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 2015  gennaio 17 Sabato calendario

QUEL RIGORE CONTESTATO

Il fair play finanziario per le società di calcio come il Fiscal compact per gli Stati aderenti all’euro, con il ceo del Bayern di Monaco, Karl-Heinz Rummenigge, nel ruolo di alfiere del rigore in stile Angela Merkel (il cancelliere tedesco è tifosissima del club baverese), e il numero uno dell’Uefa, Michel Platini, nei panni del presidente della commissione Ue, Jean-Claude Juncker, stretto tra l’esigenza di garantire la sostenibilità economica del calcio continentale ma di favorire allo stesso tempi nuovi investimenti anche attraverso l’arrivo di capitali stranieri. Può essere riassunto in questo modo il dibattito in corso su una possibile riforma, in senso meno restrittivo, del fair play finanziario. Un regolamento fortemente voluto da Platini, ma anche dagli stessi club, per contenere gli effetti negativi sui bilanci delle società di calcio del vorticoso aumento delle spese per i calciatori legato all’ingresso sulla scena di sceicchi arabi e magnati russi, ma che ora rischia di cristallizzare i rapporti di forza esistenti sul campo, non consentendo a quei club che negli anni scorsi hanno accumulato ritardi sul fronte delle entrate di colmare il gap esistente con l’elite europea.
Il caso dell’Inter in questo senso è emblematico e può aiutare a comprendere le contraddizioni del regolamento. Il club nerazzurro sotto la gestione di Massimo Moratti, un po’ come l’Italia negli anni 80, ha finanziato i suoi successi sportivi, culminati nello storico triplete del 2010, facendo ampio ricorso al deficit (sempre prontamente ripianato dall’azionista mecenate) e al debito (garantito personalmente dallo stesso Moratti). Ora però, con il fair play finanziario a regime, il nuovo azionista di controllo, l’indonesiano Erick Thohir, pur non avendo responsabilità sulle gestioni precedenti al suo arrivo, ha davanti a sé spazi di manovra strettissimi per finanziare gli investimenti necessari a riportare l’Inter a essere competitiva in Italia e in Europa e avere allo stesso tempo i conti in ordine. Avendo superato di gran lunga i 45 milioni di perdita massima consentita nell’arco del triennio 2012-2013-2014, l’Inter, così come la Roma di James Pallotta, sta infatti negoziando con l’Uefa un piano di rientro quinquennale che dovrebbe legare la capacità di investimento del club all’andamento atteso dei ricavi. Ricavi che, almeno per ora, dipendono più dalla qualificazione alla Champions League che dallo sviluppo delle attività commerciali. Nonostante ciò, senza fare polemica, lo scorso ottobre Thohir, nel corso dello Sport Business Summit di Londra, ha voluto comunque sottolineare le rigidità del regolamento, colpevole a suo giudizio di congelare di fatto gli attuali rapporti di forza tra i club. Se Real Madrid, Barcellona, Manchester United e Bayern Monaco – è il ragionamento condiviso da molti osservatori – forti di ricavi caratteristici ampiamente superiori ai 400 milioni di euro, possono permettersi di investire e spendere nella rosa cifre considerevoli senza incorrere in perdite di bilancio, molti altri club, seppur blasonati, avendo accumulato, per diverse ragioni, importanti ritardi in termini di fatturato dai primi della classe, non possono più competere con questi ultimi, visto che il regolamento Uefa, non consente più di finanziare gli investimenti con il rosso di bilancio. Ma perché i ricavi di un club crescano in modo consistente, non bastano managerialità e programmazione, serve infatti anche un brand di successo, che contribuisca a massimizzare i ricavi derivanti dai diritti tv, dalle sponsorizzazioni, dal merchandising e dallo stadio. E per avere un brand di successo, specie sui mercati internazionali, bisogna vincere sul campo. Il blasone, su cui l’Inter, grazie alla sua storia di successi internazionali, può ancora contare, non è infatti sufficiente. Ma per vincere, specie in Europa, servono investimenti e se non ti puoi più finanziare in deficit, serviranno tempi lunghi e una strategia precisa per colmare il gap con i top club.
