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 2015  gennaio 18 Domenica calendario

IL PROFILO DEL NUOVO PRESIDENTE

A chi è interessato alla scelta del prossimo capo dello Stato, consiglio, invece di partecipare alla lotteria dei nomi, di guardarsi indietro e vedere come sono stati scelti i presidenti italiani. Forse la storia può insegnare qualcosa.
Se si esclude De Nicola, che è stato capo provvisorio dello Stato e solo in quella veste ha acquisito e conservato per qualche mese il titolo e le attribuzioni di presidente, e non si conta Einaudi, il primo vero presidente, eletto poco dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nel 1948, gli altri nove presidenti sono stati scelti tra persone che o avevano guidato una assemblea parlamentare o avevano presieduto il governo. Per l’esattezza, cinque dei nove erano stati presidenti della Camera dei deputati (Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano), uno dell’Assemblea costituente (Saragat), uno del Senato (Cossiga), due del Consiglio dei ministri (Segni e Ciampi).
Perché il Parlamento ha compiuto queste scelte, omogenee quanto ai criteri, pur nella grandissima diversità degli uomini (basti pensare alle differenti provenienze di presidenti come Pertini e Ciampi)? Non ritengo che esse siano state fatte per rispettare una sorta di cursus honorum , che abbia portato su un gradino superiore chi era stato su quello inferiore. E questo perché solo in tre casi (Gronchi, Cossiga e Scalfaro) i presidenti sono passati direttamente dalla carica «inferiore» a quella «superiore».
N egli altri casi, sono state elette persone che avevano occupato il precedente ruolo in anni anche lontani (da due a diciassette). Dunque, la scelta ha premiato una esperienza e ha confermato il rapporto Parlamento–presidente-governo. Infatti, i presidenti di assemblea sono eletti dall’assemblea stessa tra i suoi componenti e il presidente del consiglio dei ministri — e con lui il governo — deve avere la fiducia del Parlamento. Dunque, l’elezione presidenziale ha sottolineato costantemente lo stretto rapporto che la Costituzione ha disegnato, al vertice, tra Parlamento, governo e presidente, dando la precedenza alla Camera più numerosa, quella dei deputati, tra i cui presidenti sono stati scelti ben cinque capi dello Stato.
Insomma, nel passato, la scelta è caduta su chi era già stato messo alla prova nel circuito costituzionale di vertice nel quale è inserito il presidente della Repubblica. Quest’ultimo è «figlio» del Parlamento (l’articolo 83 della Costituzione dispone che egli «è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri», con la partecipazione dei delegati regionali) e «padre» del governo (l’articolo 92 della Costituzione dispone che «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri»).
Si ripeterà la storia? Potrebbe ripetersi in forme diverse, ma ispirate agli stessi principi? O si sceglierà una strada diversa? Basta attendere pochi giorni per avere una risposta a queste domande.
Avverto, però, che l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe essere rivolta non tanto a chi salirà al Quirinale, quanto alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale, perché le istituzioni contano più degli uomini. Sono esse che conformano e condizionano la condotta delle forze politiche e delle persone, correggendone anche le inclinazioni negative. E quindi a ragione è stata data la priorità alle due scelte di valore costituzionale che ho indicato. Questo vuol dire avere quel «senso dello Stato» sul quale il presidente Napolitano ha dato, nei giorni scorsi, un’altra bella lezione. Rispettando la Costituzione, per la quale le dimissioni sono una decisione «solitaria», presa sotto la sola responsabilità del presidente. Ma preparando il passaggio, in modo che il Parlamento non fosse preso alla sprovvista. E conducendo la cerimonia degli addii con quel garbo e quell’eleganza che hanno contraddistinto tutta la sua vita politica.