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 2015  gennaio 19 Lunedì calendario

ARTICOLI SUL TOTO-QUIRINALE DAI GIORNALI DI LUNEDI’ 19 GENNAIO 2015


FABRIZIO D’ESPOSITO, IL FATTO QUOTIDIANO -
Sibila, festante e perfido, un colonnello renzusconiano di Forza Italia: “Alla fine abbiamo costretto Berlusconi a scegliere, a uscire dall’ambiguità. La raccolta delle firme procede benissimo siamo già oltre il cinquanta per cento nei gruppi. Siamo maggioranza, adesso Fitto la finirà di strumentalizzare il Nazareno e di dire che sono tutti contro il patto con il premier”.

La prova di forza del documento “renziano”
Il Fato della politica ha voluto che proprio nel primo anniversario del matrimonio Nazareno (ieri, domenica 18 gennaio), Matteo Renzi pretendesse e ottenesse un’inconfutabile prova d’amore e di fedeltà da Silvio Berlusconi. Non solo il folto scalpo di Renato Brunetta, antirenziano all’ennesima potenza. Ma soprattutto un documento imposto da Denis Verdini, alfiere azzurro del renzusconismo, per fare quella conta tra deputati e senatori che sinora era sempre mancata. A dirla tutta, in passato l’atto di rottura dei documenti era sempre stato a carico delle minoranze berlusconiane poi diventate scissioniste (dai finiani agli alfaniani). Adesso, invece, l’onere della prova è stato ribaltato. E il testo steso da Paolo Romani, capogruppo al Senato, soddisfa le condizioni di Renzi per accontentare il Condannato sulla scelta del successore di Giorgio Napolitano, tra dieci giorni esatti.

Il messaggio ad Hammamet: ”Riforme merito di Bettino”
Tutto era cominciato un paio di giorni fa, quando l’energico capogruppo dei deputati forzisti, Renato Brunetta, si è scagliato con forza contro il premier e il governo, ribadendo il congelamento delle riforme (compreso l’Italicum) in vista delle urne quirinalizie. Uno scontro violento, con tanto di insulti reciproci tra Brunetta e Renzi. Ed è stato a quel punto che l’ala renzusconiana di FI guidata da Verdini, sollecitata dal premier in persona, è andata al redde rationem, obbligando Berlusconi a scegliere una volta per sempre. In molti, infatti, sospettavano il solito gioco delle parti dell’ex Cavaliere, abituato a manovrare falchi (in questo caso Brunetta) e colombe (lo stesso Verdini). Ma il Pregiudicato, per accontentare lo Spregiudicato, ha addirittura sconfessato pubblicamente Brunetta e ieri, in un messaggio inviato ad Hammamet e indirizzato a Stefania Craxi, figlia di Bettino, ha confermato la linee delle colombe nazarene: “Le riforme, dopo anni di tentativi infruttuosi, sono finalmente avviate”.

Quel filo socialista che porta al Dottor Sottile
Nella lettera alla Craxi, Berlusconi intesta il processo riformatore anche al leader socialista morto in Tunisia da latitante per la giustizia, o in esilio per i suoi amici garantisti. Ed “esilio” è anche la parola usata dal Condannato che si rammarica di non poter partecipare oggi, ad Hammamet, alla cerimonia per i quindici anni dalla morte di Bettino Craxi, per “i noti problemi”. Scrive B.: “Il tuo papà è stato per me un amico leale e sincero al quale mi univa un affetto profondo, è stato un uomo più avanti del suo tempo. Le sue idee, la sua capacità di cogliere e di anticipare con lucidità i temi ancora oggi attuali della politica italiana lo tendono tuttora protagonista a pieno titolo delle vicende dei nostri giorni. La sua morte in esilio è una delle pagine più vergognose della nostra storia”. E il filo unico che lega all’attualità l’amicizia tra Craxi e Berlusconi oggi si chiama Giuliano Amato, ex braccio destro del leader socialista. Nonostante le polemiche “amiche” sulla pavidità e l’opportunismo del Dottor Sottile, “parcheggiato” da Napolitano alla Corte Costituzionale per il momento, le quotazioni di Amato nella corsa per il Colle rimangono alte. Per un semplice motivo: Renzi ha abbandonato l’idea di un presidente-cameriere ed è stato costretto a trattare su una figura “autorevole” e in grado di telefonare e parlare con tutti i leader internazionali. In realtà i profili in questa direzione sono due. Oltre Amato, c’è Romano Prodi. Ma il Professore è escluso dalla clausola del patto del Nazareno: “Mai Prodi al Quirinale”.

