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 2015  gennaio 17 Sabato calendario

Centocinquanta giorni di prigionia sono un tempo infinito. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, di quel tempo hanno finito per perdere la cognizione

Centocinquanta giorni di prigionia sono un tempo infinito. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, di quel tempo hanno finito per perdere la cognizione. Aggrappate a un solo desiderio, a un unico pensiero, ripetuto come un mantra nei momenti di buio: «Volevamo tornare a casa». E così, quando le due ragazze si siedono in due uffici separati della caserma del Ros dei Carabinieri per raccontare in quattro ore i cinque mesi più lunghi della loro vita, nei verbali dei pubblici ministeri Sergio Colaiocco e Francesco Scavo Lombardo e del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, si fissa un racconto in cui la memoria sembra essere stata lavata dall’emozione di una conclusione felice e dunque depurata da ogni sofferenza o brutalità. Che — dicono — «non c’è mai stata». Così come da ogni dettaglio che dia un nome ai luoghi o ai carcerieri. O che possa rispondere alla domanda diretta dei pm: «È stato pagato un riscatto?». «Non lo sappiamo e non ne abbiamo comunque avuto la percezione». Resta solo quel «siamo felici», che ripetono una, due, più volte. Quasi a voler ringraziare chi le sollecita con le domande. E quando la deposizione finisce, Vanessa — che delle due ragazze sembra quella con la personalità più pronunciata, la sola in grado di interagire con i carcerieri con un po’ di arabo — resterebbe ancora a parlare per ore, a confidare un avvicinamento e quello di Greta alla religione islamica. Insomma, a sciogliere quel grumo di sentimenti che la Siria le ha lasciato dentro e che la rendono indecisa nel pensare se tornerà mai più in quella terra. «Forse », abbozza sulle prime. «O forse no, forse mai più», confida alla fine. Ricordando se non altro come questa storia è iniziata. Era il luglio dello scorso anno. In una Aleppo martoriata, Greta e Vanessa sono nella casa dove si appoggia la ong per cui lavorano. «Sono arrivati una decina di terroristi su due macchine. Hanno fatto uscire chi era con noi e ci hanno preso. In quei momenti, abbiamo tenuto la testa bassa per riuscire a non vedere chi erano ». I sequestratori, prima di portarle via, si fermano. Cercano qualcun altro che sanno dovrebbe essere con loro. «Ci hanno chiesto se sapevamo dove si trovava Daniele Raineri, il giornalista del Foglio. Abbiamo risposto di no. E in quel momento abbiamo avuto come l’impressione che volessero prendere lui». Sono provate, Greta e Vanessa. Ma è la manifestazione — dicono — di una sofferenza so- lo emotiva. «Non siamo mai state picchiate, né violentate. E per come può esserlo una prigionia, non ci hanno trattato male. Ci hanno sempre dato del cibo, che lasciavano fuori dalla porta. E, quando ne avevamo bisogno, anche dei medicinali. I nostri carcerieri erano diversi. Non ci hanno mai perse di vista, anche se ci sono state delle prigioni nelle quali eravamo lasciate sole nella stanza. A volte ci hanno diviso in due camere separate, ma per lo più siamo state insieme». Delle due ragazze, l’unica a comunicare con i sequestratori è Vanessa, con quel poco di arabo che conosce. Talvolta, si aiutano con l’inglese. «Ma spesso, per capirsi erano sufficienti gli sguardi». «I carcerieri erano per lo più uomini, ma a volte abbiamo incrociato anche qualche donna». E soprattutto, «Abbiamo sempre avuto in bagno tutto per noi a disposizione». Anche la paura che incrociare il volto del proprio carceriere possa significare la propria condanna a morte, con il tempo evapora. «All’inizio erano a viso coperto. Poi, hanno abbassato la guardia. Spesso erano a viso scoperto». Volti di cui chi le interroga prova a tracciare un identikit, ma senza grande successo, perché, nel ricordo di Greta e Vanessa, quei carcerieri finiscono per somigliarsi tutti l’uno con l’altro. Tra il momento del sequestro e quello della liberazione, le ragazze vengono spostate. «Abbiamo cambiato circa cinque o sei prigioni». Ma anche qui, il ricordo si fa ovattato, confuso. «I giorni erano tutti uguali. Non sempre riuscivamo a contarli o a capire se era notte o giorno. E comunque, durante gli spostamenti siamo state sempre bendate. Per cui non ci siamo mai rese conto di dove ci stessero portando». Le domande dei pm sono morbide, cercano di sollecitare senza strappi i ricordi. Con un solo affondo, di fronte al quale, per una sola volta nell’arco delle quattro ore, le due ragazze si irrigidiscono o comunque non riescono a dissimulare imbarazzo. «Sapete se è stato pagato un riscatto per la vostra liberazione?». «Non sappiamo nulla di un eventuale pagamento del riscatto. Non abbiamo saputo niente di questo». Più agevole, invece, raccontare quando e come è arrivata la certezza che sì, il desiderio si avverava. Si tornava a casa. «Da qualche giorno le cose erano un po’ cambiate, ieri l’altro abbiamo capito che ci avrebbero liberate presto. E ieri, poi, ne abbiamo avuto la certezza. Si, siamo state contente. Volevamo tornare a casa». Del resto, la percezione che le due ragazze hanno avuto di cosa si muovesse intorno a loro e quale fosse il percorso che avrebbe portato alla loro liberazione sembra sia stata assai lucida. Se non nei dettagli, certo nella sostanza. Almeno a stare alle loro parole. «All’inizio abbiamo avuto molta paura. Ma con il passare dei giorni abbiamo capito alcune cose. Chi si intende un po’ di terrorismo riesce a capire certe sfumature. E noi abbiamo capito che eravamo in mano a un gruppo che aveva interesse a trattare, non a ucciderci». E dunque, sì «ci siamo anche rese conto delle trattative». E del loro stop and go. «A un certo punto, non sappiamo dire quando (gli inquirenti sono convinti si tratti dei contatti interrotti poco prima del Natale scorso, ndr) abbiamo realizzato che stavano trattando. Che forse la nostra liberazione era imminente. Poi, però, ci siamo anche accorte che la cosa era saltata, forse per un problema tecnico. E per questo ci hanno fatto fare un video (quello postato in rete il 31 dicembre ndr.)». Deve essere una supplica a beneficio di una rapida definizione di prezzo e conclusione della trattativa. Greta e Vanessa ne sono consapevoli. «Sono stati loro a dirci cosa avremmo dovuto dire. Sono stati loro a drammatizzare i toni. Probabilmente perché volevano riprendere la trattativa». Sicuramente. Non probabilmente. Come il ritorno a casa dimostrerà.