Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 18 Domenica calendario

IL DIARIO DI MOHAMEDOU, PRIGIONIERO 760 DA 12 ANNI A GUANTANAMO SENZA NESSUNA ACCUSA

Il prigioniero numero 760 sentiva il canto degli angeli in paradiso e la voce della madre lontana dodicimila chilometri, grazie al truce miracolo delle torture subite a Guantanamo. «Capivo che la mia mente se ne andava — racconta Mohamedou Ould Slahi, il prigioniero 760, nel primo “Diario da Guantanamo” mai uscito e pubblicato — e alla fine confessai tutto quello che non avevo mai fatto». Per non sentire le voci degli angeli e le legnate degli aguzzini.
Se mai la prova della feroce inutilità della tortura fosse stata ancora necessaria, le memorie di Slahi, compilate a mano in un inglese rudimentale e affidate all’avvocato che è riuscito a farle pubblicare da un editore inglese dopo anni di battaglie legali, ne sarebbe la dimostrazione più umiliante. Perché il prigioniero 760 è innocente di tutti i complotti, gli attacchi, le operazioni, i sospetti dei quali lui si è accusato pur di risparmiarsi i tormenti. Nessuna corte marziale, nessun tribunale civile, nessuna indagine, nessuna testimonianza di altri detenuti lo ha mai incriminato. Eppure dal 2002 è prigioniero il quel lager tropicale dal quale neppure in questo 2015 uscirà. Più di dodici anni di detenzione e di torture per non avere fatto altro che essersi trovato in Afghanistan durante i rastrellamenti delle forze americane.
Mohamedou Ould Slahi aveva raggiunto l’Afghanistan dalla Mauritania, dove era nato, per unirsi alla jihad, alla guerra e alla resistenza contro l’Armata Rossa occupante alla fine degli anni ‘80. Dunque il suo nome era nelle liste di quei mujaheddin che, come Osama Bin Laden, la Cia generosamente finanziava e usava nella guerra per procura contro l’Urss prima che il blowback , il ritorno della fiamma accesa contro gli altri si rivoltasse contro gli Usa. Mohamedou racconta di avere lasciato la guerriglia nel 1992, ma nelle liste della Cia figurava ancora come terrorista non più utile al terrore anti-sovietico. Dunque fu prelevato, incarcerato nella enorme base aerea sovietica di Bagram, usata dagli americani, e poi spedito a Cuba, insieme con i quasi 800 uomini rastrellati e rinchiusi a Guantanamo.
«Mi legarono stretto al sedile di un aereo con un sacco sulla testa e capivo di essere in volo dal lamento dei motori. MP... MP... chiedevo ai poliziotti militari che mi avevano legato, non respiro, soffoco, ma nessuno mi dava ascolto, fra tanti altri che si lamentavano. Stai zitto, state zitti, ci gridavano.... e dopo tante ore sballottato da un aereo all’altro, quando misi i piedi a terra il tepore del sole, che poi scoprii essere il sole cubano, fu un sollievo. Già il Profeta dice che ogni viaggio è una tortura e ho scoperto che aveva ragione».
Ha anche un filo di ironia e di humour, quello che forse lo ha salvato dalla pazzia. Ma il sollievo del sole caraibico sarebbe durato poco: «Mentre ero legato, una guardia mi schiacciò la faccia e il naso contro il sedere di un altro detenuto chinato davanti a me e se cercavo di sollevarla per respirare mi bastonava sul collo.... stai fermo lì che ti piace... e botte». «Zitti, non parlate, non parlate fra di voi gridava una voce di donna dagli altoparlanti, in inglese e in arabo».
Da qui, dallo sbigottimento di essere catapultato in poche ore dall’Afghanistan alle stie da polli nelle quali inizialmente i «combattenti nemici», come erano stati chiamati nelle acrobazie legali degli avvocati della Casa Bianca, gli arrestati, si snoda il racconto di un giovanotto colpevole di niente altro che essere mussulmano, avere un nome arabo ed essere stato, paradosso dei paradossi, una rotella nella guerriglia anti-sovietica appoggiata dai suoi carcerieri. Mohamedou fu accusato e sospettato di tutto. Racconta nel suo “Diario”, riassunto dal Guardian che ha letto il libro in uscita martedì prossimo, che gli interroganti cercavano di attribuirgli attentati contro la CN Tower di Toronto, l’altissimo “ago” di cemento per le telecomunicazioni che segna la skyline della città canadese. E poi un altro, contro “Lax”, l’aereoporto internazionale di Los Angeles.
Confessò e le autorità annunciarono trionfalmente che le tecniche «addizionali» e «maggiorate » di interrogatorio avevano sventato altri attentati e nuovi 9/11. Ma la verità era un’altra. La verità era che il terrorista reo confesso aveva deciso di «vendere a chi mi interrogava quello che loro volevano comperare», per farli smettere. «Neppure sapevo di che parlassero, non avevo mai visto la Torre della Comunicazioni a Toronto e a mala pena sapevo dove fosse Toronto, ma confessavo tutto », per dormire, per non patire, per non sentire le voci. Quelle voci dal paradiso che erano dei torturatori che parlavano attraverso le tubature dell’acqua nella sua cella, mentre lui era costretto a restare sveglio per giorni, dunque facile preda di allucinazioni. Leggevano versetti del Corano, poi ridevano: «Siamo i geni nella lampada di Aladino», bisbigliavano. Alludevano alla madre, insinuando che se non avesse parlato lei ne avrebbe subito le conseguenze. Lo prendevano a calci, perché il dolore accentuasse la confusione mentale. Lo costringevano a simulare accoppiamenti omosessuali con altri prigionieri. E lui confessava.
Ma quando, dopo anni di battaglie giudiziarie arrivate fino alla Corte Suprema per strappare i prigionieri alla giurisdizione militare e restituirli a quell’ordinaria, tribunali e avvocati ne esaminarono il caso, nulla a suo carico resse. Neppure i giudici militari riuscirono ad appiccicargli una sola incriminazione. Mohamedou si era inventato tutto e la sua scarcerazione sarebbe dovuta essere immediata. Guantanamo, quella piaga infetta che da 13 anni diffonde il pus di un disastro politico e propagandistico eguagliato soltanto dalle immagini di Abu Grahib e dall’abuso di bombardamenti con i droni, è rimasta aperta, per lui e per altri 70 prigionieri che la Casa Bianca vorrebbe scarcerare chiudendo il lager, ma che il Congresso, il parlamento, le contromosse legali, riescono a posporre e a bloccare. Ricordando che qualcuno dei liberati si è prontamente riunito a cellule terroristiche.
Nella calligrafia infantile e ondeggiante come erba nel vento da destra a sinistra, nell’inglese esitante, perché auto-imparato nel lager, nei suoi racconti ancora pesantemente editati con cancellazioni in nero per avere il permesso alla pubblicazione, il prigioniero 760 che da 13 anni sconta una pena per non avere fatto nulla narra dall’interno dell’abisso a che punto il panico, l’arroganza, la stupidità possano portare una grande nazione fondata sulle legge. Oggi, Mohamedu sta bene. I carcerieri lo lasciano dormire. È ingrassato. Aiuta i compagni di prigionia. Si è fatto anche un orticello dietro il blocco dove è detenuto, a Camp Iguana, per coltivarsi un po’ di verdura fresca ed evitare il rancio del detenuto. «Ho incontrato anche tanti americani buoni», scrive.