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 2015  gennaio 18 Domenica calendario

I FIGLI, MAESTRI DI UGUAGLIANZA

Da quando ha chiuso la carriera, nel 2008, Lilian Thuram si è abbastanza allontanato dal calcio — abbastanza, intendo, da confrontarsi col mondo vero fuori dal ventre di balena dello sport professionistico. Nonostante il ricordo principesco lasciato nelle società in cui ha militato (Monaco, Parma, Juventus, Barcellona), non fa né l’allenatore né il direttore sportivo, e ha ordinato le proprie priorità secondo un criterio che col calcio ha in comune soltanto la passione.
Al primo posto ha messo la lotta contro il razzismo, declinata in molti modi diversi: dalla creazione di una Fondazione al ruolo di ambasciatore dell’Unicef, dall’azione diretta nelle scuole alla pubblicazione di libri — l’ultimo dei quali, in Italia intitolato Per l’uguaglianza (Add editore), è un vero e proprio manifesto per la decostruzione del razzismo.
È anche una sorpresa, questo libro, per qualità e solidità intellettuale, poiché a una prima parte di reminiscenze autobiografiche e confronti individuali (in cui spicca un tackle poderoso su Sarkozy, per via di un suo scellerato discorso pronunciato all’università Cheikh Anta Diop di Dakar), affianca una nutrita sezione di contributi esterni: neuropsichiatri, paleontologi, storici, filosofi, sociologi, politologi, ricercatori, artisti, fotografi, economisti, psicoanalisti, giuristi, linguisti, e un solo sportivo (Arsène Wenger), tutti convocati da Thuram a demolire ogni minimo pretesto con cui possa essere nutrita qualsiasi convinzione di supremazia razziale. Un’opera esemplare, viene da dire, ma apparentemente rivolta ai lettori forti, non a quelli che leggono i libri degli ex calciatori.
Thuram, ora le dico una cosa che è stata tante volte detta a me: non è che il suo libro «è un po’ troppo intellettuale»? Non è che si rivolge a una cerchia un po’ troppo ristretta, considerata la sua popolarità?
«Gli intellettuali sono difficili da ascoltare, sì, ma non poi troppo. Io cerco di parlare la lingua del cuore. Questi studiosi li ho conosciuti negli anni, li ho letti, hanno toccato il mio cuore. Io cerco di mettermi tra loro e la gente: sono consapevole che per me è più facile che per loro ricevere attenzione. La mia immagine introduce me e io introduco loro. Sicuramente io non li avrei mai letti se qualcuno non li avesse introdotti a me — se non li avessi trovati sulla mia strada. Ecco, io cerco semplicemente di mettere certi autori sulla strada delle persone. Poi, starà a loro decidere se ascoltarle o no. Bisogna mettere tanti giocattoli nella stanza, perché ci sia la possibilità di giocarci».
Qual è il primo principio, nella lotta al razzismo?
«La prima cosa è l’amore, sempre. Io credo che ognuno di noi cerchi protezione. I genitori, la religione, proteggono le persone. La cosa più importante da dare a un bambino è l’amore. Se al posto di quello c’è un vuoto, cominciano i guai».
I genitori. Magari ti danno l’amore, ma a volte ti trasmettono anche i germi del razzismo e dell’intolleranza.
«Infatti io credo che sia necessario educare tutti, bambini e adulti. Molto spesso noi facciamo ciò che i genitori ci hanno insegnato, ma a volte funziona anche al contrario, e sono i figli a insegnare ai genitori. I figli che, interrogandosi su ciò che viene loro detto di fare, sviluppano libertà di pensiero».
Questo però genera conflitti. Quante ne conosciamo, di storie drammatiche per via di questo conflitto interno alle famiglie?
«Il cambiamento richiede sempre uno sforzo, e genera sempre conflitti. Ma non è che fuori dalla famiglia questi conflitti non esistano. Esistono dovunque, dunque trovarseli in casa può essere addirittura formativo, dato che anche i conflitti contribuiscono a formare gli individui. Il problema è che facciamo una gran fatica a capire che la cosa più vitale e naturale del mondo è il cambiamento. Quelli che si sforzano di tenere in vita le cose così come le hanno conosciute non si rendono conto che una cosa che non cambia è una cosa morta».
L’altro soggetto che ha menzionato riguardo al dare protezione è la religione. Qui, ancor più che in seno alla famiglia, si rischia di trovarsi di fronte a conflitti molto aspri, quando parliamo di cambiamento.
«La religione è un condizionamento cruciale, molto importante. Di solito si appartiene a una religione per tradizione di famiglia o di comunità, e già cambiare credo religioso genera conflitti. Ma siamo sempre lì, se sei stato cresciuto con amore non avrai paura a fare domande, e a pensare liberamente. Naturalmente, ci vuole tempo. La storia della religione è molto più lunga della storia dell’uguaglianza. Il concetto in base al quale gli uomini hanno cominciato a considerare l’uguaglianza come un valore è recente. Stiamo parlando di una cosa nuova».