Il povero Cassese fa outing per “Giuliano”
Il profilo di Amato emerge ancora una volta dalle righe dell’ennesimo editoriale del Corriere della Sera, in prima fila nella lobby amatiana. Dell’articolo domenicale a colpire è soprattutto la firma, quella del giurista, già consigliere di Ciampi, Sabino Cassese. Proprio Cassese, alla vigilia di Natale,avevavergatounpezzoche di fatto era un’autocandidatura per il Colle. Ma nell’editoriale di ieri si parla esplicitamente di un presidente che deve essere scelto tra quegli aspiranti che sono stati a capo del governo o di un’assemblea parlamentare. Per il povero Cassese è stata una forte delusione tirarsi fuori dalla corsa. Sui divanetti del Transatlantico, la scorsa settimana, tenevano banco i racconti sulle cene esclusive che lo stesso Cassese ha organizzato a casa sua per promuoversi.

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GIOVANNI SABBATUCCI, IL MESSAGGERO -
Giovanni Sabbatucci
Secondo la Costituzione italiana, il presidente della Repubblica ha, fra i suoi molti e impegnativi compiti, quello di rappresentare “l’unità nazionale”. Dovrebbe conseguirne automaticamente che un accordo ampio tra le principali forze politiche sulla scelta del capo dello Stato va considerato come una buona premessa, come un requisito auspicabile (anche se certo non necessario) per l’avvio di un nuovo mandato.
Perché l’accordo funzioni è però necessario che i contraenti siano soggetti credibili, capaci di muoversi solidalmente: una condizione che spesso è mancata nella storia repubblicana. Al contrario, è accaduto più d’una volta che le elezioni a voto segreto da parte delle Camere riunite abbiano offerto a folte pattuglie di franchi tiratori l’occasione per impallinare i candidati ufficiali e per rimettere così in discussione gli equilibri interni ai partiti. Le possibilità che scenari del genere si ripropongano di qui a dieci giorni, quando si comincerà a votare per il successore di Giorgio Napolitano, sono al momento abbastanza elevate.
E non tanto perché il nome unificante non è ancora stato indicato (altre volte candidati autorevoli sono usciti all’ultimo momento), non solo perché due dei tre partiti maggiori (Pd e Forza Italia) sono fortemente divisi al loro interno, ma soprattutto perché le divisioni riguardano, più che una concreta ipotesi di accordo, l’idea stessa di un accordo tra forze politiche schierate su fronti opposti.
Quasi che, dopo vent’anni di bipolarismo e un paio di governi di larga coalizione, la pratica delle intese trasversali in materia di scelte istituzionali susciti ancora presso alcuni settori del mondo politico quelle reazioni di rigetto che di solito si riservano ai compromessi bassi e ai patti inconfessabili.
Sulla carta, democratici e forzitalici, ovvero il primo e il terzo partito in termini di rappresentanza, disporrebbero con ampio margine dei numeri necessari a eleggere insieme un presidente a partire dal quarto scrutinio. Con l’aiuto, peraltro non scontato, degli alleati “minori” (alfaniani, popolari e centristi assortiti), i democratici potrebbero addirittura, sempre sulla carta, prescindere da contributi esterni all’area di governo. Mentre la seconda forza politica – il Movimento 5 Stelle – si è finora sottratta a ogni ragionevole ipotesi di accordo, puntando ad accentuare la sua distanza dalla “casta” e a lucrare sulla denuncia degli accordi altrui.
Ma sia nel Partito democratico sia in Forza Italia esistono gruppi dissidenti abbastanza numerosi per mettere a rischio ogni intesa. Gli anti-renziani del Pd non hanno mai apprezzato il patto del Nazareno sulle riforme: affossando una candidatura gradita a Berlusconi – e proponendone magari una alternativa, capace di riaggregare la sinistra – potrebbero far saltare, assieme al patto, anche la leadership del segretario. Dal canto loro, i dissidenti di Forza Italia, da Fitto a Brunetta, avrebbero l’occasione adatta per punire l’asserita subalternità di Berlusconi nei confronti di Renzi e per rilanciare un’identità partitica oggi alquanto sbiadita.
Nell’uno come nell’altro caso, si tratterebbe di operazioni di corto respiro. Il Pd ripiomberebbe in un caos peggiore di quello seguìto alle presidenziali dell’aprile 2013 (quelle dei 101 franchi tiratori) e non avrebbe a disposizione prospettive diverse dall’appiattimento, elettoralmente poco proficuo, sulla linea della sinistra-sinistra o dalla ricerca di un impossibile dialogo con i Cinque stelle. Forza Italia, sciolta dal legame, sia pur precario e a tempo, che ancora unisce Renzi e Berlusconi, finirebbe schiacciata, e forse fagocitata, dalla Lega in versione Salvini. Insomma, a uscire a pezzi da una defatigante maratona elettorale, tanto più se sfociata in una scelta di basso profilo, sarebbero non solo le istituzioni, ma anche le forze politiche protagoniste della seconda Repubblica, che diventerebbero sempre più oggetto di sfiducia e di derisione popolare.
C’è dunque da sperare che, ove non dovesse soccorrere il senso delle istituzioni, sia l’istinto di conservazione a suggerire ai grandi elettori e ai leader che ne guideranno le scelte comportamenti adeguati alla serietà del momento. Il sistema non può permettersi una replica dell’aprile 2013, senza nemmeno la carta di riserva, da giocare in extremis, di un Napolitano-bis.

