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 2015  gennaio 17 Sabato calendario

«DA LUGANO A MILANO PER LE SCARPE NUOVE COSÌ FACEVAMO LA SPESA OLTRE LA “RAMINA”»

MILANO Le «spedizioni» si facevano di sabato pomeriggio, partendo in macchina in cinque da Lugano: 12 chilometri di strade panoramiche e curve con vista lago per arrivare a Ponte Tresa, fare shopping e tornare in Svizzera con le scarpe nuove ai piedi (e un bel po’ di quattrini risparmiati grazie al franco forte ).
«Ogni famiglia ticinese ha una storia di confine da raccontare» spiega Mariarosa Mancuso, 59 anni, giornalista, saggista e critica cinematografica. La sua, papà siciliano e mamma svizzera, risale agli anni 60 quando da bambina, insieme ai genitori e ai suoi fratelli più piccoli, si partiva sulla Morris «con le scarpe vecchie da buttare, per poi tornare a casa con quelle nuove. Bellissime». E rigorosamente ai piedi, per evitare i controlli alla dogana. «La frase “apra il baule” era quella più temuta da tutti – racconta oggi al telefono ridendo – ma era più che altro una leggenda visto che all’epoca i controlli li facevano con i cani antidroga. Oggi ci sono quelli antibanconote».
Perché il confine italo-svizzero sarà pure un «luogo dello spirito» come dice Mancuso, ma è soprattutto un luogo di due ordinamenti fiscali, uno più liberale dell’altro, che da sempre hanno caratterizzato la storia di due Paesi vicini e anche così irrimediabilmente lontani. Nell’ottocento i contrabbandieri si mettevano sulle spalle le «bricolle», zaini in tela di iuta, e facevano avanti e indietro trasportando tabacco, caffè e zucchero, gravati in Italia dai dazi o sottoposti a regime di monopolio. Tanto che a un certo punto, per cercare di arginare i traffici di contrabbando, le autorità italiane disposero la costruzione lungo il confine di una rete metallica. «La chiamiamo ramina ancora oggi» spiega Mancuso che lavora anche alla radio svizzera dove proprio sulla ramina è stato realizzato un programma radiofonico sulle vicende storiche di frontiera («I dialoghi della ramina»). Come quella del «sigaro del Ceresio», un sommergibile a pedali usato dai contrabbandieri per trasportare fino a 600 chili di merce attraversando a pelo d’acqua il lago: sigarette, caffè e orologi dalla Svizzera. Riso, carne e alcolici dall’Italia.
«Negli anni 60 le mie spedizioni in Italia con la famiglia riguardavano soprattutto i vestiti, le scarpe e poi da adolescente libri e giornali – aggiunge Mancuso –. A un certo punto durante il liceo, quando si avvicinava il weekend, giravamo per la scuola con una lista della spesa da consegnare a chi trascorreva il sabato sera a Milano. Avevamo scoperto una piccola libreria milanese che faceva il 20 per cento di sconto: una favola. Alcuni miei colleghi lo fanno ancora e il sabato o la domenica fanno una passeggiata oltre il confine».
Ora, la recente decisione di sganciare il franco dall’euro, sta creando in alcuni casi ebbrezza e in altri terrore. I frontalieri, che lavorano in Svizzera ma vivono in Italia, si ritrovano tutto a un tratto con uno stipendio aumentato del 30%. Al Casinò di Campione d’Italia già si parla di «catastrofe naturale»: gli incassi sono per l’80% in euro ma le vincite si pagano soprattutto in franchi.
«Le aziende svizzere sono disperate» conferma Mancuso. «È uno tsunami per l’industria dell’export e per il turismo e infine per l’intero Paese» ha fatto sapere l’amministratore delegato di Swatch, Nick Hayek. Non è un caso che l’associazione delle grandi industrie svizzere, a caldo, ha commentato la notizia prevedendo «conseguenze disastrose per il tessuto industriale».
Economiesuisse, la Federazione delle imprese svizzere, ha sottolineato il pericolo che il franco resti talmente forte da complicare la vita per l’industria esportatrice e per il turismo. Inoltre, ha aggiunto, l’acquisto fuori confine è oggi più attraente che mai. Forse anche di più dei tempi delle «spedizioni» della famiglia Mancuso negli anni 60.