Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 18/1/2015, 18 gennaio 2015
«IO E MINA, VIAGGIO AL TERMINE DI UNA MADRE»
Con Alba ci sono più domande che risposte. Più dubbi che certezze. Più misteri che rivelazioni. Nascondersi è un’esigenza. Una reazione all’avventura che si è scelta. Un trucco per evadere dal mestiere che un giorno la vede figlia e quello dopo, madre: “Un attore è soprattutto un volto, una voce, il personaggio che recita”. A vederla da lontano, quasi immobile sotto il lampione che ne illumina il profilo magro in un ostile pomeriggio di Gennaio, Alba Rohrwacher sembra soltanto un albero che si difende dai rigori dell’inverno. Immobile, indifferente al vento, in attesa di una stagione che muti l’orizzonte e le restituisca un altro viaggio. L’ultimo in ordine di tempo, Hungry Hearts di Saverio Costanzo (Wildside, nei cinema) l’ha portata a New York precipitandola in un’ossessione circolare che alla fiamma dell’amore fa seguire l’incendio di ogni raziocinio.
Un ragazzo e una ragazza si incontrano per caso nell’angusto cesso di un ristorante cinese. Tra i miasmi, complice una porta difettosa, rimangono prigionieri fino a incuriosirsi reciprocamente, dividere le notti, mettere al mondo un figlio ed essere infine tradotti nella galera della convivenza forzata in cui tramontato lo slancio iniziale, si comincia a conoscersi veramente per quel che si è ed è troppo tardi anche per la retorica del pentimento, l’accusa da tinello o il fotogramma da naufragio matrimoniale: “Quando sei diventato un tale pezzo di merda?”. Con il santo pauperismo di uno Scorsese alle prime esperienze e due interpreti superbi al suo servizio, Costanzo ha girato un affresco memorabile sulla responsabilità. Un apologo sinistro sul disagio e sull’impossibilità della comprensione reciproca. Un film magnifico in cui il dolore non ha consolazione, i patti bruciano e la solitudine è senza rimedio. Per il suo ruolo di madre alla deriva in Hungry Hearts, allo scorso Festival di Venezia, Alba Rohrwacher ha vinto la Coppa Volpi. Le avevano già consegnato David di Donatello e Nastri D’Argento, ma a una prima indagine sommaria, i premi le interessano meno delle ipotesi artistiche: “Come è accaduto spesso, mi sono votata alla sofferenza anche in Hungry Hearts. Ho affrontato spesso ruoli dolorosi, ma quello di Mina non rappresenta solo l’ennesima discesa nell’abisso, ma qualcosa di più complesso. Con Adam Driver, mio marito nel film di Saverio, abbiamo collaborato fin dal principio. Non abbiamo avuto paura di sbagliare né di esprimere opinioni sul copione. Abbiamo strutturato il nostro punto di vista in corsa, in maniera quasi artigianale e ascoltando il regista, ci è capitato di rovesciarlo in toto. Penso che il punto di vista sia proprio uno dei protagonisti della storia”.
Nasce un bambino. La madre ritiene che sia
speciale e vada preservato dalle brutture del
mondo. Smette di nutrirlo. Non lo fa uscire. Lo protegge dalla realtà fino a negargliela. E inevitabilmente si scontra con il padre.
Mina, la donna che porto sullo schermo, si identifica in suo figlio e proietta su di lui tutte le sue paure. Fino al giorno prima è una persona che ama il suo lavoro e ha un’esistenza normale. Sublimata la maternità, diventa un’altra. Qualcuno le suggerisce una cosa e quella voce, come in Shakespeare, innesca un inferno e scatena una tragedia.
Mina è il prototipo di un’irresponsabilità che
non conosce redenzione.
Per il sentire comune è una madre degenere. Una pazza. Un’ossessa. Una donna che mette a rischio la vita di suo figlio e compie un’infinità di sbagli. Un’estranea in una Nazione che non la capisce, inseguita da un sistema che ne diffida e la considera straniera. Per me però, Mina è un’altra persona.
Chi esattamente?
