Sebastiano Messina, la Repubblica 17/1/2015, 17 gennaio 2015
CELEBRE, SUPER PARTES E LONTANO DAI PARTITI LA CACCIA AL NOME D’ORO COMINCIÒ 70 ANNI FA
La caccia all’uomo con due cuori è già cominciata. Tutti cercano il nome magico. Un presidente «al di sopra delle parti», chiede Silvio Berlusconi. Un presidente «che tagli con il passato», reclamano i grillini. Un presidente «fuori dalla politica» invoca il leghista Salvini. E ancora una volta, prima ancora che il Parlamento venga convocato per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano, si riaccende una vecchia contesa. Un politico o un tecnico? Un uomo di partito o un semplice cittadino? Chi è più adatto a sedere sulla poltrona di presidente della Repubblica?
Il dilemma è vecchio quanto la Repubblica. Già alla Costituente la ricerca di una personalità così autorevole da essere super partes (o almeno da apparire tale) portò i partiti a cercare candidati illustri fuori dal Parlamento. Allora, Nenni avrebbe voluto Benedetto Croce come capo provvisorio dello Stato. E mentre De Gasperi sosteneva Vittorio Emanuele Orlando, «il presidente del Consiglio della vittoria», Togliatti aveva detto apertamente che si poteva anche eleggere «un uomo che non abbia concorso alle elezioni». Molti pensarono che avesse in mente Arturo Toscanini, il celebre direttore d’orchestra che era stato il più illustre degli esuli antifascisti. «Ma che Toscanini! Io penso a De Nicola», sbottò a un certo punto il Migliore. E alla fine vinse lui, riuscendo a far eleggere (e al primo scrutinio) il grande giurista di Torre del Greco — ultimo presidente della Camera prima della marcia su Roma — che dopo l’8 settembre aveva saputo mediare con intelligenza tra gli Alleati e i Savoia, inventandosi per Umberto II la figura del Luogotenente.
Due anni dopo, nel 1948, il dilemma si ripropose. De Gasperi allora chiese ai suoi parlamentari di avanzare qualche proposta. «Gaetano De Sanctis! E’ uno storico autorevole, ed è cristiano» rispose subito un deputato. «E’ vero — rispose subito un senatore — ma purtroppo è diventato cieco». «Allora un grande giurista come Vittorio Scialoja!» rilanciò un altro. «Sarebbe un nome perfetto, se non fosse morto quindici anni fa» obiettò De Gasperi. Insomma, il nome cattolico non fu trovato, e la Dc — dopo aver tentato inutilmente di far eleggere il conte Carlo Sforza, repubblicano — dovette accettare quello di un liberale, Luigi Einaudi, già professore di Scienza delle Finanze e governatore della Banca d’Italia, ministro del Bilancio da meno di un anno ma del tutto estraneo ai giochi dei partiti. Che fu così, dopo De Nicola, il secondo Presidente scelto al di fuori dei ranghi dei partiti.
Ma c’era una ragione politica: in un Paese diviso in due fronti dalle elezioni del 18 aprile, la Dc non osava pretendere — oltre alla guida del governo — anche la presidenza della Repubblica, lasciando che quella poltrona andasse a una personalità liberale o repubblicana, insomma vicina a uno dei partiti alleati. Però voleva scegliere il nome, come fece De Gasperi con Einaudi. Sette anni dopo però era cambiato tutto, e quando Pietro Nenni provò a lanciare prima il professor Vincenzo Arangio-Ruiz, presidente dell’Accademia dei Lincei, e poi Umberto Zanotti Bianco, presidente di «Italia Nostra », trovò un’accoglienza gelida a Piazza del Gesù: ormai i socialisti erano all’opposizione, e dovettero accontentarsi di sbarrare la strada all’ambizioso Merzagora. Appoggiando a dispetto della segreteria dc Giovanni Gronchi, presidente democristiano della Camera, che fu così il primo parlamentare — il primo politico di professione , si direbbe oggi — a salire al Quirinale.
I tecnici, gli esterni, quelli che oggi chiamiamo gli esponenti della società civile, sono stati messi in campo spesso, ma quasi mai per vincere: candidati di bandiera, nel gergo parlamentare. Come Adriano Sofri, che nel 2006 raccolse i 23 voti della pattuglia radical-socialista. O come Franca Rame, che in quella stessa occasione ottenne le 24 preferenze dei dipietristi (ma poi votò per Napolitano: «Figurarsi, lo conosco sin da quand’era ragazzo... «). Due anni fa, poi — mentre i franchi tiratori del Pd azzoppavano Marini e Prodi — c’è stato il torneo dei candidati di bandiera. Il popolo grillino aveva votato Gino Strada e Milena Gabanelli, ma poi Grillo aveva schierato il giurista Stefano Rodotà (uno dei nomi più celebri degli “indipendenti di sinistra”) mentre i montiani votavano per il prefetto-ministro Anna Maria Cancellieri, i Fratelli d’Italia per il Capitano Ultimo, Sergio De Caprio e una pattuglia non identificata per il conduttore di “Un giorno da pecora”, Claudio Sabelli Fioretti.