Ormai sappiamo che il razzismo non ha il minimo fondamento scientifico, che è frutto del pregiudizio. Ma si tratta di un pregiudizio molto forte, molto radicato. Lei è sicuro che questo pregiudizio non sia un’attitudine innata, che sia esclusivamente, come ripeti spesso, un’acquisizione culturale? In altre parole, è sicuro che gli uomini non «nascano» razzisti?
«Sì. Basta guardare i bambini che giocano insieme. I bambini non fanno caso al colore della pelle, e men che meno alla religione dell’altro. È crescendo che cominciano a farci caso, dopo essere entrati in contatto col pregiudizio. Ha a che fare con l’affermazione culturale di sé: nel momento in cui qualcuno mi dice che sono nero, sta affermando la sua identità di bianco. Quando vivevo in Guadalupa, da bambino, io non ero nero, perché nessuno mi considerava tale. D’altra parte, sostenere che il razzismo è una faccenda di sangue è molto pericoloso, oltre che scientificamente sbagliato. Dire che qualsiasi cosa è una faccenda di sangue è molto pericoloso, perché implica il concetto di “purezza” del sangue. Il sangue non trasmette pensiero né privilegi né condanne».
Già, ma la cittadinanza in molti Paesi viene ancora decisa dal sangue. In Francia vige lo «ius soli», ma per esempio in Italia vige ancora lo «ius sanguinis».
«Ed è, lo ripeto, un concetto sbagliato e pericoloso. I bambini che sono nati e cresciuti in Italia sono italiani. Che altro sono, altrimenti? Se non si riconosce questo, se si fanno distinzioni tra bambini che frequentano la stessa classe, ecco che si introduce il pregiudizio, e si crea il problema».
A proposito di pregiudizi: lei cita l’assurda ostinazione con cui in Europa si continuano a stampare le carte geografiche utilizzando la proiezione di Mercatore, che riduce la dimensione delle terre a mano a mano che si allontanano dall’Europa. È una cosa di cinquecento anni fa, e ancora non è stata eliminata.
«Appunto. L’immagine che l’Europa continua a dare di sé ai propri cittadini, ai bambini soprattutto, dato che le carte geografiche sono utilizzate soprattutto nelle scuole elementari, è distorta. Per secoli l’Europa ha dominato il mondo e la proiezione di Mercatore era uno strumento di questa dominazione: siamo più potenti e dunque siamo più grandi. Il fatto che questo artificio non sia ancora stato abbandonato la dice lunga su quanto sia forte il retaggio che ostacola l’uguaglianza. L’Europa continua a mentire sulle proprie reali dimensioni per mantenere visibile una supremazia che non ha più. Anche questo genera problemi, a lungo andare».
Nel suo libro a un certo punto dice una cosa abbastanza sorprendente. Dice che avrebbe voluto chiamare Malcolm uno dei suoi due figli, e che ha lasciato perdere davanti alle reazioni dei suoi familiari, preoccupati dalle risonanze violente portate con sé da quel nome. Perché non era preoccupato da quelle risonanze?
«Perché Malcolm X per me è una persona interessante. È nato in un periodo storico molto violento. È andato in galera, è uscito di galera, ha aderito alla Nation of Islam, l’ha lasciata, e alla fine della sua vita ha capito il vero valore dell’uguaglianza».
È stato ammazzato, per questo.
«Sì, ma non era un violento. Era svantaggiato, è passato attraverso la violenza, ma alla fine ha percorso la strada giusta. La violenza va superata, come ha fatto lui. Non è possibile eliminarla».
L’Islam. Oggi ancor più che ai tempi di Malcolm X, in tutto il mondo e non più solo in America, l’Islam viene brandito come un’arma e usato per generare violenza. Non da tutti, certo, ma da un numero di persone sufficiente a creare un problema per tutti. Di chi sono le responsabilità?
«Sa una cosa? L’importante è sempre la discussione. Quando accade qualcosa bisogna capire il perché. Io credo che ognuno di noi su questo abbia la propria colpa. Nella società ci sono sempre delle persone molto fragili: se non sono state sufficientemente amate, protette, rispettate quando erano piccole, e poi s’imbattono in qualcuno che le manipola, diventano pericolose. Bisogna che le persone si sentano accolte dalla comunità, e accudite, tutte. Bisogna che non vengano stigmatizzate».
Facciamo così. Lei viene rimandato indietro nel tempo di due settimane e a Parigi, in un bar, si trova davanti un uomo nero come lei, alto e atletico come lei, più giovane di lei di dieci anni, di nome Amedy Coulibaly. Che cosa gli dice?
«Ah, non lo so. Forse gli direi quello che dico a tutti, perché la cosa da dire alle persone in fondo è sempre la stessa — la cosa che tutte le persone dovrebbero sentirsi dire almeno una volta nella vita».
E cioè?
«E cioè: “Guardate, ragazzi, dovete essere capaci di porre domande alla vostra religione. Non è la vostra religione che decide per voi, siete voi a decidere”. Questo. La libertà di pensare. È la cosa più importante».