Una donna che non voglio giudicare. Tendo a difenderla e durante il film sono stata sempre dalla sua parte. Penso sia l’unico modo di raccontare un personaggio apparentemente negativo. O cerchi di capirne il lato oscuro e di leggere senza pregiudizi il nero che ognuno di noi ha dentro, oppure assumi una posizione morale e ti metti in cattedra. Quando inizi a dire ‘questo è giusto e questo è sbagliato’ è la fine. Se l’attore non crede al ruolo che interpreta perché dovrebbe crederci lo spettatore? Per questo tendo a non fingere mai quando recito. Per questo provo a calarmi nella parte. Ad aderire completamente alla maschera.
Nel difendere la sua posizione nella coppia e la sua scelta, Mina si appoggia volentieri all’ideologia.
Lo pensa anche Saverio. L’altro giorno, parlando delle motivazioni che sono alla base del comportamento di Mina, ragionava sull’ideologia sostenendo una cosa interessante.
Cosa.
Che l’ideologia nasce sempre da un innamoramento. Mina si innamora a tal punto del suo bambino, della sua creatura, che a un tratto ascoltare le ragioni degli altri le diventa impossibile. A me, in qualche modo, è successa la stessa cosa. Mi sono innamorata di lei e non sento ragioni. La mia posizione rispetto al personaggio è identica a quella del personaggio rispetto al suo incedere nella storia. Sono diventata ideologica anch’io.
L’amore tra i protagonisti nasce da un atto arbitrario.
All’inizio, l’unico a volere il figlio è il protagonista maschile. Lui decide. Lei, suo malgrado, si adegua a una violenza rispondendo poi con un’altra forma di violenza eguale e contraria. Quando il bambino nasce infatti, l’unico sorriso è quello dell’uomo. Lei piange. È stravolta. Sconvolta. Non esiste condivisione.
Il bambino del film
non ha un nome.
Il bambino è una creatura senza nome perché in qualche modo incarna un simulacro. È un simbolo universale. È tutti i bambini del pianeta e al tempo stesso, nessun bambino. All’inizio non avrebbe dovuto avere un nome neanche il mio personaggio.
In “Hungry Hearts” lei tratta questo bambino come un indizio di divinità.
Dico che gli altri possono vederlo, ma non possono capirlo. Che è esattamente quel che capita a lei. Il percorso di Mina la trascina a non vedere oltre ciò che le interessa. Si sente investita da un potere assoluto e si fa guidare dall’istinto.
“Hungry Hearts” è un film sulla solitudine?
Anche. Sicuramente è un film sulla labilità dei rapporti umani. Un’analisi sulla fragilità della coppia. Uno sguardo sul filo sottile che tiene unite le persone. Non reciderlo è un talento raro. I due protagonisti sembrano trovarsi e completarsi vicendevolmente e poi all’improvviso non si riconoscono più. È un film sul tradimento della fiducia, soprattutto. Sul tradimento delle promesse iniziali. Quando viene meno la fiducia, scompare tutto il resto. Nei film come nella vita vera.
La fiducia è importante anche per lei?
È una cosa molto preziosa. Un dono da custodire. Una responsabilità. Se ti do fiducia, mi aspetto di essere ripagata con il rispetto.
Ha paura delle responsabilità?
Non le temo e non ho paura di assumermele. Saper proteggere un affetto fa sentire meglio. Quando ci riesco, io mi sento meglio.
Cos’altro la fa sentire bene?
Dire di no. Rifiutare qualcosa che non ti convince. Quando dici no, cresci. Ti formi. E dire di no è difficile. È qualcosa che impari lentamente. È una forma di conquista.
Le pesa?
Molto. Ho detto dei ‘no’ che mi hanno devastata. Non compiacere a tutti i costi e capire che non si può essere simpatici a tutti è complicato. Fa soffrire. Estenua.
Ne ha detti molti? Ha rifiutato molti film?
Non direi. In Italia non si fanno molti film.
Alba Rohrwacher, dicono, è sensibile.
Non più degli altri anche perché degli altri, in fin dei conti, io non so niente.