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MARIO STANGANELLI, IL MESSAGGERO -
L’abbandono di Sergio Cofferati dopo le primarie liguri scuote il Pd alla vigilia di scadenze importanti, come le stesse elezioni regionali e, soprattutto, i più ravvicinati voti sul successore di Napolitano e sulla riforma elettorale. Mentre riprende quota l’ipotesi di una più o meno consistente scissione della sinistra dem, intrecciata alla possibilità che l’ex leader della Cgil decida di candidarsi alla testa di una lista alternativa appoggiata in primo luogo da Sel, è Stefano Fassina a proiettare l’ombra dello scontro sul caso Cofferati sulle votazioni per il Quirinale che inizieranno il 29 gennaio. Per l’ex viceministro dell’Economia, la vicenda delle primarie in Liguria e quella del decreto fiscale che potrebbe avvantaggiare Berlusconi, «certamente non aiutano a costruire un clima positivo per il voto sul Colle. Il modo sbrigativo, offensivo per la dignità di Cofferati, con cui la sua scelta è stata trattata pesa notevolmente sul Quirinale. Con il decreto fiscale - aggiunge Fassina - siamo di fronte a un conflitto di interesse enorme». Evidente l’irritazione del vertice del Nazareno che accusa Fassina di «irresponsabilità».
Tuttavia, pur a fronte del disagio della minoranza che Pippo Civati reputa prossimo al precipitare di una scissione, almeno in Liguria, nel Pd si tentano aperture destinate a favorire il più vicino dei passaggi del cammino delle riforme, e cioè quello dell’Italicum su cui dopodomani il Senato comincerà a votare. Lo fa Debora Serracchiani scrivendo ai parlamentari del M5S che sedevano al tavolo degli incontri in streaming con Renzi. Nella sua lettera la vicesegretaria dem chiede «formalmente e ufficialmente» ai «cari Di Maio, Toninelli e capigruppo M5S se sull’emendamento all’Italicum, da voi caldeggiato e richiesto, che sposta il premio dalla coalizione alla lista, voterete a favore della nostra proposta dimostrando di essere interessati a proposte concrete, o continuerete a rifiutare ogni forma di collaborazione».
SEGNALE
In attesa di una risposta del M5S che verrà dopo adeguata concertazione nei gruppi, l’apertura della Serracchiani a un settore dell’opposizione vale come segnale nei confronti delle due minoranze del Pd e di FI che ancora minacciano battaglia sul testo della legge elettorale. E’ noto che i numeri su cui Renzi può contare al Senato non sono ampi. FI voterà contro l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista, mentre una trentina di senatori dem resta contraria ai capilista bloccati. Quindi, un passaggio agevolato dell’Italicum a palazzo Madama avrebbe i suoi riflessi positivi sulla partita del Quirinale, dove i giochi sono tutt’altro che fatti, e Renzi deve vedersela, da un lato, con la minoranza del suo partito che minaccia di non votare un candidato che sia fuori dalla storia della sinistra e, dall’altro, col riavvicinamento in atto tra Berlusconi e il Ncd allo scopo di individuare un candidato comune per il Colle. E’ infatti di ieri un’intervista di Angelino Alfano in cui il ministro dell’Interno auspica che «le forze estranee alla famiglia socialista europea arrivino unite all’appuntamento del Quirinale». Al leader Ncd, che nelle prossime ore incontrerà l’ex Cavaliere, fa eco Renato Schifani osservando che «tutte le forze che si richiamano ai valori del Ppe avranno, con l’elezione del capo dello Stato, una grande occasione per ritrovare la loro unità e rivendicare il diritto a esprimere un candidato proveniente dalla loro area».
Mario Stanganelli

