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 2015  gennaio 18 Domenica calendario

MARIO CAPANNA: «I COMIZI VESTITO COL MANTELLO DA PRETE, GLI ORMONI DEL ’68 E LE API ANTIFASCISTE»

Non è un pranzo di gala, e per fortuna. Dalla finestra della cucina si vedono le colline morbide di Città di Castello, filtra il sole. In tavola la pasta fresca cucinata dalla signora Ivana, l’insalata di erbette selvatiche raccolte dal padrone di casa. Condite con un olio che l’anno scorso ha vinto il “Tuscany olive oil awards”, e che ci si trovi in Umbria non è un particolare da poco. Mario Capanna, settant’anni da qualche giorno festeggiati in libreria con Storie di un impegnato (di Romolo Perrotta, Ipoc editore), s’infila gli stivali per mostrare i suoi alveari. “Attenzione, le api impazziscono davanti al nero: non si sa perché. Secondo me sono antifasciste”. Il rumore del Sessantotto sembra lontanissimo dalla dolcezza di questo posto: ma l’eco si sente eccome. Insieme a un fragore ben più attuale: “Tutti sono Charlie. E ci mancherebbe, è stata una strage terribile”, dice il contadino che fu un leader. “Però mi piacerebbe che ci ricordassimo anche di essere qualcuno dei civili ammazzati dai raid occidentali in Siria o in Iraq”. A passeggio tra gli ulivi Capanna indica la direzione della sua casa natale, una manciata di chilometri da qui: “Sono nato lì, con la levatrice. Nel pieno dell’inverno, la guerra agli sgoccioli, ma i tedeschi che spadroneggiavano. Mia madre, per lo spavento della guerra, quasi subito dopo la mia nascita perse il latte. C’era una donna, si chiamava Italia,nomefascistissimo!,cheavevapartoritouna bimba un giorno prima della mia nascita. Italia aveva molto latte e ogni tanto mi portavano da lei per farmi mangiare”.

È vero che doveva fare il meccanico?

Mio papà è morto giovane: avevo sei anni e la mia ultima sorellina aveva appena un anno, il maggiore 18 e faceva il meccanico. Poi avevo una sorella maggiore e altri due fratelli, anche loro più grandi. Ho fatto le elementari in una piccola frazione di Città di Castello, Badia di Petroia. Mi piaceva studiare: ho sempre pensato che tutto quello che immagazzinavo nella testa nessuno me lo poteva rubare. Ma soldi ce n’erano pochi, e sì il mio destino era fare il meccanico: tra l’altro a me non dispiaceva, in officina passavo tanto tempo. Ma la maestra parlò con i miei: “Dovete fare studiare Mario, a qualsiasi costo”. Li persuase. Così ho fatto le medie e dopo il liceo classico Plinio il giovane a Città di Castello: ero molto bravo nelle materie umanistiche, meno in matematica. Dopo la maturità, il prete del paese e il vescovo mi dissero che dovevo andare alla Cattolica. Io pensavo di iscrivermi a Perugia, era più facile. Ma non ne vollero sapere, e così la Cattolica fu. Partii con una valigia verde e molte aspettative. L’esame di ammissione era molto difficile. In commissione c’era Lidia Menapace, poi tenace femminista. L’esame serviva non solo per essere ammessi all’Università, ma soprattutto per entrare nel collegio Augustinianum, la mia unica possibilità per restare lì.

È il 1964. Prima che tutto cominci, passano tre anni di sostanziale pace.

E io studio moltissimo. Per restare in collegio bisognava avere la media del 30. La cosa mi atterriva: i miei non avrebbero potuto mantenermi. In più entrando in collegio, percepivo il presalario, in quanto figlio di una famiglia non abbiente: erano trecentomila lire l’anno, che mi servivano per i libri, l’iscrizione, senza dover gravare sui miei. Non studiavamo solo le materie d’esame. Di notte, di nascosto, studiavamo Marx e i teologi di frontiera: Schillebeeckx, Rahner, Bonhoeffer, che fu ucciso dai nazisti. Eravamo attratti dal clima del Concilio Vaticano II, è in quelle notti che nascono i primi germi della contestazione.

