro degli Esteri e dell’Interno. Giurista di lungo corso: ha insegnato a Roma, Firenze, New York e da 2013 è giudice costituzionale. Può essere lui, dicono, l’uomo capace di mettere d’accordo Renzi, Berlusconi e Alfano. Silenzioso da mesi, Amato sta lavorando anche sul suo punto debole, la popolarità. Accusato di essere l’emblema della Casta, accumulatore seriale di incarichi e di laute pensioni, ha fatto sapere che, da quando è alla Consulta, percepisce soltanto lo stipendio della Corte, senza cumuli. Il vitalizio da ex capo del governo e quello da ex parlamentare sarebbero infatti devoluti a un istituto di beneficenza. Quanto all’Inps, avrebbe fatto domanda di auto-sospensione.
Basterà questa campagna per renderlo simpatico, o almeno digeribile? Nel caso c’è pronto Sergio Mattarella, un altro politico diventato giudice costituzionale, un altro di sinistra ma non troppo. Fratello del procuratore ucciso dalla mafia, Mattarella è un ex democristiano, quindi teoricamente più appetibile per Forza Italia rispetto a un ex segretario del Pd. Resta da vedere cosa succederà nel Partito democratico. Pippo Civati, uno dei più lontani da Renzi, vede Mattarella davanti al Dottor Sottile. «Matteo non aspetterà il quarto scrutinio, ci dirà subito per chi votare. Credo che pensi a un giudice costituzionale. Se dovessi scommettere dieci euro sul nome, io direi Mattarella».
Ma la corsa è lunga, la partita è tuttora intrecciata all’Italicum e le due settimane che possono cambiare la vita del governo e della legislatura sono appena cominciate. Così gli altri candidati possono continuare a sperare. Se il profilo Pd dovrà essere più mercato, allora Walter Veltroni può tornare in auge. E anche Pier Luigi Bersani: lo smacchiatore di giaguari, che ha comunque un buon rapporto personale con il Cavaliere, frantumerebbe le resistenze interne. Non potrebbe certo essere etichettato come il candidato del Patto del Nazareno.
Se invece la figura del nuovo presidente dovrà essere più neutrale, ecco pronto Pier Ferdinando Casini. Se dovrà essere una donna, c’è Anna Finocchiaro. Emma Bonino si era tirata fuori per motivi di salute, ma Marco Pannella la rimette in posta: «Senza dubbio, se fosse chiamata in causa, Emma si assumerebbe la responsabilità».
In calo invece le quotazioni di Romano Prodi. Secondo quanto si dice in Transatlantico, la manovra a tenaglia organizzata dalla sinistra Pd e da Sel, spingere il Professore nei primi tre scrutini per mettere Renzi davanti al fatto compiuto, non sta trovando la necessaria sponda grillina. M5S infatti dovrebbe votare per Nino Di Matteo.
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ALBERTO GENTILI, IL MESSAGGERO -
Nel giorno in cui la minoranza del Pd fa scattare la sua offensiva contro la legge elettorale e il Patto del Nazareno, nel campo del centrodestra avviene un mezzo miracolo che potrebbe indurre la sinistra, a sua volta, a riconsiderare le proprie divergenze. Per la prima volta dopo la scissione e la nascita del Ncd, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano si ritrovano insieme nel palazzo della Prefettura a Milano. E si incontrano per trovare un’intesa e complicare i piani di Renzi nella partita per il Quirinale.
L’idea ambiziosa, ma neppure tanto: non farsi indicare dal premier-segretario del Pd il nome del prossimo Presidente, accontentandosi di dire un sì o un no, come vorrebbe Renzi. Ma avanzare una candidatura unitaria di tutto il centrodestra, allargato ai centristi dell’Udc, per spingere il Pd a concordare il successore di Giorgio Napolitano. Il nome saltato fuori dal vertice, anche se la parola d’ordine è “silenzio”, è quello di Antonio Martino, ex ministro degli Esteri e della Difesa. Nome buono anche nel caso servisse un candidato di bandiera per pesarsi nelle prime votazioni che scatteranno il 29 gennaio. Ma durante il summit milanese sarebbe emersa anche la disponibilità a convergere su Giuliano Amato o su Pier Ferdinando Casini, se uno di questi due candidati dovesse essere avanzato nel corso della trattativa.
