Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 17 Sabato calendario

ATTACCHI AGLI UOMINI IN DIVISA: COME IN PAKISTAN

WASHINGTON I terroristi del Belgio volevano colpire la polizia. Un bersaglio all’irachena, un target finito spesso nella linea di tiro dei militanti insieme ai soldati. Può sembrare una scelta ovvia e lo è, ma al tempo stesso è la mossa dei criminali per inserire la loro azione in una cornice ben più ampia. Atti che avvicinano l’Europa agli scenari del Medio Oriente.
Il primo lato di questo quadro è rappresentato dalle potenziali vittime. Sono un simbolo dello Stato, dunque del nemico. Rappresentano un ostacolo da abbattere, il muro che tutela i leader e garantisce che la vita si svolga con ordine. In Egitto, in Iraq o in Pakistan provano a intimidirli prima con le minacce, quindi con le esecuzioni. Se non cedono si passa alla strage. I veterani tornati dal Medio Oriente provano ad applicare questo modus operandi anche in Occidente a seconda delle loro disponibilità logistiche.
Il secondo lato è la dimostrazione di forza. Colpendo gli agenti, il bus che li trasporta, una caserma, i jihadisti mandano un messaggio di guerra. E questo vale tanto per gli attentatori legati all’Isis che per gli elementi che agiscono su base individuale.
Lanciano un attacco con il duplice obiettivo di provocare morti ma anche di demoralizzare l’avversario. Al cittadino verrà il dubbio che lo scudo della sicurezza sia inadeguato. Concetto rilanciato dal fronte mediatico della Jihad, quale che sia l’affiliazione. Sono incursioni che devono ricordare altre operazioni coronate da successo.
I terroristi sono pragmatici: tattica che funziona non si cambia, anzi si copia. L’assalto di Mumbai, le operazioni sacrificali in Pakistan, i raid nel cuore di Kabul, la folle scorreria di Mohamed Merah.
Di nuovo sono le circostanze e i mezzi a determinare i confini dell’attacco. Il terzo elemento è quello che congiunge la lotta mediorientale all’odio verso la divisa. E’ un tentativo di sfruttare l’ostilità nei confronti della polizia che agita certe periferie europee e americane.
Una piccola minoranza può essere attirata dal progetto violento. L’incrocio in carcere tra il militante e il criminale comune favorisce l’alleanza: lo spacciatore che fino a ieri sfuggiva alla Narcotici oggi si trasforma in cacciatore unendosi ad una cellula di compari non molto diversi da lui.
A Londra hanno sgozzato un povero soldato sorpreso per strada, in Canada ne hanno messo sotto uno con l’auto e ucciso un altro a fucilate, a Brooklyn l’islamista dell’ultima ora si è servito dell’ascia.
A chiudere il quarto lato, la propaganda. Ammazzano degli innocenti, come le persone all’interno del museo ebraico e i giornalisti di Charlie Hebdo , però non vogliono passare per assassini. Si considerano dei guerrieri investiti di una missione sacra, usano la religione come paravento.
Sparando raffiche contro una pattuglia o la donna-poliziotto cercano allora di elevare il loro status. La loro storiografia deve ricordarli come protagonisti di un assalto coraggioso che ha causato la fine di «un gran numero di soldati». A volte è vero. In altre solo una scusa per giustificare il massacro di civili.