Poi alla fine del ‘67 occupate la Cattolica.

In agosto il Senato accademico aveva deciso di raddoppiare le tasse, rendendo di colpo il nostro Ateneo il più caro d’Italia. C’erano allora tantissimi studenti lavoratori, non solo rampolli della buona borghesia. Sospettavamo che questi soldi servissero per creare una barriera sociale e per finanziare l’espansione dell’Università: la facoltà di agraria a Piacenza, Medicina a Roma. Cosa che in effetti era ed è accaduta. Chiediamo di vedere i bilanci: come se avessimo chiesto al rettore di presentarsi nudo a messa. Allora ci mettiamo a volantinare, davanti all’Università con i megafoni. Io avevo un impermeabile di quelli lunghi, che mi aveva prestato un prete. Quando avevo finito di parlare il rettore mi chiedeva il microfono e avvisava tutti: “Guardate che non è un prete, è uno studente”. Il 17 novembre, in Aula magna, una selva di mani vota per l’occupazione.

Inizia l’epopea dei sacchi a pelo.

Sì, ma alle 3, quella stessa notte arriva la polizia, guidata dal rettore. La Cattolica non era mai stata violata, neanche in vent’anni di regime. Noi opponiamo resistenza passiva, ci mettiamo a leggere la Costituzione: quando quello che leggeva veniva preso dalla polizia, passava il libro a un altro, che continuava a leggere. Immediatamente scatta l’espulsione dal collegio: non sapevamo dove andare a dormire. Poi facciamo un presidio con le tende in piazza Sant’Ambrogio.

Da questa notte all’espulsione quanto tempo passa?

Rioccupiamo il 5 dicembre: a Michelangelo Spada, a Luciano Pero e a me arriva una lettera di ammonizione. Ci chiedono, davanti al Senato accademico, una specie di abiura. Diciamo no, ci trasferiscono d’ufficio all’università Statale più vicina.

A casa non l’avranno presa bene.

Mia madre aveva fatto la terza elementare, i miei fratelli la quinta. Quando arrivano le prime notizie, in paese la gente comincia a parlare. La stampa poi non è favorevole. Mia madre al telefono mi diceva: “Mario, cerca di essere prudente, capisco tutto, ma insomma...”. Il colpo duro è quando mi arrestano la prima volta. Ancora oggi mi commuovo quando rileggo le lettere di mia madre. Mi raccontava delle visite del parroco che andava a consolarli per la “disgrazia”. Ma lei rispondeva che era orgogliosa di me.

Torniamo indietro, alla primavera del ‘68, quando le occupazioni dilagano dappertutto. Voi cosa volete?

Dire no alla riforma Gui, dal nome del ministro democristiano dell’epoca. La legge era la numero 2314. Appena tra di noi si diceva “23 e 14”, si alzavano grida indignate. Ponevamo la questione dei contenuti dei programmi di studio. La scuola, le università erano luoghi di trasmissione del sapere dominante, un sapere libresco che educava alla soggezione. Volevamo discutere con i docenti di cosa ritenevamo meglio ci fosse insegnato. Inaudito, no?

Inaudito e pericoloso, visto quello che è accaduto alle università nei dieci anni successivi.

L’università era ancora riservata a un’élite, a quelli che uscivano dal liceo. Grazie alle nostre lotte, insieme a quelle operaie, abbiamo ottenuto la famosa liberalizzazione degli accessi all’università.

E sono arrivate masse di studenti che non erano in grado di fare l’università.

Non dimentichi che era una tardiva applicazione della Costituzione, che garantisce a tutti il diritto all’istruzione. Il guaio è che hanno liberalizzato gli accessi all’Università senza prevedere una serie di strumenti fondamentali: biblioteche, laboratori, campus, presalari. Il disastro fu lì. Poi è ovvio che arrivarono un sacco di persone che pensavano di fare l’Università per trovare un lavoro e far soldi e a cui non fregava nulla di sapere o di studiare. Dieci giorni fa, fermo a un Autogrill, scende un omone da un Tir e mi dice: “Tu sei Capanna, vero? Grazie, perché è grazie a te che mio fratello ha potuto laurearsi”.

