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 2015  gennaio 18 Domenica calendario

ENRICO RUGGERI

Quello che Ruggeri non dice è davvero poca cosa. Il punto è che dice tutto e anche di più, così come fa tutto e anche di più e tra i colleghi coetanei è nettamente il più attivo. Vedi anche il libro sbarcato in autunno su scaffali e simili ( La Brutta Estate, Mondadori) teoricamente il suo terzo romanzo, nella pratica il suo primo tentativo di noir alla milanese compiuto, un’estate pietrificata di caldo, le crisi di tutto, il protagonista — giornalista sportivo un po’ corrivo — che si ritrova a sbrigare insieme la fine di un matrimonio e l’omicidio efferatissimo dell’anziana zia, unica parente in vita. «Lungi dai confronti, ma se ami Simenon e la sua gente comune a cui accadono fatti eccezionali, alla fine ti viene da scrivere una cosa così. Altri motivi? Esistono, altrimenti non si capirebbe perché non c’è quasi più un cantautore su piazza che non abbia scritto romanzi: la canzone ormai è stretta come modo espressivo».
Ha passato un’estate a mietere concerti e a inventarsi l’idea balzana ma funzionante assai di trascinarsi sul palco per parecchie date Ale&Franz. Loro due, sì, quelli della panchina e dei noir. E suonavano pure, così come Ruggeri tentava con risultati un po’ così di fare il comico sul palco. Titolo dello spettacolo: Ci sono un inglese, un tedesco e un italiano , come da barzelletta che Ruggeri tenta di raccontare per tutto il concerto senza riuscirci. Ma come funziona un incrocio simile? Esempio: una celebre cosa di Enrico è Il portiere di notte ( peraltro pezzo di estrema arditezza, con onanismi dichiarati e se gli si fa spiegare cosa ci vede dentro tira fuori cose leggermente blasfeme). Ale e Franz, a quel punto, entrando nella veste dei due killer in bianco e nero recitano: «Com’è andata la rapina all’albergo?». «Male, sono entrato stanotte pistola alla mano, il portiere ha reagito, io gli ho sparato e l’ho mancato».
«Ma come, dai… Eri solo davanti al portiere».
Per esempio. Ma quando Ale e Franz hanno deciso di farsi le vacanze Ruggeri ha proseguito da solo in tour, cantando anche le cose nuove, quelle per esempio in cui non chiede tanto, ma basterebbe un paese normale , quello impossibile, quello che si ripresenta — dice — innamorato di un leader, pronto a farlo vincere ma pronto a farlo fuori se si mettesse in testa di stravincere — servono gli esempi del passato? O il paese che si sente orfano di colpo se perde certi riferimenti, come Pino Daniele: giorni fa Ruggeri era ad Acerra in concerto e lo ha ricordato con onesto rimpianto («Certe cene in cui scopri una persona spiritosissima e poi si finisce a dire: vediamoci, facciamo una cosa insieme, sentiamoci, e poi non succede, e poi è tardi»). Il rimpianto come cifra, per non dire, fardello imperituro per il nostro, quel non so che di irrisolto, questioni di consenso e immagine che ti porti appresso: puoi aver scritto una sequenza di canzoni irripetibili, averle cantate e fatte cantare ai migliori ma se sei neghittoso la paghi sempre e soprattutto ti convinci di averla pagata sempre. Puoi fregartene — lo fanno a milioni — lui non ci riesce.
La famosa intellighenzia che gli darebbe contro storce il naso per certe cose tv di largo consumo, all’insegna di misteri, visioni, apparizioni e sparizioni: «Bene, ma ai più temo che siano sfuggiti i programmi-chicca fatti sulla storia del rock, da History Channel ai canali digitali della Rai. Sono sfuggiti perché l’ascolto era dello 0,6 per cento, insieme alla mia passione al massimo e al guadagno a zero. Italia Uno invece paga: i dischi che sono venuti dopo li ha pagati la televisione ». E precisa: «Devo giustificarmi? Mah. Mi interessa il pubblico, l’extracomunitario che mi ferma per strada e mi ha visto lì: per lui, ma anche per il resto della gente sei sempre e soprattutto l’ultima cosa che hai fatto. Cosa faccio, mi metto a spiegare Polvere e il punk all’indiano di viale Padova?».
