Marco A. Capisani, ItaliaOggi 17/1/2015, 17 gennaio 2015
VERA MONTANARI, DIRIGO SEMPRE
[Intervista] –
Da largo Richini a Milano fino a largo Richini, sempre a Milano di fronte al portico del Filarete dell’Università Statale, è il curioso viaggio durato anni di Vera Montanari, laureata in Lettere moderne in quell’ateneo e adesso pronta ad aprire per la fine di febbraio, nella stessa piazza al numero civico 2, Slobs Casa.
Uno showroom che promuove e mette in vendita complementi di arredo creati da artigiani italiani in pezzi unici o mini-serie. Ma Vera Montanari è anche la giornalista a tutto tondo che ha lavorato a Radio Popolare, Amica, Panorama e l’Uomo Vogue e resta soprattutto il direttore che ha guidato, sempre con successo, tanti periodici storici da Bolero a Dolly, da Marie Claire (due volte) a Gioia, da Flair a Grazia, quest’ultimo dal 2007 al 2012. Prima e dopo il giornalismo, ha militato anche nel Movimento studentesco degli anni 70 ed è stata femminista e insegnante. Ma Montanari più di tutto è direttore, perché «è quello che ho fatto negli ultimi 30 anni e lo sono sempre in pectore», dice sorridendo. «Persino se mi mettessi nel traffico, finirei per dirigerlo», sottolinea ironicamente. Però, dopo un periodo detox a fine carriera giornalistica in cui mi «sono tenuta lontana dalla lettura dei magazine», ammette Montanari, «e leggevo solo i quotidiani, affronto adesso il mio debutto nel mondo dell’artigiano. La prima volta che mi hanno parlato di artigianato, ho risposto: eh, che cosa? Poi ne ho scoperto il gusto e la professionalità e mi sono innamorata. Del resto, sono una pazza avventuriera».
Domanda. E allora adesso non le manca il giornalismo? Nulla, nemmeno la quiete dopo la chiusura di un numero o un posto in prima fila alle sfilate?
Risposta. Per molti anni sono stata un direttore più che una giornalista. Dirigevo e lo faccio anche adesso. Organizzo, coordino il lavoro per lo showroom insieme alla mia amica e socia Barbara Vergnano (arredatrice ed esperta di artigianato d’eccellenza, ndr). Le sfilate le seguo su internet e poi solo la prima sfilata è una vera emozione, dopo diventano un impegno. Semmai, più che la quiete dopo aver mandato in stampa un numero, ho nostalgia delle riunioni di redazione, del lavoro di squadra e del confronto d’idee che ne scaturiva. Altre allure della professione non mi mancano.
D. Il lavoro di squadra nei periodici, e specie nei femminili, è per lo più un lavoro tra donne. Dev’essere stato impegnativo_
R. Non direi; con le colleghe ho un feeling maggiore che con gli uomini. Ho avuto anche dei vicedirettori maschi e mi sono trovata bene. Ma di certo con loro non puoi parlare di temi prettamente femminili. Anche lavorare nella stessa casa editrice con mio marito (Roberto Briglia, già direttore generale in Mondadori, direttore di grandi testate e oggi editore, ndr) non è stata una passeggiata, sai le discussioni_ Comunque, la questione è che spesso le giornaliste, come le artigiane, sono più efficienti e organizzate. C’è un gesto semplice che caratterizza le donne al lavoro: questo (e si tira su le maniche di entrambe le braccia, ndr).
D. Fare un discorso di genere così non è poco femminista per un’ex militante convinta come lei?
R. Questa intervista sembra sempre più una seduta psicoanalitica ma, guarda, io sono orgogliosa della mia storia. Oggi femminismo è un termine che crea disagio, perché giustamente il parametro per valutare una persona dev’essere il merito, ma per la mia generazione il femminismo è servito a cogliere e cercare di arginare le sperequazioni tra i due sessi che c’erano e che oggi, forse, non ci sono. Il femminismo è stato un bel gioco, nel senso che mi sono anche divertita ma ora non voglio più verità assolute. Mi danno fastidio le posizioni manichee.
D. Dunque, non le chiedo se vorrebbe una donna alla presidenza della Repubblica? O, di contro, come mai le donne non reggono alla direzione di grandi quotidiani, dal New York Times a Le Monde?
R. Per il dopo-Giorgio Napolitano non importa se ci va una donna o un uomo. Non mi piace che si sottolinei che, per qualche motivo, ci deve andare una donna. Così come al timone di un quotidiano, certo che ci può andare e funzionare a lungo una collega. Nonostante i casi da te citati, ricorda che dai femminili, spesso guidati da una giornalista, è arrivata un’importante lezione per i quotidiani: quella di andare oltre la notizia e capire l’importanza di offrire al lettore un racconto, un’emozione. Tanto più che per le breaking news c’è internet.
D. A lei non piacerebbe dirigere un quotidiano? O darsi alla tv?
R. Un quotidiano? Mi vuoi rovinare la vita? La tv non so, ma io vengo da un altro mondo. E poi il mio mestiere resta la radio, mi metti in mano un microfono e io parlo. Il periodo a Radio Popolare (Montanari è tra i fondatori dell’emittente, ndr) è stato importantissimo perché ha coniugato l’impegno politico e la professione che stavo all’epoca imparando.
D. Guardando indietro nel tempo, come fa convivere l’esperienza a Radio Popolare e quelle nei femminili?
R. Ti faccio due esempi sui femminili: quando ho firmato il primo Marie Claire italiano, testata nata in Francia dove veniva accompagnata dal motto «il lusso per le masse». Lì mi sono ritrovata in un femminile ma un femminile impegnato, quasi femministoide. Mentre quando sono arrivata all’Uomo Vogue, dove tutti si vestivano di nero, mi sono presentata con un cappello grigio in testa, gonna lunga e zoccoli ai piedi. Il direttore di allora mi ha chiesto di prestare maggior attenzione all’abbigliamento. Allora mi sono comprata un vestito e, quando il direttore mi ha rivisto nei giorni successivi, valutando l’evoluzione del mio look mi ha chiesto: «Di chi è questo vestito?». Solo che io ero ben lontana dal prestare attenzione alle griffe dei vestiti, anche se lavoravo all’Uomo Vogue. Così ho risposto: «Mio!», orgogliosa di essermelo comprato visto che di solito era mia sorella a prestarmi gli abiti. Ancora oggi, se incontro quel direttore, mi dice con ironia: ricorda quel «mio!».
D. Ha un buon consiglio per i giovani che approcciano la professione?
R. Essere multimediali, sapere alla perfezione l’inglese, studiare i video e il montaggio perché la lettura di un articolo è un capolavoro di esperienza ma il video è più immediato. Oddio, non vorrei parlare come una reduce, ma anche io sono stata un direttore 2.0 tempo fa e nemmeno lo sapevo. Quando ero incinta, mi sono fatta predisporre a casa una scrivania collegata online con la redazione. Oggi, comunque, trovo che i social network siano dei bei mezzi di comunicazione, anche divertenti. Io scrivo su Facebook, ne seguo i dibattiti e cinguetto su Twitter.
Marco A. Capisani, ItaliaOggi 17/1/2015