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MASSIMILIANO SCAFI, IL GIORNALE -
È una donna, non ci sono dubbi. È un’alta carica della Repubblica, e pure su questo non si discute. È «nuova», nel senso che due anni fa la conoscevano in pochi. Le carte in mano a Laura Boldrini finiscono qui, ma lei, in una domenica in cui la trattativa finisce un po’ sottotraccia, prova comunque a rilanciarsi nella corsa per il Colle. «Per eleggere il nuovo capo dello Stato si dovrà coinvolgere tutti i parlamentari».
La presidenta della Camera si presenta alla festa degli animali con il gatto Gigibillo, sorride, stringe mani ed evita una trappola, la querelle sul rilascio delle due cooperanti: «Non facciamo polemiche sulla solidarietà, però in certe zone bisogna essere prudenti». Sul Quirinale osa di più. «Giusto che tutti i grandi elettori siano coinvolti, il Parlamento non può essere solo un’assemblea di ratifica. Due anni fa, con gli accordi raggiunti fuori dal Parlamento, abbiamo visto come è andata». Stavolta «speriamo che non serva l’elmetto, ma siamo pronti ad ogni evenienza». Saranno solo donne a seguire le procedure dell’elezione. «Un quartetto strepitoso», commenta la Boldrini. Come dire, se cercate un candidato rosa è già pronto. Chiude dando una mano al governo sulle riforme: «Il calendario è confermato».
Tutto ciò nel giorno i cui a Renzi arrivano messaggi contrastanti, Nichi Vendola che apre a un’intesa ma «non da patto del Nazareno» e Stefano Fassina che sostiene che «il caso Cofferati peserà sul Quirinale». Sull’altro fronte Angelino Alfano chiede che sia il centrodestra a fare il nome del successore di Napolitano, ma Forza Italia non si fida. «Se la proposta si muove nella direzione di ricostruire il centrodestra - dice Osvaldo Napoli - ha un valore e un significato di grande rilievo. Se nasce per far saltare il Patto del Nazareno e trasformare l’elezione in una corrida, suggerisco un approccio più concreto».

