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 2015  gennaio 17 Sabato calendario

IL PESSIMISMO DELLA RAGIONE

IL PESSIMISMO DELLA RAGIONE -
Da parec­chi anni Luca Ron­coni esplora come tema dei suoi spet­ta­coli l’economia e la finanza, argo­menti del tutto inu­suali sui pal­co­sce­nici ita­liani e non solo. Lo fa usando testi esi­stenti, o anche com­mis­sio­nan­doli a dram­ma­tur­ghi e scien­ziati, o anche diret­ta­mente a degli eco­no­mi­sti impor­tanti, come Gior­gio Ruf­folo. E la finanza, dalle sue ori­gini avven­tu­rose in epoca moderna, fino al crack ter­ri­fi­cante delle ultime sta­gioni (con fune­ste con­se­guenze pla­ne­ta­rie) della più impor­tante banca d’affari di Wall Street, è la sostanza del suo nuovo spet­ta­colo, che debut­terà al Pic­colo Tea­tro Grassi di Via Rovello il pros­simo 29: si tratta di Leh­man Tri­logy, su testo di Ste­fano Mas­sini (Einaudi, 332 pp. 17,50 euro). Pro­ta­go­ni­sta un cast «stel­lare» per le nostre scene, che com­prende tra gli altri Mas­simo De Fran­co­vich, Mas­simo Popo­li­zio, Fabri­zio Gifuni e Paolo Pie­ro­bon.
Le prove, di circa tre mesi, sono impe­gna­tive e assor­bono com­ple­ta­mente attori e regi­sta. Ma incon­trando Luca Ron­coni in una breve pausa, non si può non chie­der­gli da dove venga que­sta sua par­ti­co­lare curio­sità per la finanza, le sue leggi e le sue teo­rie, i suoi fasti e i suoi abissi.


«Mi inte­ressa per­ché non ne so niente. Ho voluto occu­par­mene in tea­tro, a par­tire dal testo che ho chie­sto a John Bar­row per Infi­ni­ties, e poi con un altro a Gior­gio Ruf­folo che era La Bel­lezza del dia­volo; ho messo in scena Inven­tato di sana pianta di Her­mann Broch, e ora arrivo alla sto­ria dei Leh­man. Sono tutte cose che appar­ten­gono a un mondo che io non cono­sco, e del resto io non ho mai amato met­tere in scena ciò di cui sono total­mente sicuro. Di quelli che pos­sono essere i rischi di un feno­meno, mi inte­ressa esat­ta­mente il feno­meno, e non «dire la mia».Senza nes­suna pre­tesa o ambi­zione di deter­mi­narne gli esiti, anche se que­sti saranno lo sfa­scio o il declino: li lascio pen­sare a qual­cun altro. A me com­pete un atteg­gia­mento da ’spet­ta­tore’ (per­ché c’è un ele­mento di pos­si­bi­lità), e nello stesso tempo ’cri­tico’ per­ché sono ben con­sa­pe­vole della pro­spet­tiva da cui guardo. Ma senza la pre­tesa di dare un giudizio».


Eppure nell’introduzione che lei ha scritto al testo di Mas­sini, riba­di­sce la neces­sità che «il capi­ta­li­smo deve tra­sfor­marsi».
Que­sta osser­va­zione la fac­cio non rispetto al testo che metto in scena, ma rispetto alla realtà. Mi sarebbe pia­ciuto essere, que­sto sì, tra i testi­moni che hanno avuto la ven­tura di vedere le prime crepe aprirsi nel sistema Leh­man: non quando sono diven­tate vora­gini, ma quando erano ancora crepe, segnali. Io qui non dico niente di per­so­nale, così come quando ho fatto Infi­ni­ties, non dicevo «la mia», non dicevo nulla di per­so­nale, ma ripor­tavo in scena affer­ma­zioni come pos­sono esserlo quelle di un pro­fes­sore inglese a degli stu­denti; ho messo in scena delle «lezioni» sen­ten­domi anche io come uno stu­dente, e non come un professore.