Il ‘68 – dicono- in Italia dura dieci anni. E sono gli anni in cui si oltrepassa il ridicolo con i voti politici e gli esami di gruppo.

Bisogna stare attenti alle vulgate del potere dominante. Ci sono stati episodi, come gli esami di gruppo, soprattutto in alcune facoltà di Architettura, di cui si è abusato. Ma nei nostri volantini – glieli posso mostrare – teorizzavamo l’importanza del conoscere. Teorizzavamo che chi era “primo nella lotta doveva essere primo nello studio”. Tra un corteo e un’assemblea, tra una manifestazione e un picchetto avevamo sempre un libro in mano.

Come si passa dai bravi ragazzi che si fanno sgomberare leggendo la Costituzione ai katanga?

Alt. La domanda è impropria. L’epiteto “katanga”

– dal nome di una regione del Congo dove i combattenti erano molto bellicosi - fu affibbiato con l’ovvia finalità di criminalizzare dal Corriere della Sera. Il servizio d’ordine nasce dalla tradizione del movimento operaio. Dopo le prime manifestazioni, noi cominciamo a subire continui assalti fascisti, con decine di compagni accoltellati o picchiati, decine di molotov buttate dentro l’università quando era occupata. La polizia randellava. E quindi abbiamo deciso di organizzare un servizio d’ordine, che non era una struttura permanente. E c’erano anche le ragazze, che con le lambrettine pattugliavano i cortei tra la testa e la coda.

Così sembra una favoletta!

Macché. Ricostruiamo i fatti. C’è la bomba in piazza Fontana, e la stessa Unità, organo del Pci, a tutta pagina titola un equivoco: “Sia fatta luce”. Come se davvero potessero essere stati gli anarchici e non i fascisti. Poi Pinelli “cade” dalla finestra, Valpreda viene arrestato. Il 16 gennaio indiciamo la prima manifestazione: nessuno, nemmeno il Pci, aveva osato mettere il naso in piazza. La Questura ci chiama e ci dice che se avessimo fatto il corteo ci avrebbero fatto a pezzi. Allora decidiamo di spostarla al 21: il divieto riguardava la manifestazione del 16, se ci avessero vietato anche quel giorno, si sarebbe sancita la sospensione dei diritti costituzionali. Mettiamo in prima fila i professori della Statale – Geymonat, Paci, Dal Pra, Berengo – e subito dietro i giornalisti democratici: Scalfari, Bocca, la Cederna, Bruno Ambrosi della Rai che prese tante botte dai Carabinieri per novanta giorni d’ospedale con fratture ovunque. Pensavamo che questi due cordoni impedissero le cariche: i giornalisti agitavano le tessere stampa e le prendevano di santa ragione. Resistemmo, con vigore. A quel punto tutta la Milano democratica è con noi: perfino il Corriere della Sera ci rende l’onore delle armi. Il 31 gennaio facciamo un altro corteo e naturalmente la polizia sta ferma. Per la prima volta risuona il grido: la strage è di Stato, Valpreda è innocente.

Però eravate anche maoisti. Oltre al mito della rivoluzione culturale, milioni di morti...

Non si sapevamo molte cose. Al di là di questo c’era l’idea di un grande popolo che si liberava, che prendeva in mano il suo destino. E poi c’era il Vietnam, gente che andava in giro scalza e con un pugno di riso che teneva in scacco la più grande potenza del mondo. Erano questi gli aspetti preminenti che destavano simpatia.

Pensavate davvero di fare la rivoluzione?

Settori del movimento che scambiavano la contestazione per rivoluzione c’erano. Insieme al movimento operaio che aveva mutuato l’assemblearismo da noi, pensavamo – ed è quello che ci ha permesso di vivere così a lungo come ‘68 italiano – che la contestazione dovesse costruire la coscienza collettiva. La rivoluzione non si fa con uno schiocco di dita. La premessa era questa.

Una delle contestazioni che si muovevano ai contestatori era l’aspetto ludico della lotta. Occupavate, dicevano, per fare l’amore.