Altre volte i nomi super partes sono serviti solo a comporre le «rose» dalle quali non si voleva che si scegliesse nessun nome. Come fu nel 1964, quando i democristiani — caduta la candidatura di Leone — proposero agli alleati il presidente della Corte Costituzionale, Gaspare Ambrosini, quello della Corte dei Conti, Ferdinando Carbone, il segretario della Nato, Manlio Brosio, il giudice costituzionale Costantino Mortati — uno che la Costituzione l’aveva scritta di suo pugno — e il governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Ma il nome giusto, quello di Giuseppe Saragat, non era nella lista.
Passarono quasi trent’anni, prima che tornassero di moda i non-politici. Era il 1992, era appena stato scoperto il bubbone di Mani Pulite e l’intera categoria dei politici era finita alla gogna. Così sembrava finalmente tornato il momento degli esterni, dei non-politici. Quando si aprirono i giochi per la successione al presidente più amato di sempre, Sandro Pertini, i socialisti proposero un avvocato, Giuliano Vassalli, Rifondazione uno scrittore, Paolo Volponi, i verdi il filosofo della democrazia, Norberto Bobbio. E man mano che si andava avanti nelle votazioni spuntavano altri nomi: il pioniere delle comunità di recupero Vincenzo Muccioli (46 voti), i giuristi Giovanni Conso (253) ed Ettore Gallo (51), perfino il procuratore Paolo Borsellino — che di lì a qualche settimana sarebbe stato assassinato dalla mafia — raccolse 47 voti. Nomi che furono accantonati di colpo, quando il boato della strage di Capaci costrinse i partiti a scegliere in poche ore tra i due presidenti delle Camere — super partes per la loro carica, più che per la loro storia — il democristiano Oscar Luigi Scalfaro e il repubblicano Giovanni Spadolini.
E alla fine fu Scalfaro a salire al Colle. Era il quinto presidente di una delle due Camere a diventare capo dello Stato. Se ne può ricavare una regola? Se ne può dedurre, come qualcuno ha sostenuto, che se nel 2006 Prodi avesse appoggiato lui invece di Fausto Bertinotti per la presidenza di Montecitorio, Massimo D’Alema avrebbe salito un gradino forse decisivo nella corsa per la successione a Carlo Azeglio Ciampi? Oppure ha ragione lo stesso D’Alema, che ha definito questa teoria «un’elucubrazione del cavolo»?
La storia delle elezioni per il Quirinale ci dice che non esiste un penultimo gradino, una carica speciale che garantisca la precedenza su tutti gli altri aspiranti. Perché se è vero che cinque ce l’hanno fatta, non bisogna dimenticare che altri quattro candidati eccellenti sono usciti battuti, anche se partivano dalla presidenza della Camera o da quella del Senato. Nel 1948 Cesare Merzagora si era fatto convincere da De Gasperi ad accettare la presidenza del Senato come trampolino di lancio per il Quirinale. «Tu sei la nostra riserva per il dopo-Einaudi» gli aveva detto. Ma quando venne il momento, ci pensarono i franchi tiratori a mandare in fumo i sogni del presidente del Senato. «Mi feci giocare come un bambino a moscacieca» confessò poi, ripensando a quei giorni.
La stessa sorte toccò ad Amintore Fanfani: per cinque volte eletto presidente di Palazzo Madama, per due volte bloccato sulla via del Quirinale quando si sentiva a un passo dalla vittoria. «Devi essere tu il prossimo Presidente, mi dissero allora gli amici democristiani offrendomi la candidatura — raccontò lui stesso, molti anni dopo, al senatore diessino Giangiacomo Migone — e io, bischero, ci credetti». Dopo di lui, inseguendo il sogno di ripetere il grande salto riuscito a Francesco Cossiga, ci hanno provato anche Giovanni Spadolini e Nicola Mancino. Il primo arrivò a un passo dall’elezione, ma dovette cedere il passo a Scalfaro, presidente dell’altra Camera. E il secondo era uno dei papabili più quotati, sette anni dopo. Con il diessino D’Alema a Palazzo Chigi, molti pensavano che il Colle sarebbe toccato a lui, l’ex democristiano seduto sul penultimo gradino, a Palazzo Madama. E invece l’accordo fu trovato su un uomo non era né democristiano né parlamentare: Carlo Azeglio Ciampi.
Sebastiano Messina, la Repubblica 17/1/2015