Roberto Scafuri, il Giornale 19/1/2015, 19 gennaio 2015
MARCO FOLLINI: «LA POLITICA È UNA MALATTIA»
Svegliarsi una mattina e capire che il tuo tempo è volato via. Guardarsi allo specchio e dover riconoscere che le tue idee si specchiano altrove, in un mondo svanito. Farsi l’esame di coscienza e scoprire che la propria identità, costruita giorno per giorno, ha perduto corso legale. Volente o nolente: è così e non puoi farci niente. «Il politico è colui che scrive il proprio disegno nella realtà; e se è questa la realtà che ti circonda, ne devi prendere atto».
A Romiti che chiedeva se ci fossero in giro dei giovani dc di talento, il vecchio patròn veneto Toni Bisaglia rispose: «Certo che sì. Ne ho due per le mani, come due figli: uno bello, l’altro intelligente». Sono un bel po’ di anni che Marco Follini su questo aneddoto ci campa, essendo il «bello» Pier Ferdinando Casini. Erano raccontati come «gemelli», Castore e Polluce della genia democristiana capace di sfornare classe dirigente ben allevata, educata al timor-di-Dio, ambiziosa come si conviene. Sodalizio che tradì fin dall’inizio l’ingiustizia di quel doppio binario, fino a prevedere la vanità dell’uno che ne impedisce oggi il distacco dalla poltrona, e l’amor di logica che ha suggerito all’altro di cambiare vita. Senza rimpianti, senza cadute di stile, praticamente da un giorno all’altro, dopo la sveglia suonata per tutti come campana a morto. Il suono della rottamazione per un’intera generazione di politici, un tempo «classe dirigente». «Ho avvertito non come un’ingiustizia l’incedere del tempo, perché se non sento di avere alcuna responsabilità personale, e rifarei tutte le scelte che ho fatto, sono consapevole invece che portiamo tutti una responsabilità collettiva, il disastro che abbiamo creato».
Marco Follini, classe ’54, tra i più giovani di quei ragazzi che vivevano di pane e politica, attendendo il momento del passaggio di consegne e, quando esso è arrivato sugli scudi di Tangentopoli, si sono trovati in mano i destini del Paese. Senza sapere cosa farne, al punto di fallire la missione di gruppo. «Ho interpretato la richiesta di cambiamento che il Paese pretendeva», dice l’understatement di Marco, che racconta di avere resistito alla tentazione di chiedere la «deroga dei rottamati» pur di potersi ancora sedere in Parlamento, come ha fatto invece Rosy Bindi. Lui s’è disintossicato quasi subito, aiutato dal gran senso di sé. «Ho sofferto di più il passaggio dalla prima alla seconda fila, quella zona d’ombra che ha significato vivere anni difficili e prendere coscienza del cambiamento che matura attorno a te». Da ministro, vicepremier e segretario di partito a voce inascoltata nel partito degli ex avversari, quei vecchi «spretati» del Pci. «Gente rispettabilissima - dice lui riferendosi a Veltroni, a D’Alema -, con i quali ho sempre conservato la consuetudine dei movimenti giovani». Degli altri, di quei patetici personaggi suoi coevi che ancora oggi continuano a calcare le scene nonostante la sabbia sia già calata nella clessidra (vedi Fini), non esprime giudizi. Se non con fugaci guizzi d’ironia per «le carriere che si credono ancora sempiterne, nonostante le circostanze di una volta siano irripetibili». E dunque, «sono contento della mia forza interiore», afferma con il piglio d’un ragazzo appena uscito da San Patrignano.
La politica è una droga, di sicuro lo è il potere. Eppure nel vangelo minore che è poi la «versione di Marco», la politica è anzitutto «un’abitudine». Fin dal suo ingresso in Parlamento, fu nel ’96, «vedevo quei volti degli ex parlamentari che sedevano sui divanetti, incapaci di darci un taglio netto, mediamente tristi, dispiaciuti di non dovere correre in aula quando si sentiva il suono della campanella» (quella delle votazioni). Marco forse già da allora aveva deciso che non sarebbe arrivato a quel punto, ci avrebbe pensato prima, in tempo per divertirsi (o almeno per sostenerlo senza scoppiare a ridere) con l’ultima delle cariche, ben circoscritta ai margini della politica. È presidente dell’Associazione dei produttori televisivi, la Confindustria di chi confeziona i programmi per la scatola magica che Follini ha sempre amato, fin da quando fu nominato da De Mita consigliere Rai. «Un lavoro vivace, interessante, innovativo», dice con occhi dai quali sfumano smarrimento e perdizione.
Resta l’orgoglio, quello «d’aver concluso a modo mio, cosa che concede libertà infinita». Libertà di alzarsi la mattina e «lo confesso, la prima cosa che faccio è cercarmi sui quotidiani le note politiche dei miei preferiti». Poi la discesa in un ufficio non lontano dai Palazzi, o lunghe passeggiate per villa Borghese alla ricerca non di salute (longilineo e abbronzato, non sembra passarsela male), quanto piuttosto dell’ultimo commento, dell’ultimo pettegolezzo politico, dell’ultimo ragionamento (lui che ebbe infatuazioni demitiane) con gli amici di una vita. Già, perché all’orecchio c’è sempre attaccato un auricolare, e in linea magari c’è Walter, «ex giovane Pci» almeno quanto lui è rimasto «ex giovane Dc». Eppure «sono un signore all’antica» è la frase cui Follini resta più legato. Restio ai «proclami del nuovismo, tra le poche cose che m’inducono a indossare guantoni» (ed è evidente come siano fatti solo di parole tenui). Dunque nelle «nebbie del potere» in cui ci troviamo (titolo dell’ultima sua fatica letteraria) Renzi è in qualche modo il campione, e Marco lo affronta con la docilità del cinese seduto sulla riva del fiume, perché «Matteo piace per il benservito che ha dato a una classe politica disastrosa, ma ora che sta diventando un’istituzione già piace un po’ meno», e tra un po’ piacerà quanto lepre trascinata via dalla corrente.
Ma se la seconda vita di Marco è la figlia Claudia, «22enne con i problemi lavorativi di tutti i suoi coetanei» (qui l’autocritica consiste solo in quel «peccato mortale che è stato il debito pubblico, che ha significato scaricare sulle generazioni future anni di bengodi»), di una nuova compagna, non mancano i rimpianti. La «riduzione della politica a politologia», dice Follini, che si rammarica di non aver avuto «la forza di cambiare le piccole cose quando avrei dovuto e potuto, troppo preso dagli equilibri generali, dai problemi giganteschi e irrisolvibili». Così come «la timidezza nel promuovere una nuova classe dirigente quando ero segretario dell’Udc: avevo con me Buttiglione, Giovanardi e Baccini, personaggi con i quali non sarei andato a cena, eppure li ho subiti». Del difficile rapporto con Berlusconi ripercorrerebbe tutte le tappe, «ogni frammento», tale era la differenza politica tra le due visioni, totalmente inconciliabile. «Ma riconosco in lui una figura umana tutta particolare, capace di preservare buoni rapporti personali, perché è assai meno cinico di altri».
Se l’attuale nuovismo come valore in sé e l’eccesso di spregiudicatezza di Renzi sono criticabili, l’orticaria per Marco sta nel carattere personale della politica, nel «culto della leadership» che forse arriva con Berlusconi, ma probabilmente ancor prima, la cui altra faccia è la «ferocia scatenata sul capro espiatorio». Che uomo noioso vero?, si compiace di sé il timido Narciso prima d’entrare nelle nebbie della memoria pubblica, come ordinaria «follinità» restituita a se stessa.