Eravamo giovani, entusiasti, sentivamo di scrivere un pezzo di Storia. E gli ormoni, dove li mettiamo? Vivaddio che si faceva l’amore. Ma non c’erano orge come scrivevano i giornali dell’epoca.

Quando si laurea?

Nel 1973: in quegli anni di fermento sono stato assorbito dalla politica. Poi ho fatto lavoretti, un po’ qua un po’ là. Ho fatto il barista nel bar di un amico, il meccanico quando tornavo d’estate a casa. Nel ‘75 sono stato eletto con Dp al Consiglio regionale della Lombardia.

Con il ‘77 non avete avuto buoni rapporti.

Noi eravamo stati vaccinati contro la violenza – pur dovendola in certi casi esercitare – da grandi comandanti partigiani: Giovanni Pesce e Cino Moscatelli ci mettevano continuamente in guardia. Ovviamente il ‘77 non va ridotto tutto a terrorismo. Abbiamo preso le distanze dalla lotta armata ed è questa la ragione per cui dal Movimento studentesco di Milano non esce un terrorista.

Dopo Valle Giulia, Pasolini scrive la famosa poesia “Il Pci ai giovani”.

Questa è la pistola fumante, la prova di quanto il pensiero dominante sia stupido e bugiardo. Basta andare oltre la frase “io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri”. E leggere quando alla fine scrive: “E voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri”. Nel settembre di quell’anno il Movimento fece una grande riunione a Venezia. Pasolini venne, non calcolando che gli studenti in quel momento certo non lo amavano. Era venuto spinto dalla sua curiosità di intellettuale, fu accolto a sputi. E io pure presi gli sputi, perché cercai di proteggerlo verso l’uscita. Era mortificato, ammutolito.

Lei è stato arrestato tre volte e una volta è stato

pure latitante, con un mandato di cattura internazionale. Non ha mai detto chi l’ha protetta.

E non lo dirò mai. C’è stata attorno a me una solidarietà incredibile. Un giorno incontrai, nella casa dove passavo, una donna delle pulizie che mi riconobbe. La cosa grave era che lei era sposata con un tipografo del Corriere, potevano fare uno scoop rivelando dove mi trovavo. Le parlai, lei giurò che dalla sua bocca non sarebbe mai uscita una parola. E così fu. Molto dopo, andai io a costituirmi.

Negli anni più recenti, il movimentismo in Italia

non ha avuto grandi fortune.

È il maggior elemento di fragilità. Il Movimento studentesco dimostra che non basta che i movimenti siano molto partecipati, se non hanno durata. Noi abbiamo strappato dei risultati, compreso lo Statuto dei lavoratori oggi tanto bistrattato, proprio perché avevamo la capacità di durare e quindi incidere.

In quegli anni il Pci era il più importante partito comunista dell’Occidente, che pur non stando al governo era in grado di condizionare le scelte.

E noi lo incalzavamo da sinistra perché lo riconoscevamo come interlocutore, seppur con posizioni diverse. I gruppi che noi chiamavamo “ultrasinistri” – Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia – consideravano il Pci un nemico come la Dc. Noi, con tutti i distinguo del caso, dicevamo: dobbiamo rapportarci al Pci da movimento di massa a movimento di massa.

Adesso i movimenti teoricamente dovrebbero

guardare al Pd. Lei cosa pensa dei No tav?

Che ribellarsi è giusto. Soprattutto quando si è di fronte a una scelta dissennata, che sventra un paesaggio meraviglioso, inquina e non serve a nulla. Poi si può discutere delle forme di lotta, ma loro hanno ragione a non volere il Tav.

Nonostante gli anni formidabili, c’è qualcosa che pensa di aver sbagliato?

Molte cose: se mi guardo indietro però non trovo errori decisivi. Sicuramente oggi farei di tutto per non cadere in certe semplificazioni: l’eroica lotta del popolo vietnamita indica l’avanzata del socialismo nel mondo. Non è andata proprio così. Con Berlinguer che rapporti avevate?