Non più di quanto gli altri sappiano di lei.
Esco molto. Evito di chiudermi in casa. Ma non inseguo la mondanità e ho pudore nel raccontarmi. È un lavoro la mondanità. Un mestiere faticoso. Un’impresa che non mi somiglia.
Il suo compagno, Saverio Costanzo, non ama concedere interviste: “Non ho niente di importante da dire”.
Come non essere d’accordo? Posso impossessarmi della sua riflessione?
Lavorare con la persona che si ama è una scalata?
È una discesa. Ci siamo incontrati lavorando su un suo film. Collaborare non è mai stato un aggravio.
Schermirsi è un riflesso della sua infanzia? Lei è cresciuta in provincia.
Usando le parole di Marc Augé, io sono cresciuta in un non luogo. In una campagna indefinita. Dove pulsa il tutto e dove pulsa il niente. A Poggio del Miglio, non lontano da Orvieto. Intorno solo piante, silenzio, animali e arnie per le api. La tv c’era, ma non la guardavamo.
Suo padre Reinhard, apicoltore e musicista, si trasferì in campagna con sua madre Annalisa, insegnante, quando lei e sua sorella Alice eravate piccole.
Avevamo due e quattro anni. Di certo non ci chiesero il permesso. I nostri genitori decisero insieme di vivere in campagna e quel passo li unì profondamente. Era il classico progetto di vita. Tra il postulare l’ipotesi e il partire davvero c’è sempre uno iato. Loro, a prezzo dell’isolamento, della neve e degli inverni che io ricordo lunghissimi, quello iato lo superarono.
Lei non era felice?
Le rispondo con uno verso di Patrizia Valduga: “E chi è felice / felice non si dice / è una parola che immalinconisce”.
Che risposta gentile e diplomatica.
Lei ha letto Le furie di Janet Hobhouse? È una bel libro e ha un titolo bellissimo. Io ero così. Una furia. E una furia non è gentile, non è diplomatica e non è conciliante. Una furia è una furia.
Come è esattamente una furia?
Una persona che non sta mai bene nel posto in cui si trova. Una persona che desidera sempre essere altrove. Una persona che non è in pace e per cui non va tutto bene.
A Marco Mathieu ha raccontato che a bordo del furgone di suo padre ascoltavate spesso Isoradio andando per mercati.
Dalla radio uscivano informazioni settoriali. Parlavano sempre del traffico intenso tra Busto Arsizio e Gallarate e io mi chiedevo costantemente che cosa succedesse davvero in quell’angolo di Lombardia. La mia famiglia è qualcosa che mi sta dentro. Con i miei genitori ho un ottimo rapporto e al luogo in cui sono cresciuta mi legano radici fortissime, ma questo non significa che da adolescente non covassi un’inquietudine. Non mi lamentavo tanto
– detesto il lamento – ma alcune domande me le ponevo.
Quali domande?
Una domanda declinata in molte forme, in realtà. Ma in fondo sempre la stessa domanda: “Perché dobbiamo stare qui?”.
Soffriva?
Gli spostamenti erano complicati. Non era facile muoversi e non era semplice andarsene. Era una conquista anche raggiungere Orvieto per vedere un film. C’era sempre qualcuno che doveva accompagnarti, un autobus da prendere, una coincidenza da attendere.
Traslato con le ali dell’immaginazione, sua sorella Alice ha raccontato il vostro mondo ne “Le Meraviglie”, accolto tra gli applausi e premiato l’anno scorso al Festival di Cannes.
Il paradosso è che quel microcosmo io l’ho sempre protetto e ora che mia sorella ci ha costruito sopra un film, quella protezione è saltata e mi chiedono ancor più del miele, delle api e dell’infanzia in campagna. Non se ne può più e io non posso che prendermela con lei. (Ride). Alice comunque pativa meno di me la condizione dell’isolamento. Lei una furia non era. Lo è diventata.
Il suo cinema la affascina?
Molto. Vedo l’evoluzione. La crescita. La stimo profondamente.
È vero che non avrebbe mai immaginato di calcare le scene?