LE RIVENDICAZIONI DI SILVIO
Berlusconi oggi incontrerà il premier per comunicargli la notizia. E anche - nel tentativo di uno cambio - per garantirgli il sostegno di Forza Italia alla legge elettorale alla vigilia delle cruciali votazioni in Senato. Nel vertice però non avrebbe parlato il linguaggio del patto del Nazareno. Anzi. L’ex Cavaliere ha ragionato che non «è possibile che dopo il premier, dopo i presidenti della Camera e del Senato, dopo la vicepresidenza del Csm, un partito che non ha vinto le elezioni, si accaparri anche il Quirinale. Basta con presidenti di sinistra!». Parole che se non hanno fatto scattare una standing ovation degli altri partecipanti al summit, Lorenzo Cesa, Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello, Niccolò Ghedini, Giovanni Toti, poco ci è mancato.
SIGLATA LA TREGUA INTERNA
Nei novanta minuti di incontro, descritto «cordiale» e «molto amichevole», è stato anche deciso un patto di consultazione permanente «tra le forze che fanno riferimento al Ppe», il Partito polare europeo. Vale a dire: Forza Italia, Ncd e Udc. E in settimana verrà celebrato un nuovo incontro, a Roma, allargato ai capigruppo. In più, è stato detto e ripetuto che «Renzi non potrà limitarsi a indicare un nome per il Colle, ma dovrà concordarlo con noi». L’obiettivo: costituire una massa critica da cui il premier-segretario non possa prescindere. «La cosa più importante di questa serata», ha detto Lupi, «è una condivisione e un percorso comune che vale 250 grandi elettori...». «Se Renzi non scopre il suo nome», è stato il ragionamento di Berlusconi, «allora noi presenteremo il nostro candidato, così sarà costretto a trattare con noi». Insomma, il centrodestra prova a ricompattarsi per spingere il premier-segretario a scoprire le carte e a mediare sul successore di Napolitano.
Al termine, l’ex Cavaliere è uscito in auto accompagnato da Toti senza rilasciare dichiarazioni. E’ stato così il leader del Ncd a incontrare i giornalisti nel cortile della Prefettura: «Con Berlusconi abbiamo raggiunto un’intesa sul metodo e abbiamo deciso di unire le forze che si riferiscono al Ppe per condividere la scelta di un candidato alla presidenza della Repubblica di area moderata e non del Pd. Insieme abbiamo convenuto sul fatto che in vent’anni mai l’area moderata ha potuto esprimere un Presidente, nonostante abbia vinto e governato più volte. Nei prossimi giorni ci rivedremo per indicare un nome condiviso. Quella di oggi è stata una conversazione proficua, cordiale e propositiva».
Più prudenti e con toni meno anti-renziani, le parole di un altro partecipante al summit, il segno che l’incontro milanese è solo il primo passo di una lunga e difficile trattativa: «Non si è parlato di veti a candidati del Pd: avendo detto no a preclusioni degli altri, ovviamente mi sembra sbagliato dire che escludiamo a priori che ci sia un candidato del Pd. Ma se non ci sono preclusioni non possiamo escludere, anzi vorremo che fosse presa in grande considerazione, anche per le caratteristiche della situazione in cui ci troviamo a votare dopo i positivi nove anni di Napolitano, un candidato che non sia espressione del Pd. Ci sarà dunque un parere condiviso e unitario da parte di Area popolare e Forza Italia nel dialogo con Renzi».
