Paolo Rumiz, la Repubblica 18/1/2015, 18 gennaio 2015
IL TERREMOTO DIMENTICATO. ALLE 7.52 DEL 13 GENNAIO 1915 UNA SCOSSA TERRIBILE DEVASTA LA MARSICA
Mimina Tullio, pure lei di Balsorano, ha fatto a tempo a trascrivere cosa le disse nonno Giovanni. «“Faceva freddo quella mattina” e lui era andato con compare Vincenzo a tagliare una quercia per far legna da ardere. “All’improvviso fu un forte boato, come un vento fortissimo, che squarciava e sbatacchiava tutta la valle”. Ma da dove è uscito tutto questo vento, chiese Vincenzo; al che nonno, gettata l’ascia e la sega, gridò: “Vincè, è i’ terramuto! Reggiti forte! Aggrappati all’albero!”». Ambedue abbracciarono il tronco e rimasero fermi “in attesa che il mostro si calmasse”, ma il boato durò un’eternità. Tutta la montagna rimbombava. Quando tornò il silenzio, il primo pensiero fu per il paese. I due corsero col cuore in gola, ma solo per trovare “un cumulo di macerie fumanti da cui provenivano grida e invocazioni”. Giovanni perse due figli, li tirò fuori a mani nude, li stese sulla nuda terra; poi, a distanza di giorni, con l’aiuto dei soldati, estrasse la moglie più morta che viva. Poi fece in tempo a fare altri tre figli con lei.
«A differenza del sisma del 2009 all’Aquila, nel 1915 l’economia del territorio non fu distrutta. Anche se di lì a poche settimane tutti i maschi validi partirono per il fronte, la vita continuò. L’Italia era ancora un Paese agricolo, e la gente aveva un’altra tempra». Ad Avezzano, Sergio Natalia coordina gli eventi del centenario e ci tiene a non ricordare solo un fatto storico del passato, ma anche a riannodare i fili di un’identità spezzata dal terremoto per narrare all’Italia (e forse ai marsicani stessi) l’identità di un popolo fiero e lavoratore.
All’Aquila abita lo storico Raffaele Colapietra, 84 anni, che nel 2009 si rifiutò di abbandonare la sua casa nel centro storico, dove abita tuttora, solo nel deserto della vita urbana. Oggi più di ieri, Colapietra grida che la vera differenza fra i due terremoti sta nel risultato sociale. «Nel 1915 Giolitti ha spinto la gente a restare. Nel 2009, invece, c’era un presidente del consiglio, Berlusconi, che ha incitato la gente a fuggire perché doveva costruire un monumento a se stesso ». Risultato: con trentacinquemila morti, Avezzano è stata ricostruita dov’era, mentre con trecento morti, di cui la metà fuori città, L’Aquila è stata trasportata altrove e il tessuto sociale si è irrimediabilmente rotto. «Non si è mai vista una cosa del genere. Per secoli in Abruzzo la gente è sempre tornata, magari ricostruendo un po’ più in là. È successo anche nel 1349 e nel 1703, che furono catastrofi epocali. Al disastro del 1915, pur fra tanti difetti, si reagì col massimo di compattezza e solidarietà sociale. Il 2009 è invece lo specchio di un’Italia disgregata ». Mostra le vie deserte della sua città e ghigna: «Oggi, tornando dal ristorante, ho incontrato solo due persone per strada. L’unica vita è quella del cantiere». Te ne vai con quel deserto negli occhi e pensi: il vero villaggio fantasma non è Morino, Sperone o Frattura. È l’Aquila.
Ma pur con le dovute differenze, anche dietro al terremoto di Avezzano compare l’Italia dei furbi. Il sisma, si sa, è il più efficiente collaudatore della nostra capacità o incapacità di costruire, e non ci vuole molto a capire che quello del 1915 ad Avezzano ha fatto semplicemente giustizia di un centro cresciuto troppo in fretta (da tremila a dodicimila abitanti in pochi anni) per via dei lavori di bonifica del Fucino voluta dalla famiglia Torlonia. Un’esplosione demografica che si era portata dietro un’urbanizzazione selvaggia, con materiali edili pessimi e l’ampliamento del paese verso terreni sabbiosi più instabili. Il sisma fu forte quasi come a Messina; gli mancò solo l’onda di ritorno del maremoto. Una scossa di sette gradi della scala Richter, spiega il sismologo triestino Livio Sirovich, è più forte della gravità. Può buttarti giù e addirittura staccarti da terra. Con i 6.3 gradi registrati nel terremoto aquilano, invece, si fatica semplicemente a reggersi in piedi. Di dimensioni apocalittiche, dunque, l’evento del 1915 nella Marsica. Eppure, narra Silone con rabbia, il peggio del peggio fu dopo, quando i soliti raccomandati si appropriarono degli aiuti e lasciarono ai bisognosi solo le briciole. In certi casi si arrivò a scavare più in fretta per le casseforti delle banche che per i sepolti vivi, e lo scrittore abruzzese volle dar voce alla rabbia di un popolo che aveva sopportato tutto — la distruzione, il freddo, la neve, la lentezza degli aiuti, le interminabili scosse di assestamento, la vita nelle tende, la leva in massa, la guerra, la morte o la prigionia dei suoi cari — ma non la calamità dell’ingiustizia. Il terremoto, almeno, era stato un evento egualitario, aveva colpito ricchi e poveri. La ricostruzione targata Italia ripristinava invece vecchie disuguaglianze, coprendole anche di omertà.
