Francesca Basso, Corriere della Sera 18/1/2015, 18 gennaio 2015
MILANO
Partiamo da un dato che è davanti agli occhi di tutti. Fare il pieno costa meno di circa il 15% rispetto a un anno fa. La benzina è scesa sotto la soglia psicologica di 1,4 euro al litro. Effetto del crollo del prezzo del petrolio, che nei giorni scorsi ha toccato i minimi dal 2009, scivolando a 45 dollari al barile, contro i 115 di giugno (picco del 2014). Il Brent ha poi recuperato e venerdì era sui 50 dollari. Ma comunque un livello molto basso.
Il carburante più conveniente è solo uno degli aspetti positivi del crollo del barile, per un Paese importatore di gas e petrolio come l’Italia. Se i Petrostati soffrono e parecchio (il rating di Venezuela e Russia è stato tagliato e sono vicini alla soglia «spazzatura»), i Paesi con la bolletta energetica più alta, invece, se ne avvantaggiano nonostante l’inflazione. Uno studio di Medibanca Securities individua vincitori e vinti della guerra del greggio, che ha come protagonisti l’Arabia Saudita con i Paesi Opec e i Paesi non Opec Messico, Russia e Stati Uniti, questi ultimi accusati più o meno velatamente di essere la causa di questo «squilibrio» determinato dalla produzione del più competitivo shale oil (il petrolio non convenzionale). In uno scenario che vede il barile restare in media sui 60 dollari nel 2015, il gradino più alto del podio va all’Italia, che riceverebbe una spinta al Pil pari allo 0,5%, seguita dalla Spagna, la cui crescita ne beneficerebbe per circa lo 0,3%. Mentre avrebbe un effetto negativo su Germania (-1,1%), Francia (-0,7%) e Gran Bretagna (-0,7%). Per una volta gioca a favore dell’Italia l’avere le tasse più alte (tra accise e Iva) sui carburanti, rispetto agli altri Paesi d’Europa, con il risultato di un contenimento dell’effetto deflattivo del crollo del petrolio.
Roma e Madrid potrebbero veder ridurre la propria bolletta energetica, pesante zavorra per la crescita, rispettivamente di 28 miliardi circa (dai 62 miliardi attuali a 34) e 23 miliardi (da 51 miliardi a 28). Del risparmio ne beneficerebbero settori come i trasporti e l’industria (specie costruzioni e farmaceutica), grazie al taglio dei costi di produzione. In particolare, in Italia il maggior vantaggio – secondo lo studio dell’analista Andrea Scauri – verrebbe percepito dalle piccole imprese, che costituiscono il tessuto del nostro sistema produttivo. Mentre per i grandi gruppi, che sono ormai globali con conseguente internazionalizzazione dei costi di produzione, l’effetto sarà inferiore.
Tra le società quotate, le più vulnerabili sono quelle del settore energetico o strettamente legate all’industria petrolifera come Eni, Tenaris, Saipem e Trevi. Ma anche i produttori di elettricità (Enel e le utilities). Mentre la Saras potrebbe avvantaggiarsi con scorte più convenienti. L’impatto sarà positivo anche sui titoli del cemento (Buzzi e Italcementi), che potranno essere aiutati dai risparmi sui costi base, e sui titoli delle autostrade (Atlantia e Sias). Il calo della benzina negli Stati Uniti potrebbe dare una spinta a Fiat Chrysler Automobiles e alla produzione di Suv rispetto ai veicoli a più basso consumo.