L’idea di lanciare un candidato del centrodestra era stata avanzata domenica da Alfano. Il leader del Ncd aveva messo a verbale: «Le forze parlamentari che non fanno capo al Pd e che invece si riconoscono nel Ppe devono trovare una strada unitaria per far valere la voce e l’opinione dei moderati». Una partita che secondo il ministro dell’Interno va anche al di là della delicatissima e importante questione del Quirinale: «Per il bene dell’Italia bisogna riunire il centrodestra», ha detto ieri a Milano prima di andare al vertice in Prefettura, «se infatti si votasse domattina, di fronte allo sconquasso evidente del nostro schieramento, Renzi vincerebbe sicuramente».
Insomma, oltre che per il Quirinale, a destra si lotta per la sopravvivenza. Ma ora il primo nodo da sciogliere è quello sulla successione a Napolitano. E Forza Italia con il consigliere politico di Berlusconi, Giovanni Toti, condivide la posizione del leader del Ncd: «La sinistra ha già tutte le alte cariche dello Stato senza avere la maggioranza assoluta nel Paese, dunque siamo d’accordo con Alfano. Bisogna riequilibrare e il centrodestra, le forze che si riconoscono nel Ppe, devono avere una condivisione ampia in Parlamento sul nome del futuro presidente della Repubblica».
Berlusconi intanto cerca di ricompattare Forza Italia. E ieri mattina ha chiamato Renato Brunetta che aveva bacchettato durante il week end. Nel corso del colloquio, che fonti forziste definiscono «assolutamente cordiale», l’ex Cavaliere e il capogruppo hanno parlato della riunione in programma domani con i deputati.
Alberto Gentili
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IL SOLE 24 ORE -
Dalla Corte costituzionale al Quirinale il passo è breve. E non solo perché i due palazzi affacciano sulla stessa piazza ma perché alla Consulta in molti guardano per trovare il successore a Giorgio Napolitano. Tra i nomi più ricorrenti da quando è decollato il toto-Quirinale ci sono quelli di due giudici costituzionali in carica: Giuliano Amato, nominato nel settembre 2013 proprio da Napolitano (che lo considera un eccellente candidato alla sua successione) e Sergio Mattarella, eletto dal Parlamento nel 2011, cattolico che arriverebbe al Quirinale dopo due presidenti “laici”. Ma scorrendo l’elenco dei «quirinabili» citati nelle cronache degli ultimi giorni c’è da segnalare anche un presidente emerito della Consulta, Sabino Cassese. Anzi due: perché della lista fa parte anche Ugo De Siervo. A rilanciare l’ipotesi è stato il sito Affaritaliani.it, secondo il quale il giurista di chiara fama, 72 anni, sarebbe la “carta segreta” che il premier Matteo Renzi tiene in tasca, pronto a calarla solo al momento giusto.
I rapporti tra Renzi e la famiglia De Siervo sono antichi. A legare il professore di diritto costituzionale con cattedra all’università di Firenze e il premier c’è il figlio del giurista, Luigi De Siervo, amministratore delegato di RaiCom e presidente di Adrai (l’associazione dei dirigenti dell’azienda di viale Mazzini). De Siervo junior finì nella bufera perché nel 2012, ai tempi della prima (fallita) scalata del sindaco di Firenze al segreteria del Pd, partecipava agli eventi del “rottamatore”. Una presenza giudicata inopportuna per un manager dell’azienda pubblica. Lo staff di Renzi inquadrò così i rapporti del futuro premier con Luigi De Siervo: «È uno dei suoi più cari amici e si limita a dargli qualche consiglio».
Non è tutto. Lucia De Siervo, l’altra figlia del presidente emerito della Consulta, è un’amica di Renzi e sua storica collaboratrice. Ha ricoperto il ruolo di capo gabinetto quando era sindaco di Firenze, per poi assumere l’incarico di assessore della sua giunta.
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STEFANO FOLLI, LA REPUBBLICA -
TENSIONI e lacerazioni nel Pd al Senato raccontano una storia la cui trama è chiara: non esiste al momento un vero accordo fra il premier Renzi, nonché segretario del partito, e la minoranza vicina a Bersani. Minoranza che non è compatta, anzi è abbastanza frastagliata e non è controllata da un solo capo corrente, fosse anche l’ex segretario che perse la sfida nel 2013. C’è chi risponde a Bersani, chi a D’Alema, qualcuno alla sinistra di Civati. Molti guardano alla Grecia che voterà domenica e dove i sondaggi indicano il successo di Tsipras, il nuovo faro delle sinistre europee.
