Pierluigi Battista, Corriere della Sera 17/1/2015, 17 gennaio 2015
FRONTE DEL COLLE QUEGLI INTRIGHI FRA I PARTITI MORENTI NEI QUINDICI SCRUTINI INUTILI
DEL ‘92 –
Perfino le battute di Giulio Andreotti, di solito tanto pimpanti e argute, sembravano in quei giorni così convulsi, più sbiadite e senza mordente. Diceva, ammiccante come sempre, che chi si fosse messo a lavorare a sfavore della candidatura di Arnaldo Forlani avrebbe «peccato contro lo Spirito Santo». Ma non rise nessuno, stavolta. Nell’atmosfera lugubre che contrassegnò le elezioni del nuovo capo dello Stato nell’anno 1992 i soliti intrighi di palazzo, le solite cene clandestine, le solite manovre di corrente, i soliti franchi tiratori, le solite coltellate nella penombra, il solito lavorio che aveva reso quasi spettacolarmente folcloristici gli appuntamenti per decidere chi dovesse ascendere al Colle, apparvero quasi una recita funebre.
La Prima Repubblica emetteva i suoi ultimi rantoli. I riti del passato davano un senso di decrepito. E non si sarebbe arrivati alla fine della recita se l’esplosione di Capaci che aveva messo fine alla vita di Giovanni Falcone, di sua moglie e della scorta non avesse riversato il sangue degli innocenti su un Palazzo terrorizzato e messo spalle al muro. Solo così, in un soprassalto di paura e di decenza, si arrivò dopo quindici scrutini andati a vuoto, all’elezione del nuovo presidente della Re pubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Tutto era cominciato, all’inizio del maggio 1992, come se i segnali sinistri che stavano precedendo il tracollo del sistema potessero essere facilmente riassorbiti. Come se le geometrie segrete per l’elezione del presidente della Repubblica rispondessero ancora alle stesse logiche che avevano retto gli equilibri politici e le liturgie parlamentari lungo l’arco di decenni. A febbraio l’arresto di Mario Chiesa aveva cominciato a scoperchiare la pentola ribollente di Tangentopoli.
Francesco Cossiga, che si sarebbe dimesso con un discorso fluviale il 25 aprile, anniversario della Liberazione, aveva preso a demolire a colpi di piccone dal Quirinale i Palazzi terremotati della politica. Dalla Sicilia l’esecuzione di Salvo Lima, boss potentissimo della Dc andreottiana, aveva inviato messaggi inquietanti, segno di una sfrontatezza dell’offensiva mafiosa avvelenata dalle conclusioni del maxiprocesso contro Cosa nostra. Arrivavano gli arresti eccellenti e proprio nelle ore in cui si stavano scaldando i motori della macchina elettorale per il nuovo capo dello Stato venne arrestato il tesoriere della Dc Severino Citaristi, un uomo probo messo nella trincea infetta dei finanziamenti illeciti ai partiti.
Ad aprile i partiti tradizionali avevano ricevuto una botta micidiale. I due tronconi del disciolto Pci a malapena avevano raggiunto le cifre in cui si era assestato il partito di Achille Occhetto già ferito e in crisi nella sua versione post-berlingueriana poi travolta dal crollo del muro di Berlino. I cinque partiti cardine della maggioranza di governo erano usciti malconci dalla competizione elettorale. Pur sempre oltre al 50 per cento, percentuale di gran lusso se confrontata con quelle della Seconda Repubblica, ma ridimensionata dal fracasso dell’arrivo della Lega di Umberto Bossi. Trattata come un’accolita di ingenui avventori da taverna. Errore gravissimo: se ne accorgerà il furbo Andreotti caduto nella trappola di un Bossi che gli aveva promesso l’appoggio per poi lasciarlo solo nell’ombra delle schede consegnate a scrutinio segreto.
Come se niente fosse il Caf di Craxi-Andreotti-Forlani aveva deciso lo schema fondamentale: Andreotti o Forlani al Quirinale e Craxi a Palazzo Chigi. Naturalmente in quell’incertezza tra Forlani e Andreotti si decise fatalmente il destino della più impervia e tragica elezione del capo dello Stato nell’Italia repubblicana. Il colloquio decisivo tra Forlani e Andreotti fu così scandito dalla suspense della narrazione cinematografica da solleticare la vena creativa di Paolo Sorrentino che ne avrebbe infatti tratto ispirazione (con le basi del racconto fornite dall’andreottianissimo Paolo Cirino Pomicino) per il suo Il divo . Il nome dunque doveva essere quello di Forlani. Ma nulla era certo in quell’atmosfera di sospetti incrociati, di lingue biforcute, di doppi fondi, di doppie verità, di doppie lealtà. Si inaugurò allora l’introduzione di gigantesche e ingombranti cabine elettorali che Francesco Rutelli avrebbe definito, con termine tuttora corrente, «catafalchi»: di nascosto dai capibastone, si sperava, e invece.
Forlani fu impallinato senza pietà. Le cene degli andreottiani si moltiplicarono. Il numero mancante di voti necessari a far eleggere Forlani era: 39, poi la distanza si fece sempre più sottile, ma alla fine il candidato ufficiale della Democrazia cristiana, sfiancato e sfiduciato, dovette ritirarsi. La corrente andreottiana aveva dato il meglio di sé nella pars destruens , ma come al solito si era dimostrata molto più fragile in quella costruttiva, cioé nella ricerca di un numero sufficiente di suffragi per far eleggere il capo Giulio Andreotti.
Il clima era cupo, asfissiante, come se si stessero sgretolando le basi delle istituzioni. I voti si disperdevano. Si cominciò a parlare di una candidatura di Norberto Bobbio. Poi di Leo Valiani. Il Pds arroccato sulla candidatura di bandiera di Nilde Iotti mentre i partiti di governo si dilaniavano nell’orgia dei franchi tiratori e poi suggerirono il nome di Giovanni Conso. La Lega fece conoscere al mondo il sulfureo candidato Gianfranco Miglio. Ma alla fine il Partito socialista propose alla Dc una convergenza su Giuliano Vassalli: fu la festa del franco tiratore, al confronto quella dei 101 contro Prodi nel 2013 sarà piccola cosa. Le elezioni si stavano avvitando verso un nullismo preoccupante. Fu la bomba della strage di Capaci il grande trauma che mise fine a una delle più deprimenti messinscene della vita democratica parlamentare. Giovanni Spadolini, presidente del Senato, era convinto che fosse il suo turno. Ma si sbagliava. Craxi aveva scelto il suo ex ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. Il Pds si adeguò. La Dc prese fiato per quello che sembrava uno scampato pericolo. Era un’illusione, perché lo scudo crociato scomparve un anno dopo, travolto assieme agli altri partiti di governo dalla macchina infernale di Mani pulite. Ma il Quirinale aveva un nuovo inquilino, dopo le elezioni più tragiche della storia repubblicana.