A ben guardare, la sua miscela di riferimenti culturali pop e non pop è da perdere la testa. Ruggeri twitta in favore dei palestinesi nonché della libertà di cura per le staminali, ha collaborazioni e amicizie di quelle sinistrissime, passioni sfrenate per Woody Allen e Tom Waits e una storia per cui bisogna affondare a quei tempi là, il liceo Berchet di Milano («Gad Lerner era il più pacato di tutti») e lui era diciamo di quelli che non capivano l’ostracismo a D’Annunzio non tanto per D’Annunzio quanto per l’ostracismo e da lì a un passo c’è Pasolini come riferimento («Era un uomo libero»). Se è complicato mettere ordine nelle cose di oggi figuriamoci in quelle di allora: «Rischiai le botte, botte vere, perché giravo in Statale con un vinile di David Bowie sotto il braccio. Bowie, capisce? E allora mi veniva naturale provocare di più, mettermi a giocare pericolosamente con gli Sparks, quelli col cantante coi baffetti un po’ così (appena rivisti sul palco in un blitz-memorabilia a Londra): lei pensa che in giro ti lasciassero il tempo di spiegare e ricordare le ironie di Chaplin sul nazismo, la caricatura di stili e poteri o qualcosa di simile, peraltro tutto coltivato a piene mani da artisti ebrei che erano miei idoli assoluti? Figuriamoci, e quindi sono diventato uno dell’altra parte o almeno uno che si doveva inquadrarlo, stavo per dire incastrarlo, politicamente ». Eppure. «Bene, a spanne credo in carriera di aver fatto centocinquanta feste dell’Unità. Poi ho fatto due concerti per An. Mettiamo che io abbia dei fan di destra, non hanno mai protestato per le feste dell’Unità. Sicuramente ho invece dei fan di sinistra, che hanno protestato assai per quei due concerti».
Ma come detto il tentativo sarebbe quello di saltare l’intero discorso e provare a convincere lui per primo che uno che ha dato alle stampe quel pugno di canzoni da gloria e storia potrebbe trovare pace. Chissà. Se uno ha scritto una cosa per cui chiunque, in futuro, andando al mare d’inverno si mette a canticchiare languido, che altro gli serve? «Se è per quello Thomas Mann sul mare in inverno ci ha costruito una carriera» ti fulmina con una battuta di quell’umorismo — niente male — a largo raggio che lo porta all’irriverenza vera, chiunque ci vada di mezzo. «Si chiama cazzoneria. Ne sono portatore sano da sempre, e mi ha sempre un po’ fregato. Ma è anche quella che mi ha consentito l’umiltà necessaria: chi viene a vedermi può notare che io mi muovo guardando quelli delle prime file, guardo in basso, come se suonassi nei club come una volta. Ci sono certi, coetanei, ma soprattutto i giovani, che invece li vedi sul palco ritti con la testa, piegata all’indietro: stanno preparandosi per quando suoneranno a San Siro». Ruggeri, per dire, è una specie di enciclopedia vivente del festival di Sanremo (quest’anno si salta, ritardo di preparazione del nuovo disco) e può commuoversi se parte il filmato di Laura Luca ( Domani, domani). Lo ha vinto due volte, quella di Mistero da solo a mo’ di consacrazione, ma la volta del trio con Morandi e Tozzi è stata l’apoteosi pop: «C’era il testo, c’eravamo noi tre, toccava dividersi le strofe. A me tocca quella che dice: perché la guerra, la carestia, non sono scene viste in tv, eccetera. Io guardo gli altri e dico: ragazzi, è una cazzata troppo grossa, non me la sento». E così? «Morandi mi guarda e dice: la canto io. Perché io invece a questa cosa ci credo. Aveva ovviamente ragione lui. Se lui va in concerto e urla al pubblico “vi amo tutti” lo portano in trionfo, se lo facessi io penserebbero che li sto prendendo per i fondelli».
E appunto la questione diventa capire il ruolo oggi di Ruggeri e del gruppone di allora, solo ricordi o cosa, chissà, a ognuno la sua scelta. E torna quella cosa impossibile ormai da aggiustare, la sua voglia di consensi allargati, il fatto che sì «a me sta qui che Fossati o De Gregori abbiano quell’immagine e quel consenso e io no». Il Fossati, peraltro, che ha scritto tanto per la Mannoia anche lui, o il De Gregori su cui esiste un precedente abbastanza sconosciuto. Sta anche su YouTube: lui, Ruggeri, Mimmo Locasciulli, insieme una sera da Francesco, salta fuori una canzone che va nell’album di Locasciulli. Si chiama Olio sull’acqua: magari era un po’ da rifinire, magari il memorabile sta altrove, ma la firma di tutti e tre su una canzone sola fa comunque un bell’effetto, quasi da cancellare tutti i piccoli rimpianti, rancori e affini e continuare a immaginare storie di quella volta là.