Verissimo. Studiavo Medicina e non pensavo né al cinema né al teatro. Poi mi trasferii a Roma.
Lasciando la campagna.
A diciassette anni avevo già girato l’Europa. Poi ho sperimentato la convivenza con gli amici e con un fidanzato. A vent’anni ho incontrato i miei compagni di corso al Centro Sperimentale di Cinematografia. Senza perdere e anzi ritrovandoli nella libertà, tutti gli insegnamenti, a iniziare dalla concretezza, della mia vita in campagna. Le cose lasciate indietro, indietro non erano rimaste. Ma le ero portate con me. Erano in valigia.
Il Centro Sperimentale di Cinematografia la sorprese?
Il Centro Sperimentale era un mondo. Un altro mondo. Vedevamo i film in pellicola ogni mattina. Incredibili patrimoni di fantasia che non avrei mai sfiorato a Orvieto, ma neanche in una sala cinematografica della grande città in cui ero andata ad abitare. Roma non è Parigi, o New York, o Londra.
La magia del Centro, diceva.
Ha rappresentato la felicità assoluta di un tempo sospeso. Roma la conoscevo a malapena. Sapevo a memoria il percorso dalle molte case in cui ho vissuto al Centro Sperimentale e poco più. Tutto ruotava intorno alla scuola. Il resto era appendice. Volevamo essere solo lì, anche se le selezioni erano durissime e dopo i primi due mesi, ammisero solo metà di noi alla scuola vera e propria. L’atmosfera creava più coesione che competizione. Era una febbre. Sembrava di essere nel telefilm Fame e noi attori di Saranno famosi. Si formavano legami sinceri, affetti reali, c’era condivisione assoluta. Quando a me e a un mio amico comunicarono che saremmo rimasti, avvertii uno straniamento. Un senso di incredulità. Non era escluso che qualcuno lo meritasse più di noi e ci guardammo seri per vedere se non si trattasse solo di un sogno: “Ma siamo davvero qui?”, “Hanno preso veramente noi?”.
La sua anomalia spiazza. C’è chi la paragona a una Monica Vitti allampanata e allucinata.
Magari fossi come Monica Vitti e avessi quella capacità sublime di fondere l’alto e il basso. Il “Mi fanno male i capelli” antonioniano e la leggerezza.
Come se la cava con l’autocritica?
Sono severa con me stessa e tendo ad addossarmi ogni responsabilità. Faccio probi propositi di miglioramento ma poi non riesco a rispettarli. Sono distratta. Non riesco ad avere un’agenda. Mi dimentico addirittura degli appuntamenti. E faccio spesso confusione creando malcontento tutt’intorno .
Che rapporto ha con il rancore degli altri? Con il suo? Le capita mai di provarlo?
Penso alla tetralogia dell’amica geniale di Elena Ferrante.
Le piace? L’ha appassionata il dibattito sulla
sua reale identità.
Mi incuriosisce la sua scrittura, non sapere chi sia davvero Elena Ferrante. È un gioco. Un piccolo mistero. E io sono sempre dalla parte di chi non vuole svelare il mistero a ogni costo. In quella storia scritta dalla Ferrante, si parla molto di rancore. Di confronto. Di rabbie. Di desiderio di essere qualcosa d’altro. Lo sguardo altrui diventa spesso, per la protagonista, motore per agire diversamente da come naturalmente farebbe e quindi per fingere. Per piacere e per compiacere. È un rancore che lei prova verso chi è migliore di lei. Rancore per chi non la celebra. Rancore unito ad amore. Un groviglio di sentimenti non facilmente dipanabile. Un vero casino.
Le è capitato di riconoscersi in quel groviglio?
A volte, leggendo, mi sono identificata in quella rabbia giovane. Oggi non sono più così. Il rancore non riesco a provarlo. Al limite stupore. Per chi si accanisce. Per chi mi guarda storto. E quando poi, partendo da quegli sguardi sbiechi, riesco a guardare e a guardarmi con più onestà, lucidamente, sono felice. E imparo. Anche la leggerezza.