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FABRIZIO DE FEO, IL GIORNALE -
D opo i tonanti comunicati del giorno prima, Silvio Berlusconi trascorre la domenica in tranquillità, cercando di definire una strategia in vista della partita del Quirinale, ormai prossima al fischio di inizio. L’unica distrazione è la visione della partita del Milan - che guarda insieme alla figlia Barbara - e non gli regala grandi soddisfazioni.
Il resto della giornata è dedicato al tentativo di definire una cabina di regia in vista delle prime votazioni per il Colle e fare massa critica con le altre formazioni del centrodestra, accordandosi innanzitutto con Ncd e Udc, così da avere un peso maggiore nella grande trattativa. Una necessità, quella dell’unità dei moderati, su cui si confronterà con Angelino Alfano in un incontro che avverrà a Roma tra domani e dopodomani e sul quale in queste ore ha avuto modo di dialogare anche con Matteo Salvini (con il quale si sta iniziando a ragionare anche in vista delle prossime elezioni regionali).
In questo momento, però, la precedenza ce l’ha la creazione del «nocciolo duro» con Area Popolare. Una alleanza strategica e mirata che potrà consentire di aggiungere a quelli di Forza Italia altri cento «grandi elettori» e provare così a influire sulla scelta del candidato per il Quirinale. Lo stesso Alfano, prima di vedere Renzi, vuole incontrare Berlusconi così da avere carte migliori in mano, così come non è escluso un incontro a tre. Area Popolare (ovvero Ncd più Udc) vorrebbe provare a convogliare i voti, almeno nelle prime tre votazioni su Pier Ferdinando Casini, ma ci sono anche altri nomi possibili.
Berlusconi, oltre al dialogo con le formazioni centriste, deve naturalmente fare i conti anche con la dissidenza interna. La volontà di blindare il Patto del Nazareno è conclamata. Ieri nella lettera a Stefania Craxi per il quindicennale della scomparsa del leader socialista si è concesso un passaggio sulle «riforme istituzionali che, dopo anni di tentativi infruttuosi, sono finalmente avviate». Un memento rispetto a un percorso considerato in continuità con le storiche battaglie di Forza Italia. Anche perché come ha detto ai suoi collaboratori più stretti nella serata di sabato «è arrivato il momento di stringere il cerchio. Brunetta si deve tenere di più, non possiamo più permetterci di avere due linee, ne va della nostra credibilità in un momento decisivo». L’intenzione di Berlusconi è di tornare in prima linea e metterci la faccia, sia nell’incontro che avrà domani con il gruppo del Senato, sia in quello del giorno dopo con i 70 deputati della Camera. Riunioni entrambe delicate visto che a Palazzo Madama si balla sui numeri e sul rischio di voti contrari pronti a colpire l’Italicum. Mentre a Montecitorio è evidente la necessità di ricucire una trama sfilacciata, dopo l’eclatante botta e risposta andato in scena sulle agenzie, senza però delegittimare il capogruppo Renato Brunetta.
Un rinnovato protagonismo che è anche un modo per evitare il cristallizzarsi di uno scontro tra correnti - necessità in base alla quale il Cavaliere ha anche «congelato» la raccolta firme a sostegno del Patto del Nazareno - e riconquistare quell’area grigia di indecisi, tentati dai «fittiani», ma impauriti o indecisi sul da farsi. Un Berlusconi deciso dunque a riprendersi la leadership, a dettare la linea in prima persona e pronto, se necessario, ad andare anche allo scontro con i frondisti, all’insegna del «qui comando io».

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FABIO MARTINI, LA STAMPA -
Nel Transatlantico di Montecitorio, tradizionale crocevia di chiacchiere e di trame, da qualche giorno proliferano i capannelli “monoteistici”, quelli nei quali si ritrovano i deputati “fedeli” ad un unico candidato Presidente ed è proprio da questi crocchi che talora partono tam-tam avvelenati contro i concorrenti. L’espressione più usata è: «Sì, ma...». Padoan? «Sì, ma il decreto fiscale...». Veltroni? «Sì, ma Odevaine...». Mattarella? «Sì, ma all’estero chi lo conosce?». Un brodo di coltura nel quale cuociono malignità di ogni tipo, lasciate correre al solo scopo di screditare, con l’idea che qualcosa resterà. Roba che ogni tanto finisce, con grande rilievo, sui giornali: in una stagione di anti-politica “vanno” molto gli anatemi anti-casta, anche se talora attingono a notizie false. Come nel caso di due ex presidenti del Consiglio e dell’attuale ministro della Difesa.
Giuliano Amato, ad esempio, si trascina da anni la nomea di cumulatore di pensioni e la diceria è ricominciata a circolare nei giorni scorsi. Ma da oltre un anno, da quando è giudice della Corte Costituzionale, Amato percepisce unicamente lo stipendio della Consulta, senza cumuli, né con la pensione, né con altro: da anni l’ex presidente del Consiglio gira il suo vitalizio da ex parlamentare ad un istituto di beneficienza, mentre per quanto riguarda la pensione, subito dopo la nomina alla Corte Costituzionale ha fatto domanda di auto-sospensione all’Inps e vi ha rinunciato.
Anche Romano Prodi è periodicamente preso di mira, nonostante il Professore abbia detto, senza se e senza ma, di non essere interessato al Quirinale, anzi di essere amareggiato per essere coinvolto una volta ancora nel consueto tritacarne. Nei giorni scorsi è stato pubblicato, con grande rilievo da un giornale di centrodestra, che il monte-pensioni del Professore ammonterebbe a 15 mila euro al mese. In realtà la cifra denunciata (e cumulata in conseguenza di attività a suo tempo svolte) si riferiva al lordo e dunque corrispondeva al doppio di quanto effettivamente percepito. Anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti è stata messa nel mirino “politico-mediatico” perché, di ritorno da un vertice Nato in Galles, era rientrata a Genova a bordo di un volo militare. L’accusa iniziale, dei Cinque Stelle e poi ripresa da un quotidiano, era quella di aver utilizzato un “volo di Stato” per uso privato. Quattro entità si sono occupate del caso (Procura Militare, di Roma, Tribunale dei ministri, Corte dei Conti) e per tutte e quattro il “non luogo a procedere” è stato inequivocabile.