L’accordo che non c’è dovrebbe riguardare la legge elettorale su cui sta per pronunciarsi il Senato, ma riguarda soprattutto la presidenza della Repubblica. Chi non ha voluto vedere questo nesso, peraltro evidente, ieri ha dovuto ricredersi. È venuto allo scoperto un gruppo di senatori — circa 25 in base agli ultimi calcoli e agli estremi ripensamenti — alcuni dei quali intendono votare contro la riforma di Renzi. Altri non si spingeranno fino al voto contrario, ma preferiranno non partecipare al voto, che è la forma di astensione prevista dal regolamento di Palazzo Madama.
L’operazione mette in grossa difficoltà Renzi. Un’eventuale saldatura fra i dissidenti del Pd, la pattuglia anti-Berlusconi di Forza Italia, guidata da Fitto, e una parte dei centristi di Alfano può determinare l’insabbiamento della riforma. O forse no, perché i numeri antagonisti potrebbero essere insufficienti e Renzi stamane tornerà a battersi davanti al gruppo senatoriale con l’irruenza che gli è propria. Le ferite politiche saranno in ogni caso gravi e peseranno in vista del Quirinale.
Quasi tutto ormai accade in funzione di quella scadenza. Il presidente del Consiglio deve rifare un po’ di conti, anche nell’ipotesi più favorevole: ossia che riesca a evitare il rinvio o l’affossamento della sua legge elettorale. Finora non ha voluto fare l’unica mossa che lo avrebbe tutelato dal rischio di farsi accoltellare: tendere la mano a Bersani e stringere un’intesa con l’uomo che non controlla tutta la minoranza, ma senza dubbio una buona fetta sì. I due si sono visti, hanno parlato, ma a quanto pare non hanno risolto nulla.
Cosa vuole l’ex segretario? Lo ha detto ieri sera in tv: che il nome del candidato alla presidenza sia scelto discutendone nel Pd e poi presentato alle altre forze politiche. Viceversa Bersani teme che sia in atto una manovra renziana per individuare il nome con la «destra», cioè con Berlusconi, e solo in seguito lo si voglia far «digerire » al Partito democratico. L’accusa a Renzi non è nuova, ma è ancora più sferzante del solito. Si vuole, in altre parole, condizionare il premier-segretario e imporgli un compromesso che gli impedisca di uscire dal doppio passaggio (riforma elettorale e Quirinale) come il signore incontrastato della politica italiana.
Il presidente del Consiglio invece vuole avere le mani libere per giocare a tutto campo. Vuole riuscire a imporre un capo dello Stato che riconosca in lui e non in altri il «king maker», ossia la figura dominante a cui deve l’elezione. Di conseguenza ha cercato fino a oggi di procrastinare l’intesa con gli avversari interni. I quali gli fanno la guerra sulla riforma elettorale per costringerlo a venire a patti anche sul Quirinale. Cosa può accadere adesso, mentre il tempo stringe?
Bersani è tornato a chiedergli un accordo preliminare che avrebbe l’effetto di svuotare in parte il «patto del Nazareno». Ma questo patto, ossia la sintonia con Berlusconi, è un’arma a cui Renzi non rinuncerà a cuor leggero per non trovarsi prigioniero proprio della minoranza democratica. Ci sono, è vero, anche i dissidenti grillini, ma rappresentano un’incognita. Nel frattempo il voto alla Camera sulla riforma costituzionale ha dimostrato che il gruppo berlusconiano è spaccato. Quindi si procede a fari spenti verso il 29 gennaio, quando il Parlamento dovrà riunirsi. Oggi vivremo una giornata drammatica, al termine della quale si capirà se Renzi ha qualche carta in mano e come intende giocarla.