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 2015  gennaio 18 Domenica calendario

DALLA SIRIA ALL’IRAQ, OLTRE TREMILA I NOSTRI COOPERANTI

In subbuglio il mondo del volontariato che in Italia è fortissimo, diffuso, numeroso. La vicenda delle cooperanti Greta e Vanessa, rapite e liberate forse dopo il pagamento di un riscatto, crea un problema anche a chi da decenni opera in territori a rischio. Una galassia che comprende organismi internazionali come le agenzie alimentari dell’Onu con base a Roma (Fao e Pam), l’Alto Commissariato per i rifugiati, dove gli italiani sono tanti, e molte Ong di matrice laica o cristiana. Missionari e missionarie, reti di ispirazione cattolica (dalla Caritas alla Vis salesiana), passando per le associazioni come Emergency e innumerevoli Onlus.
I NUMERI
L’Istat, la rete dei Centri di servizio per il volontariato e la Fondazione volontariato hanno contato nel 2014, in Italia, 6 milioni 630 mila volontari (1 italiano su 8). Oltre 4 milioni operano gratis. Ma i cooperanti ufficialmente impegnati negli aiuti umanitari all’estero sarebbero «solo» 3mila, e 200 le organizzazioni non governative certificate dal ministero degli Esteri. Poi ci sono tutti gli altri, gli informali. Gli “assicurati” nel 2013 erano 5816. Per tutti si pone il problema di coniugare sicurezza e assistenza. «In tutte le zone di conflitto – spiega Francesco Rocca, vicepresidente della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa internazionale – abbiamo una persona che si occupa solo di sicurezza, monitorando il territorio. Se abbiamo segnali di scontri blocchiamo le attività, invitiamo il personale a non uscire. Fondamentale è che i nostri uomini siano percepiti come neutrali. Questo attenua molto il rischio». Al contrario di Greta e Vanessa, che «appartenevano a un’associazione caratterizzata politicamente».
I RISCHI
Un margine di rischio c’è sempre. «Ma se è troppo alto, gli operatori escono il minimo indispensabile, seguendo percorsi definiti e dialogando costantemente con tutte le autorità combattenti». Combacia l’analisi di Karl Schembri, portavoce di Save the children in Medio Oriente, base in Giordania. «In Siria c’è uno sviluppo continuo, le zone cambiano di mano ogni giorno, è troppo pericoloso, non solo per i rapimenti. Troppi gli attori, le alleanze sono variabili. Si scambiano ostaggi per denaro». Che fare per garantire la sicurezza? «Primo, bisogna lavorare in trasparenza, informare la popolazione locale e farsi accettare prima di qualsiasi distribuzione di servizi umanitari. L’imparzialità e la neutralità sono essenziali».
IL DIALOGO
Secondo, bisogna dialogare coi leader. «Ogni comunità ha i suoi capi: leader religiosi, sociali, sceicchi… La prima regola è ‘do not hurt’. Non fargli del male. Non vogliamo rivoluzionare tutto, ma dare aiuti umanitari a chi ha bisogno. Guardiamo solo ai civili vittime della guerra». Le associazioni che nascono in loco «spuntano come funghi, hanno una percezione del rischio diversa dalla nostra. Loro sono i veri eroi. I nostri protocolli di sicurezza sono rigorosi, loro ci danno il sapere sul terreno». Ma a chi è inesperto, se non sprovveduto, Schembri dà un solo consiglio: «Non andate, ci sono tanti modi di aiutare. Nei Paesi attorno alla Siria ci sono più di tre milioni di rifugiati siriani da aiutare e non ci sono problemi di sicurezza. Non mettetevi in una situazione difficile, ponendo anche problemi ai civili di quelle comunità, perché essere rapiti trasforma certe zone in obiettivi militari, diffonde cattiva stampa”. E si finisce col fare del male invece che bene.
M. Ven.