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 2015  gennaio 19 Lunedì calendario

ALTRO CHE FABBRICA, MELFI È UN LABORATORIO PER MARCHIONNE

Vent’anni fa, mentre uscivano i primi modelli della Punto dalla fabbrica di Melfi, l’amministratore delegato Cesare Romiti spiegò che la «Fiat scende al Sud perché l’industria è il collante dell’unità del Paese». Oggi il sindaco della città lucana, Livio Valvano, iscritto al Psi, «l’unico vero partito socialista», rimarca l’interessato, ha altre sfide da affrontare dopo che Sergio Marchionne ha promesso 1.500 nuovi posti di lavoro. Problemi ben più impegnativi rispetto ai pregiudizi leghisti o alle critiche sulla produttività dei lavoratori del Mezzogiorno. Il polo industriale della Basilicata, che comprende anche la Barilla e la filiera agroalimentare, è troppo importante, così come gli altri impianti dell’auto al Sud: la piana di San Nicola e lo stabilimento di Pomigliano d’Arco, con la rete dell’indotto, sono in grado di rappresentare fino al 10% del Pil del Mezzogiorno, come avvenne negli anni d’oro.
«Melfi si deve confrontare con gli Stati Uniti, il Messico, il Brasile. Questa per noi è una ripartenza: vogliamo cogliere l’occasione per rendere la fabbrica e la città competitive con gli altri centri produttivi di Fiat-Chrysler, sappiamo che Marchionne continuerà a investire qui solo se avrà risultati positivi», avverte. E allora via l’Imu sulla prima casa, incentivi ai proprietari che affittano e aiuti ai lavoratori di Pomigliano e Cassino che saranno trasferiti a Melfi: il comune concederà un assegno di 250 euro al mese per tre anni. Una sorta di welfare municipale per l’occupazione.
Prototipo
Ma questo sforzo non deve sorprendere. Nella città di Federico II di Svevia, Fiat Sata, che oggi occupa 5.916 dipendenti diretti (circa 12mila con l’indotto), è sempre stata, fin da quando venne ideata alla fine degli anni Ottanta, un paradigma flessibile capace di cambiare, un prototipo di organizzazione, di contratti, di tempi, ritmi e condizioni di lavoro originale per l’Italia di allora. Con ritocchi e correzioni, si è protratto fino a oggi. Per ringiovanire e rinnovare gli occupati e le produzioni, nonché per superare il modello fordista delle grandi cattedrali metalmeccaniche, la Fiat scelse la via del Mezzogiorno e la filosofia del «prato verde» convinta che un terreno sociale vergine, immune dalle influenze del conflitto dell’industrializzazione, e dunque permeabile alle indicazioni e alle sollecitazioni della nuova «fabbrica integrata», potesse garantire il pieno controllo e il successo del polo produttivo.
In un intervento sulla rivista Meridiana , che fece molto discutere, il portavoce della Fiat di quei tempi, Cesare Annibaldi, spiegò che Torino preferiva«aree fondamentalmente agricole, dove la manodopera si adatta più facilmente al lavoro industriale; è il ruolo del lavoro agricolo che, di sua natura, non è contestativo». Per la verità anche i dipendenti lucani hanno poi imparato a farsi sentire, ma certo la Fiat a Melfi ha potuto sperimentare e rafforzare un modello produttivo efficace, con il significativo contributo iniziale dello Stato e la benevolenza dei sindacati confederali che, già vent’anni fa e dunque ben prima della cura Marchionne, accettarono tutte le condizioni poste dal gruppo torinese pur di ottenere l’investimento al Sud: produzione continua su tre turni di otto ore al giorno, per sei giorni alla settimana compreso il sabato, lavoro notturno anche per le donne.
Se oggi i dipendenti Fiat devono misurare la loro efficienza con i parametri del World class manufacturing, a Melfi hanno sperimentato a lungo le condizioni della «fabbrica integrata», o del «consenso» si disse, perché agli operai e ai tecnici organizzati nelle Ute (acronimo di Unità tecnologiche elementari) che superavano le vecchie squadre operaie, si chiedeva di essere «polivalenti e funzionali», più responsabili, di lavorare in team e di «diffondere la cultura del miglioramento continuo».
Un’altra era
Agnelli e Romiti guardavano al Sud per rafforzare la Fiat in un mercato dove, dopo l’acquisto dell’Alfa Romeo, il gruppo manteneva una quota di mercato superiore al 50%. Oggi, da Detroit, Marchionne punta su Melfi con la Jeep Renegade e la nuova 500X per combattere sul fronte planetario dell’auto e mantenere un posto tra i grandi produttori mondiali. In effetti, la battaglia per difendere le quote di mercato nel cortile di casa oggi si è trasformata in una guerra per la sopravvivenza.
Forse ci sono segnali di una pagina che cambia. La Fiat Sata fu il più importante e coraggioso investimento industriale nella stagione della politica dei redditi, dopo la drammatica crisi del 1992: l’accordo Ciampi-sindacati salvò il Paese, rilanciò l’industria e, pur a fatica, portò l’Italia in Europa. Melfi fu un’iniezione di fiducia nel corpo di un Paese malato. Si può replicare?
In coincidenza con il Jobs Act e le esenzioni contributive per i neoassunti decise dal premier Matteo Renzi, arrivano gli investimenti Fca e i nuovi posti di lavoro in Italia. Che le due cose siano legate e conseguenti conta poco. Però qualche cosa si muove: accanto a Melfi, il governo si è impegnato per la riapertura di Termini Imerese e nel piano di reindustrializzazione dell’ex Irisbus di Avellino, due impianti chiusi dalla stessa Fiat. Il rafforzamento della vocazione manifatturiera fa bene all’Italia e al Sud in particolare, dove tante speranze sono svanite.
«Investire a Melfi con 1.500 nuovi occupati è un affare per la Fiat», sostiene Nino D’Agostino, economista originario di Melfi che ha passato una vita a studiare politiche per il lavoro al Sud. «In Basilicata ci sono 50 mila giovani che non fanno nulla. Marchionne ha una platea tra cui scegliere: diplomati, laureati, ragazze e ragazzi capaci e disponibili a molto pur di avere un’occupazione. È un’occasione per ripartire». Tutto a posto, dunque? «Purtroppo anche oggi manca un disegno pubblico di garanzie e formazione, di infrastrutture moderne e nuovi centri urbani. E il sindacato — conclude l’economista — conta poco, sempre meno da quando ha deciso di litigare e dividersi».