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LA STAMPA -
Chissà se la vicenda delle primarie in Liguria, con la polemica uscita dal Partito democratico di Sergio Cofferati, non complicherà ulteriormente la partita per il Quirinale. A uscire allo scoperto all’attacco contro Matteo Renzi ci pensa Stefano Fassina. Intervistato da Rainews 24, Fassina spiega che «il modo sbrigativo, offensivo per la dignità di Cofferati con cui la sua scelta è stata trattata, pesa notevolmente sul Quirinale». «Così come - aggiunge l’esponente della sinistra Pd - pesa notevolmente sul Quirinale anche la vicenda del decreto fiscale, che potrebbe premiare Silvio Berlusconi, capo dell’opposizione. Siamo di fronte a un conflitto di interessi enorme, l’unico caso al mondo nel quale il capo dell’opposizione è potenzialmente oggetto di un intervento del governo». L’alternativa, è la conclusione, «individuare i criteri della scelta, prima del nome. Noi abbiamo indicato tre criteri: autorevolezza, autonomia dall’Esecutivo e capacità di unire», «per andare oltre il patto del Nazareno». Al deputato della minoranza dem replica a brutto muso via Twitter il senatore renzianissimo Andrea Marcucci: «Quando si dice la responsabilità», ironizza. In ogni caso la linea di Fassina sembra condivisa anche da Pippo Civati che afferma: «Spero che ci sia un Presidente della Repubblica non votato solo da Berlusconi, ma anche dalla sinistra. Deve rappresentare anche una parte che altrimenti si sentirebbe orfana ed esclusa. Una cosa molto grave per me, perché molti elettori che conosco si trovano in questa situazione».
Sul fronte opposto c’è il leader di Ncd Angelino Alfano, che in un’intervista lancia un netto avvertimento al premier Matteo Renzi: «Adesso il Colle spetta al centrodestra». Secondo il ministro dell’Interno, «negli ultimi 20 anni l’area moderata non è mai stata rappresentata sul Colle. Anche lì serve un giovane». Gli risponde a stretto giro su Twitter il deputato del Pd Cesare Damiano: «Per me al #Quirinale personalità di livello internazionale e di sinistra».
Il leader di Sel Nichi Vendola, che ha già spalancato le porte all’ex leader della Cgil, chiarisce la posizione del suo partito: «sosterremo il candidato del Pd solo se non sarà espressione del patto del Nazareno». Gli replica l’ex-ministro Mara Carfagna per Forza Italia: «La pregiudiziale posta da Vendola per l’elezione del futuro presidente della Repubblica mette in mostra tutte le contraddizioni di una sinistra che si erge a paladina della Costituzione a giorni alterni; che al momento di metterla in pratica dimentica che il capo dello Stato dovrà rappresentare l’unità nazionale, come dice l’art. 87 della Costituzione».