Thohir non è l’unico a pensarla in questo modo. Anche l’ex allenatore nerazzurro, José Mourinho, pur lavorando oggi per il Chelsea, un club che dopo essere stato per anni dipendente dal portafoglio di Roman Abramovic ora riesce ad autofinanziarsi e a competere ad altissimi livelli in Europa, ha sparato alla sua maniera contro il fair play finanziario. Secondo lo Special One le regole attualmente in vigore danno un vantaggio «sleale» ai club che da anni sono considerati i più importanti d’Europa. «Penso che il financial fair play», è il ragionamento di Mou, «sia una contraddizione. Quando il mondo del calcio ha deciso di seguirne le regole lo scopo era esattamente quello di mettere le squadre in parità di condizioni per competere». Anche secondo Mourinho, dunque, l’introduzione del financial fair play non consentirebbe ai club di proprietà di nuovi investitori di mettersi rapidamente allo stesso livello delle società di prima fascia, disincentivando dunque nuovi investimenti.
Non è un caso che anche un dirigente diplomatico come Umberto Gandini, vicepresidente dell’Eca e direttore dell’organizzazione sportiva del Milan, club che è ufficialmente alla ricerca di nuovi soci che affianchino la Fininvest, abbia sollevato delle perplessità sulle regola attualmente in vigore. «Il fair play finanziario», ha affermato Gandini nel corso dei Globe Soccer Awards di fine dicembre a Dubai, «ha portato un po’ di buon senso nella gestione delle società di calcio. È stato un successo in termini di riduzioni delle perdite complessive del calcio europeo. Dall’altro lato c’è però da considerare come alcuni club a causa di questo sono cristallizzati, ci sono investitori che vorrebbero entrare in gioco ma che vengono frenati proprio da questo meccanismo. In Europa in questo momento ci sono solamente 5-6 grandi club, quello a cui dovrebbe mirare l’Uefa è di avere come minimo 20 grandi club».
Tutti rilievi che Platini, pur tenendo la barra ferma sui principi che hanno ispirato il fair play finanziario, ha dato prova di voler ascoltare, tanto che lo scorso 13 ottobre il presidente dell’Uefa ha organizzato una riunione con i principali club europei, alcune federazioni nazionali e i rappresentanti dei calciatori (FIFPro) anche per discutere «di eventuali modifiche al sistema». Nel corso della riunione, come emerso dal comunicato diramato dalla Uefa, sono stati trattati vari temi, compreso quello della «cristallizzazione del sistema». Ciò non significa che il regolamento verrà modificato, anche se le pressioni in questo senso da parte delle proprietà arabe del Manchester City e del Paris Saint-Germain, i due club sanzionati dall’Uefa per aver aggirato le regole attraverso contratti di sponsorizzazione a prezzi non di mercato con parti correlate, sono innegabili.
A fare muro contro una revisione in senso meno restrittivo del fair play finanziario ci sono i club tedeschi, a partire dal Bayern Monaco guidato da Karl-Heinz Rummenigge, che è anche presidente dell’Eca. «Spero che il calcio tedesco mostri che c’è un’alternativa ai club che spendono più soldi di quelli che guadagnano, e per questo noi consideriamo l’iniziativa del fair play finanziario, lanciata dalla Uefa, come una parte vitale per garantire il futuro del calcio», ha affermato recentemente l’ex giocatore dell’Inter e della nazionale tedesca, aggiungendo: «Il fatto che il Bayern abbia raggiunto la semifinale della Champions League per quattro volte negli ultimi quattro anni, abbia vinto nel 2013 in una finale tutta tedesca con il Borussia Dortmund, è un messaggio chiaro. E non va dimenticato che la Germania ha vinto la Coppa del Mondo del 2014». Una posizione condivisa anche dal segretario generale dell’Uefa, Gianni Infantino. «Non è l’obiettivo del fair play finanziario quello di far giocare tutti allo stesso livello. È come con i sistemi politici in cui tutti sono allo stesso livello finanziario, ma che hanno dimostrato di non poter funzionare. Alla fine si tratta di creare una sana competizione e se si riesce a incrementare le entrate si potrà competere maggiormente. Il Dortmund è un buon esempio: era fondamentalmente in bancarotta pochi anni fa e due anni fa era in finale di Champions. Investendo nei giovani e nelle infrastrutture si possono generare più ricavi e si potrà essere in grado di competere. Si dovrebbe anche ricordare come la Champions League – negli ultimi 22 anni – non abbia mai visto la stessa vincitrice due volte di fila».
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 17/1/2015