Ho ancora un piccolo carteggio, di quando lui era segretario del grande Pci e io della piccola Dp. C’incontravamo soprattutto al Parlamento europeo, lontano dai pettegolezzi italici. Lui si lagnava delle nostre critiche, io di come loro reagivano alla nostra presenza alle manifestazioni. Una volta pranzammo insieme alla mensa, guardati malissimo dagli altri eurodeputati: ero considerato un pericoloso agitatore. Andai da lui a Padova, dopo il malore, per salutarlo, ma non era più in grado di riconoscermi.

Craxi?

Lo conobbi quando era segretario provinciale del Psi, mentre esplodeva il ‘68. C’è una sua foto ai funerali di Roberto Franceschi, lo studente ucciso dalla polizia nel ‘73. Anni dopo feci un viaggio in aereo con lui, da Milano a Roma: andava a ricevere da Pertini il mandato per formare il governo. Mi allarmò molto una sua frase: “Mario, con il governo in mano, cambierò questo Paese”. Non “quando sarò Presidente del Consiglio”, ma “con il governo in mano”.

Lei ha scritto un libro intervista ad Arafat: che uomo era?

Lo conobbi giovanissimo nel settembre del 1970, il settembre nero. Andai ad Amman, in Giordania, inviato al congresso degli studenti palestinesi. Vidi dal vivo cos’era la guerra, un’esperienza sconcertante. Il primo grande massacro di rifugiati palestinesi. L’ultimo giorno arrivò Arafat, armato fino ai denti, accolto da una grande ovazione: dopo aver posato il kalashnikov sul tavolo, fece un discorso bellissimo. Poi l’ho incontrato tante volte, ho volato con lui sul suo aereo. Era un uomo molto razionale, difficilmente perdeva la calma. Quando si arrabbiava, di fronte a palesi errori o palesi ingiustizie, incuteva timore. Accelerava la parola, sia che parlasse in inglese sia che parlasse in arabo. Andai da lui dopo il massacro di Sabra e Shatila: un eccidio terribile, lo trovai in preda a un’ira incontenibile.

La sinistra italiana è stata a lungo filo palestinese, oggi sono prevalentemente tutti amici di Israele. Che è successo?

È come quando Lama disse “meno salario per più occupazione”, e avemmo meno salario e più disoccupazione. La sinistra ha smesso di essere sinistra quando non ha più avuto un’idea di futuro progettuale, costruttiva. C’è stato un arretramento, fino all’adesione alle politiche neoliberiste che vediamo oggi al governo.

Lei vota?

No, da anni. Le varianti di sinistra – Rifondazione, comunisti italiani, Sel – sono troppo retro-volte. A parte la litigiosità, risultano dogmatici e non credibili, pur riconoscendo l’onestà. La sinistra non ha più riferimenti sociali.

Una contestazione che le muovono è: la sinistra è a pezzi, troppo comodo fare il miele e l’olio nel buen ritiro umbro.

Ho già dato, e continuo a combattere. Mi occupo da anni di biotecnologie con la Fondazione diritti genetici, attività per cui giro moltissimo nelle scuole, nelle università e non solo. Ho scoperto che non è affatto vero che i ragazzi sono apatici e senza interessi: quando poni loro questioni vere – le biotecnologie, per esempio, ignorate da media e istituzioni formative – si appassionano. Non vola una mosca per due ore. E poi lavorare la terra mi piace, penso che si debba diffidare di un politico che non abbia mai tenuto in mano una vanga.

La questione più attuale: ha fatto ricorso contro la decurtazione del vitalizio della regione Lombardia, 200 euro, lordi.

Insieme ad altri 53 ex consiglieri. Non è questione di cifra. Non si devono intaccare i diritti acquisiti. Mai: è una violazione della Costituzione. Altrimenti ci sarà la valanga, contro milioni di pensionati e lavoratori. Ho rinunciato al vitalizio di Strasburgo, prendo 5mila euro netti al mese che arrivano da Regione Lombardia e Parlamento italiano. È la mia pensione.

Bè, non sono pochi.

Non sono pochi, lo so benissimo, rispetto alle pensioni minime. Il problema è alzare il reddito di quelli che prendono 1000 euro al mese, e anche meno. Lotto per questo da una vita.