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GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA -
Renzi cerca Bersani e Bersani cerca Renzi. «L’incontro si farà. Magari poco prima del 29», dicono gli amici emiliani dell’ex segretario. «I contatti ci sono — racconta il premier ai suoi collaboratori —, ho mandato da lui una serie di ambasciatori. Sono pronto a vederlo ». Secondo Renzi il vertice con Bersani sarà decisivo nella partita del Quirinale almeno quanto quello con Silvio Berlusconi.
Il faccia a faccia, pur con tutte le diffidenze e i sospetti che hanno segnato i rapporti tra i due dalle primarie del 2012, andrà in scena, in maniera riservata. «Spero che ci sia, ma non voglio essere manipolato», ripete l’ex segretario. Per questo ha dichiarato solennemente qual è il suo candidato preferito per il Colle. «Romano Prodi. Io riparto da lì», ha detto. Ha messo le mani avanti, ha impedito che Palazzo Chigi potesse attribuirgli altre scelte. Quel nome lo ripeterà anche quando con il Rottamatore si guarderanno negli occhi. Per Renzi è fondamentale la sponda dell’ex leader del Pd. «Se ho l’appoggio di Bersani, tengo unito il partito anche col voto segreto». Dipende dal candidato, ma il premier è convinto di poterlo condividere insieme con «Pierluigi» e con Berlusconi. Non Prodi, per via del veto di Arcore. «Mattarella e Amato però erano nella rosa della Ditta nel 2013», ricorda Renzi parlando con i collaboratori. Eppoi ci sono altri papabili ex Ds perché «non so se quella parte del Pd accetterebbe un nome fuori dal suo perimetro, se è in grado di votarlo in maniera compatta», è il cruccio dell’ex sindaco di Firenze. In pista c’è Anna Finocchiaro, gradita anche ai leghisti e a Forza Italia. C’è il fondatore del Pd Walter Veltroni. C’è lo stesso Bersani, con la prospettiva di sancire definitivamente la pace nel Partito democratico. Quest’ultima carta, però, sembra la meno probabile: troppo coinvolto nell’attività politica, troppo presente nel dibattito quotidiano. Regola che vale anche per gli altri ex segretari di partito.
Per questo nel faccia a faccia auspicato da entrambe le parti si ripartirà da Mattarella e Amato. Due nomi sui quali, al di là della battaglia per Prodi, Pd e Fi potrebbero intercettare i voti di Nichi Vendola. Soprattutto il secondo, agli occhi della sinistra alternativa, ha nel curriculum la battaglia per i diritti civili condotta sul filo del laicismo. «Se Matteo pensa di schiacciarmi nel recinto della Ditta nella scelta del futuro capo dello Stato si sbaglia di grosso — è la posizione di Bersani — . Io non ragiono così quando si prende una decisione del genere. Il mio identikit non è una bandiera. Dev’essere una personalità autorevole e autonoma ». Ecco un esempio della difficoltà di dialogo tra i due. Bersani teme che sul faccia a faccia Renzi organizzi il suo spin, interpreti a modo suo il pensiero di altri. Il premier invece guarda con una certa ansia alle mosse dei bersaniani al Senato sulla legge elettorale. I trenta dissidenti sono quasi tutti dell’a- rea che fa capo all’ex leader. A cominciare da Miguel Gotor. «Se non si corregge la norma sui capilista dando spazio alle preferenze, l’Italicum non lo voto. Non possiamo — spiega il senatore — dare a Berlusconi ben due diritti di veto. Renzi se lo voterà con Verdini, passerà lo stesso, ma io rimango fermo sul no». Nelle prossime ore, è evidente, il premier si aspetta un segnale da Bersani che possa ridurre i numeri della “fronda” proprio com’è successo sul Jobs Act. Ma finora non è arrivato alcun segnale. A questo silenzio si aggiunge la minaccia di Stefano Fassina, altro amico di Bersani, che lega lo strappo di Cofferati alla sfida per il Colle. «Peserà sul voto, non c’è dubbio », avverte l’ex viceministro. Le trappole sono potenzialmente tante. È il motivo per cui un’intesa blindata con Bersani serve in particolare a Renzi. I bersaniani doc, come Roberto Speranza, respingono per esempio qualsiasi collegamento tra il caso Cofferati e la partita che inizia il 29. Lo stesso fa Gotor pur criticando la «politica renziana dello struzzo». Riccardo Nencini invece ricorda che il voto per il Quirinale si è sempre trasformato in prove generali per nuove formazioni politiche. «Le minoranze dei grandi partiti hanno approfittato fin dagli anni Cinquanta dell’elezione del Capo dello Stato per battere un colpo. La rottura di Cofferati é solo l’ultimo caso fra i tanti preparatori di questo tentativo», dice il segretario del Psi. «Tutto lascia pensare che anche stavolta il voto diventerà una prova del budino per l’organizzazione di un partito della sinistra radicale italiana». Per fermare questa impresa, Nencini tifa per Giuliano Amato e secondo i suoi calcoli tra autonomisti e socialisti in Parlamento il Dottor Sottile può contare su 31 voti sicuri. Ricomincerà quindi questa settimana il gioco del peso delle correnti e delle cene segrete per studiare le strategie. Oggi gli occhi sono puntati sulla riunione dei deputati dalemiani dell’associazione Italianieuropei, convocata, precisa l’ex premier, per fare il punto sulle risorse della Fondazione e sulla struttura organizzativa.