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 2015  gennaio 18 Domenica calendario

SERGIO, IL LUNGO EQUIVOCO DALL’ARTICOLO 18 ALL’ARTICOLO 18

I numeri sono 13 e 18. E oltre a quelli ci sono il coraggio, la politica, le vite non vissute. Tredici sono gli anni passati da quando Sergio Cofferati lasciò la guida della Cgil, solo pochi mesi dopo l’adunata oceanica di Roma contro il tentativo della destra di governo di cancellare il 18, nel senso dell’articolo dello Statuto dei lavoratori. In quei mesi il sindacalista moderatissimo detto “il cinese” era il futuribile re dell’Ulivo in cerca di un leader da contrapporre al Silvio Berlusconi che l’aveva spazzato via nel 2001: i movimenti lo adoravano, la sinistra diffondeva sondaggi sul suo gradimento presso l’elettorato, il partito (che allora erano i Ds) era costretto a tollerarlo.
Quella del capo politico, poi, fu una porta che il nostro non ebbe il coraggio di imboccare: i riti inflessibili della cooptazione in cui era cresciuto nella Cgil e nel Pci lo consigliarono di mettersi tranquillo a Bologna, sindaco della città rossa. Ora, 13 anni dopo, l’articolo 18 non c’è più, cancellato dalla soi-disant sinistra, e da ieri non c’è più nemmeno Sergio Cofferati, che lascia il Pd – di cui fu uno dei 45 fondatori - dopo lo spettacolo penoso delle primarie per scegliere il candidato governatore della Liguria. Coincidenze, per carità, eppure i meccanismi teatrali hanno i loro diritti in un racconto e persino in una biografia.
quasi un a Sesto ed Uniti, comune del cremonese. Milano a dieci anni, a 21 in Pirelli, diplomato perito industriale, cronometro in mano a prendere i tempi ai lavoratori per massimizzare la produttività. Breve passaggio nel Movimento Studentesco: Squadra 5, zona Stazione Centrale, organizzazione dibattiti e attacchinaggio. Il resto è tutto sindacato. E parecchio riformista: i chimici della Filcea, sempre appannaggio della destra Cgil. Lui la mise così in una vecchia intervista a Vittorio Zincone per Sette: “Il mito della tuta blu tra i contestatori aveva tratti che a posteriori appaiono piuttosto buffi. Intellettuali e studenti pensavano che gli operai fossero rivoluzionari, mentre a Milano gli operai organizzati sono sempre stati riformisti”. Gli si conoscono un soprannome - “il cinese”, appunto, affibbiatogli dal giornalista Alberto Statera “per gli occhi e la moderazione” (dice lui) - e un nomignolo: “Gengis Khan”, frutto della lingua velenosa di Massimo D’Alema, quando lo vedeva come un pericoloso concorrente alla guida del partito.
Erano gli anni di gloria di Cofferati. Dopo una carriera disciplinata nella Cgil, ne era diventato il segretario generale. La sua fortuna, come quella di molti altri, fu Berlusconi: quando mancavano pochi mesi alla scadenza del suo mandato a Corso d’Italia, il governo del fu Cavaliere tentò di modificare l’articolo 18, il sindacato “rosso” si oppose. Da solo. Ne seguì un’oceanica manifestazione, grandiose foto del “cinese” che arringa il popolo al Circo Massimo mentre il vento gli scompiglia scenograficamente i capelli. In poche ore Cofferati diventa come una star del cinema: i cacicchi del centrosinistra fanno la fila per farsi la foto accanto a lui. Quando a settembre 2002 lascia l’ufficio di Giuseppe Di Vittorio un pezzo di paese vuole farne l’anti-Caimano: lui flirta con l’idea, ma in pochi mesi la lunga marcia è già diventata una tranquilla passeggiata, scortata dai cacicchi di cui sopra, fino alla candidatura a sindaco di Bologna del 2004. Toccò a Peppino Caldarola - politico di scuola, e lingua dalemiana - chiuderne la parabola con una battuta: “Il biennio rossiccio di Cofferati”.
A Bologna, la sinistra-sinistra che l’aveva acclamato due anni prima scoprì chi è davvero Cofferati: un rotondo moderato con decise puntate nel conservatorismo. Sgomberi di occupazioni (tanto politiche che di immigrati), guerra alla movida e alle “autoriduzioni” ricordo dell’autonomia, una pruderie da Nonna Speranza sui temi del sesso, una battaglia ideologica attorno alla legalità come valore culminata in un ordine del giorno da votare in Giunta che spaccò la sua stessa maggioranza. Quanto al resto, un’impossibilità antropologica di essere il sindaco-padre a cui i bolognesi sono abituati da Dozza in poi, un corpo estraneo per i cittadini, un ospite maltollerato dai tradizionali poteri della città (rossi, bianchi o col grembiule che fossero), incapaci di rinunciare a quella forma di consociativismo che da decenni è l’essenza stessa del “modello emiliano”.
Curiosamente il sindaco Cofferati - coi suoi quattro pretoriani a fargli da “giglio magico” - fu assai simile al Renzi one man show che oggi sembra non tollerare. Quando tutta la Bologna gruppettara – ivi compresi gli invecchiati di tutti i 68 e, ovviamente, i 77 - lo attaccava insieme alla locale Curia perché decideva tutto nel chiuso dei suoi uffici senza parlare con nessuno, lui tranquillamente metteva a verbale questo: “Una volta concordato un programma e trovato un punto d’equilibrio chi ha responsabilità di governo deve andare avanti”. Non pare il giovin signore fiorentino?
Bologna era l’ultimo acuto. Certo in questi anni Cofferati s’è innamorato, trasferito a Genova per stare con la nuova moglie e il figlio che lei gli ha dato, ha coltivato le passioni di sempre: i fumetti (“Tex” su tutti), la musica lirica e la fantascienza a partire dall’amato Philip K. Dick. La vita politica, però, era un inverno tranquillo al caldo del Parlamento europeo. Questo almeno fino all’alzata di capo di ieri, che probabilmente lo terrà nel flusso di notizie abbastanza da ingenerare nuovi equivoci. Fonda un partito? Rifonda la sinistra? Sfida Renzi? Domande che echeggeranno per qualche giorno e dopo, tornato il silenzio, si potrà tornare a usare per lui una vecchia battuta pensata per Achille Occhetto: “Lei non sa chi sarei stato io”.