Oggi si aprono nuovi sentieri nella pancia inquieta dell’Appennino, e c’è chi prepara anche dei trekking tra i villaggi abbandonati del terremoto. Ma la vecchia Marsica bagnata dalla Luna di gennaio e battuta dai lupi, oggi è meta anche di altri pellegrinaggi dell’anima. Inglesi, americani o neozelandesi alla ricerca dei loro padri o nonni prigionieri, soldati che dopo l’8 settembre furono nascosti ai nazifascisti e protetti su queste stesse montagne. Cinquemila ne sfamarono i miseri contadini nella sola Monrea, paese di appena cinquecento anime che subì pesanti ritorsioni per mano tedesca. Di nuovo una bella Italia, fiera e solidale, cresciuta a pane, formaggio e terremoti.
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I soffitti s’aprivano.
In mezzo alla nebbia si vedevano ragazzi che, senza dire una parola, si dirigevano verso le finestre.
Tutto è durato venti secondi, al massimo trenta.
Quando la nebbia di gesso si è dissipata, c’era davanti a noi un mondo nuovo...
IGNAZIO SILONE DA “LE FIGARO LITTÉRAIRE”, 29 GENNAIO 1955
ILLUSTRAZIONE DI GIPI PER “REPUBBLICA”
PAOLO RUMIZ
AVEZZANO
PRIMA TI ARRIVA LA MORSA DI UN GELO TREMENDO , seguita da una tramontana affilata, rabbiosa. Poi, dopo tre giorni, la neve. Un turbinio leggero e senza vento, sui rilievi dolci della Marsica, il Velino e i Simbruini. E ora, una Luna immensa color ghiaccio, che sbuca dai monti del parco nazionale d’Abruzzo e versa una luce liquida sulla Val Roveto. «Stanotte è un navigare a vista larga» sussurra Bianca Mollicone da Balsorano, facendomi strada tra un monte di rovine incrostate di brina. Non c’è anima viva in cima al colle. Si potrebbe gridare, e invece no. Si parla sempre a bassa voce nei luoghi della distruzione e anche noi si cammina in silenzio. Sappiamo che il nostro è un viaggio nel tempo, non nello spazio. Il sentiero costeggia il cimitero, segue l’ex strada principale, contorna un muro transennato. Poi è l’ombra del campanile e, subito fuori, la spianata sulla dorsale, con le luci da presepe di Civita d’Antino sull’altro lato della valle. Liberata dopo cent’anni dalla boscaglia che l’ha invasa, Morino vecchia va come un traghetto alla deriva. Il suo ponte di comando è abitato solo da fantasmi. Visto da lì, l’Appennino lievita, svela un rollio lungo, oceanico.
Senza le rovine, nulla, in questo plenilunio, ti avvertirebbe che i monti naviganti della Marsica, allineati nella loro rotta a Nordovest, sono pervasi da spinte tremende e crivellati di spaventose cicatrici. E nulla, in questo saliscendi così diverso dalle scarpate alpine, direbbe che proprio qui intorno, alle 7.52 del 13 gennaio 1915, quattro mesi prima dell’ingresso in guerra dell’Italia, la Bestia ha ruggito così forte da portarsi via trentacinquemila anime in trenta secondi, una scossa lunga come un Paternoster e forte dodici volte quella dell’Aquila 2009. La differenza fra una cannonata e uno starnuto.
Ma basta salire di poco sul monte per ricostruire la topografia della devastazione. A Nord l’epicentro, segnalato da una pallida luminescenza di neve: la bonifica del Fucino, con la terra ancora ferita, fratturata o gonfia, che quel giorno vide emergere dal nulla una scarpata di due metri. Sulla sinistra, le luci di Avezzano, rinata da un’ecatombe di novemila morti su dodicimila abitanti, una percentuale pazzesca. Intorno, la costellazione delle rovine: Celano, Aielli, Pescina, dove Ingazio Silone perse i genitori. E poi Trasacco, Alba Fucens, San Benedetto, Gioia dei Marsi con Sperone e, più lontano, Frattura, nome che parla da solo. Monconi di torri, muraglie sbrecciate, ruderi di campanili tenuti insieme da rampicanti. Su tutto, la mole bianca e lunare del Sirente, con vista grande sui due mari.
Per chi viene da Sora, Morino vecchia è solo l’antifona dell’Apocalisse, uno fra i tanti villaggi-fantasma mangiati dalla vegetazione dopo il sisma, ciascuno con alla base il suo doppio, il paese nuovo, accucciato come un cane fedele ai piedi del padrone. Ma Morino è anche la prima città morta della Marsica a essere stata ripulita e resa percorribile per sentieri pedonali. Sopra la vecchia Balsorano furono piantati ulivi e sotto quel Getsemani nulla è più visibile. Qui no: tolti gli arbusti, tutto è riapparso al suo posto, l’orologio fermo a quel gennaio. Con la luce del giorno, negli squarci dei muri sarebbero visibili travi, pezzi di mobilio, stoviglie. I segni della vita interrotta, come nel castello della Bella addormentata.
«Questa potrebbe essere L’Aquila fra cent’anni» sospira Bianca come spaventata da una fatamorgana, e mostra col dito il percorso della faglia che, sul filo del fondovalle, s’aggroviglia ai piloni della superstrada, al fiume, la ferrovia e la Statale per Avezzano. «Io la sento la voce della Terra... Mi incute rispetto, mi insegna il senso del limite. Da piccola ho succhiato latte materno e paura, con i racconti dei vecchi. È grazie a quella paura che negli anni Cinquanta mio padre, per costruire la nostra casa, ha saputo scegliere il luogo più sicuro, su un roccione in riva al Liri».