Federica Colonna, La Lettura - Corriere della Sera 18/1/2015, 18 gennaio 2015
CACCIATORI DI TROLL, I NUOVI SCERIFFI
Mamme, esperti della Rete e giornalisti. Ecco chi sono i troll hunters — i cacciatori dei troll, di chi in Rete disturba le conversazioni postando messaggi provocatori o insultando altri utenti in forma anonima. Abili eroi dell’internet etico, gli hunters sono oggi sotto le luci della ribalta, incarnati in Svezia da Robert Aschberg, conduttore di Trolljägarna , trasmissione in onda su Tv3, alla seconda seguitissima stagione, che narra la caccia a chi aggredisce gli utenti di Facebook e Twitter, mostrando in diretta nazionale le loro facce. «Perché lo facciamo? Per rendere il web un posto migliore», spiega, raggiunto al telefono da «la Lettura», Mathias Wåg, cofondatore, con Martin Fredriksson, di ResearchGruppen , collettivo di cacciatori di troll, reso noto, lo scorso anno, per aver smascherato uomini di potere e politici dell’estrema destra svedese dietro avatar violenti e razzisti attivi online. «Le persone comuni — continua — non sanno chi si cela dietro frasi offensive, razziste, antifemministe. Noi vogliamo mostrare chi c’è». E per farlo i membri del gruppo seguono le tracce lasciate dai troll, le confrontano, le mettono in correlazione e tentano di dare nome e cognome a chi si avvale dell’anonimato per agire con aggressività.
Tutto semplice, quindi? Non proprio. Le competenze del troll hunter sono multiple, specifiche, spesso acquisite dopo anni di esperienza sul campo — il web. «Da circa vent’anni mi occupo di internet — spiega via Skype Matteo Flora, fondatore di The Fool —. Con la mia agenzia ci occupiamo di gestione delle conversazioni online. Individuiamo nelle community, tra i commentatori di un sito, nelle pagine Facebook o su Twitter, determinati tipi di utenti, profiliamo quelli molesti e offensivi e facciamo in modo che non creino troppo scompiglio». E se l’obiettivo, nel caso di The Fool — «Difendere i nostri clienti» — è diverso da quello di Wåg, gli strumenti e le fasi della caccia sono simili. «Le tecniche sono mutuate da quelle di investigazione e intelligence, ovviamente con poteri molto inferiori, per esempio, da quelli delle forze di polizia — racconta Flora —. La prima fase del lavoro consiste nella ricerca di tutto il materiale possibile che il disturbatore può aver scritto in Rete, servendosi anche di identità multiple». Il troll, infatti, si nasconde e magari, su Twitter o nei forum di discussione, ha più nomi, facce, foto profilo. Ma spesso si tradisce, perché, continua Flora, «ognuno di noi ha un pattern linguistico, uno schema, e tende a reiterarlo».
Può trattarsi di una perifrasi particolare, di un insulto preferito, di metafore ricorrenti: tutte peculiarità verbali che funzionano più o meno come le orme di un animale. Si ripetono. E una volta identificate vengono correlate sia con le informazioni recuperate dal cacciatore via Google o tramite piattaforme di analisi della Rete, come Reputation Monitor di The Fool , sia con i risultati delle indagini massive dei dati raccolti sui social network. Dove, però, anche il troll più esperto può commettere degli errori. «Un tweet sfuggito e geolocalizzato — conclude Flora —, un indirizzo email lasciato da qualche parte, per iscriversi a un servizio specifico o il fatto di cadere in trappola».
Sì, perché il cacciatore digitale si comporta come quello più classico: fa appostamenti e tende tranelli. Il più comune? L’apertura di un blog, dove attirare chi offende e minaccia, per esempio, su Facebook, e spingerlo a commentare. Così si cattura l’indirizzo IP della preda: una traccia fondamentale, chiara, per reperire Paese, città, indirizzo.
Se, insomma, il troll hunter professionale è una figura a metà tra il giornalista investigativo, l’analista e l’esperto web, anche un genitore accanito può dare filo da torcere agli aggressori digitali seriali. È il caso di Kaitlin Jackson: 45 anni, 5 figli e 8 ore al giorno spese online, per accalappiare bulli e bulletti vari dal computer della sua casa di Aberystwyth, Galles. Kaitlin, diventata, però, presto oggetto di scherno online, confessa al «Mirror» di aver iniziato dopo un aborto spontaneo. Quando, per trovare conforto, si è iscritta al gruppo Facebook tematico Angel Mums , ha scoperto che c’era chi postava immagini violente relative proprio alle gravidanze interrotte. Da qui la sua missione, condotta con parecchia energia — dichiara di aver passato circa seimila ore sulle tracce dei troll — e armi meno professionali dei colleghi esperti. Kaitlin, infatti, cerca il disturbatore tra i commenti e poi fa reporting, seguendo le normali procedure del social network. Qualche volta, invece, è andata dalla polizia.
Le denunce, però, servono davvero? Sì, secondo Massimo Farina, docente di Diritto dell’informatica a Cagliari, perché le norme offline funzionano anche online. Anche se, spiega, «il trolling non è classificato come reato. È invece un comportamento che a seconda di come si presenta può configurarne tipologie diverse e ricalcare la diffamazione, la minaccia, l’ingiuria». L’ambito di classificazione, però, è molto ampio e può andare, per esempio, dall’istigazione al suicidio fino al puro e semplice scherzo di pessimo gusto. E a volte il troll può essere solo un ragazzino annoiato — è stato così, racconta «Forbes», per Leo Traynor. Dopo aver ricevuto minacce reiterate, Traynor, grazie a un troll hunter , ne ha individuato l’autore. Il figlio diciassettenne di un amico di famiglia. Molti troll, come ha spiegato Erin Buckels in uno studio pubblicato dalla università canadese di Manitoba, lo fanno infatti per ridere.
Una delle domande dell’indagine chiedeva proprio se a spingere all’insulto fosse il lulz — in gergo: il divertimento. Tra le 1.215 persone intervistate un decimo ha ammesso che sì, prova piacere nel trolling . Per Buckels si tratta di sadismo, uno dei tratti peculiari del troll, insieme al narcisismo e alla capacità di essere machiavellici, abili a manipolare. Insomma, i troll sarebbero individui antisociali e aggressivi, simili agli esseri del folklore scandinavo da cui trarrebbero il nome — anche se c’è chi sostiene un’origine diversa, dal verbo inglese to troll relativo a una particolare tecnica di pesca e quindi di adescamento. Qualcuno però è anche capace di pentimento e, come dimostra la storia di Rurik Bradbury, a volte un troll è il miglior cacciatore di troll. Dopo aver gestito l’account Twitter @ProfJeffJarvis, nato per ridicolizzare l’omonimo docente della City University of New York, Bradbury ha cambiato idea. E ha deciso di mettere alla prova le proprie abilità creando Trastev for Publisher , un servizio per mettersi sulle tracce dei disturbatori. Trastev , in sostanza, crea l’impronta digitale di chi si registra, per esempio a un blog. Non solo: misura quella che i ricercatori del College of William and Mary chiamano Mouse Dynamics — il modo, unico e individuale, con cui si muove il mouse sullo schermo del pc. In sostanza Trastev dice chi sei.
Basta? Non sempre. Quella del troll hunting non è una scienza esatta. Il cacciatore deve aver tempo, energia, pazienza. E poi, invece dell’animale impagliato, avrà qualcosa di più. La testa di un troll, da esporre nel proprio salotto digitale: la bacheca Facebook.