E nel caso del fal­li­mento della finanza mon­diale, di cui Leh­man Bro­thers è stato un arche­tipo, come si sente?
Di natura non sarei pes­si­mi­sta, ma penso che prima o poi le cose si devono sfa­sciare, si deve fare piazza pulita per poter rico­min­ciare, e non cer­care a tutti i costi le media­zioni. Allora divento asso­lu­ta­mente estre­mi­sta, a comin­ciare dal mio lavoro arti­stico. E tal­volta mi è toc­cato anche fin­gere… Per qual­che spet­ta­colo tra quelli rea­liz­zati qui al Pic­colo, c’è chi si è arrab­biato per­ché lo tro­vava troppo ’estre­mi­sta’; ma un tea­tro di que­sta por­tata si deve per­met­tere degli azzardi altri­menti perde la sua ragion d’essere. Tor­nando al caso Leh­man, per par­lare nello spe­ci­fico, la com­me­dia è estre­ma­mente ambi­ziosa: sia chi l’ha scritta che chi la porta in scena, non sono stati testi­moni diretti di que­gli eventi. Eppure nella dimen­sione, nella durata e nel suo stesso con­te­nuto, sono tenuti a soste­nerne fino in fondo la pre­tesa o l’ambizione. Come quando, costruendo un orga­ni­smo, que­sto cre­sce fino a nascon­dere le giun­ture o le mem­bra che pure ne sono la parte essen­ziale.
Un secondo pro­blema è che noi siamo stati testi­moni di quell’evento come un giap­po­nese della pas­sione di Cri­sto. Abbiamo seguito quelle vicende ma non appar­te­niamo a quella cul­tura. Uno dei grandi pregi della com­me­dia è il modo in cui docu­menta il pro­gres­sivo distacco dalla cul­tura d’origine: la Ger­ma­nia sfuma, e per­fino l’origine ebraica, per la rapida e pro­gres­siva «ame­ri­ca­niz­za­zione». Noi la fac­ciamo tutta all’italiana: le stesse pre­ghiere ebrai­che hanno accento ita­liano. Non siamo stra­fot­tenti, ma suf­fi­cien­te­mente cinici sì. Nono­stante la mole, è un testo a cui lavoro con molta pas­sione, e per for­tuna c’è un cast fantastico.


Assi­stendo alla «Leh­man Tri­logy», lo spet­ta­tore ita­liano sarà auto­riz­zato a pen­sare ad altri crack cla­mo­rosi che avven­gono da noi, spesso con la coper­tura della poli­tica, o gra­zie alla man­canza di con­trollo. Oggi l’Italia è per­corsa da nord a sud da fal­li­menti e cor­ru­zioni cla­mo­rosi, dall’Expo al Mose all’Ilva, pas­sando per la cupola di Mafia Capi­tale.
Quella dei Leh­man, con tutto lo scan­dalo dei sub­pri­mes, è una sto­ria di pre­sun­zione e ambi­zione che voleva farsi pla­ne­ta­ria, e che ha fal­lito. Ricor­diamo che un Leh­man per altro è stato il mag­gior col­la­bo­ra­tore di Roo­se­velt pre­si­dente, lasciò l’azienda fami­liare, si diede alla poli­tica, e mise pure le tasse ai ric­chi. Il loro crollo è stata non una causa, ma una con­se­guenza dell’economia glo­ba­liz­zata, cui ave­vano rispo­sto senza ade­guate radici cul­tu­rali. Quelle nostre di cor­ru­zione mi sem­brano le sto­rie di sem­pre, che pra­ti­cava a suo tempo la dc. Ora si sono allar­gate a tutti gli schie­ra­menti, e dovremmo piut­to­sto che sull’entità della cor­ru­zione, inter­ro­garci sul per­ché. Alla mia età non posso stu­pirmi che avvenga, anche se ha assunto ora pro­por­zioni intol­le­ra­bili. A chiun­que chie­dessi se dav­vero non lo imma­gi­nava, lo sfido a rispon­dermi di no.
E che ora ven­gano fuori, è per­ché qual­cuno ha deciso di farlo. Sono con­vinto che stiamo arri­vando al punto più basso, allo sfa­celo. E non solo in eco­no­mia, ma anche nella cul­tura, e nel nostro pic­colo campo di lavoro, il tea­tro. E la discesa mi sem­bra sem­pre più rapida; è inar­re­sta­bile ma al tempo stesso vicina al suo ter­mine. Magari da un’altra parte e in altri modi, tutto può rico­min­ciare, spero.