Jean A. Gili, MicroMega 9/2014, 16 gennaio 2015
IO, FEDERICO
[Federico Fellini]
All’inizio degli anni Quaranta lei comincia a interessarsi al cinema collaborando alla redazione di varie sceneggiature. Fra queste, mi sembra che le più rappresentative siano quelle scritte per Aldo Fabrizi: Avanti, c’è posto... Campo de’ fiori, L’ultima carrozzella. In questi film si respira un’aria nuova; il conformismo della produzione corrente comincia a essere messo in discussione.
Il mio contributo al cinema era all’epoca molto limitato. Facevo sì lo sceneggiatore, ma in maniera poco convinta. Non ero neanche particolarmente consapevole di quelli che erano i nostri obiettivi. Collaboravo alla stesura della sceneggiatura e talvolta anche alla definizione del soggetto, nonostante fossi di fatto al servizio di un attore tipicamente romano come Aldo Fabrizi, un uomo che aveva la sua visione un po’ folcloristica della città. Tutto sommato il mio apporto si riduceva a una collaborazione da mestierante. All’epoca facevo il giornalista, lavoravo al Marc’Aurelio, un bisettimanale umoristico, e non pensavo affatto che avrei fatto cinema. L’idea di fare il regista mi era assolutamente estranea, un po’ come se mi avessero detto che sarei diventato ammiraglio – la mancanza totale di identificazione con quel mestiere e quel tipo di attività era pressoché la stessa. Volevo fare lo scrittore, il giornalista. Sapevo che forse avrei scritto per il teatro, per la radio e magari anche per il cinema, ma davvero non pensavo di esprimermi attraverso le immagini. Oltre a ciò, mi sembrava di essere sprovvisto di tutte le qualità che caratterizzano il regista, che non avessi sufficiente autorità, gusto per il dispotismo, che mi mancasse quella sicurezza, quella capacità di prendere cento, mille decisioni al giorno. Veramente l’autorità... Mi sembravano tutte qualità a me totalmente aliene. Quando, a volte, mi capitava di entrare in un teatro cinematografico chiamatovi dal regista per modificare un dialogo o per allestire in tutta fretta una scenetta in seguito ai capricci di qualche attore lunatico in vena d’improvvisazione, rimanevo sempre molto sorpreso, stupito; non capivo come si potesse lavorare in mezzo a tutto quel trambusto, in quell’atmosfera così particolare. Avevo l’impressione che una troupe cinematografica al lavoro – fra l’altro, non riuscivo a capire bene cosa facessero: sentivo gridare, imprecare, poi vedevo il regista che si avvicinava a un attore o a un’attrice parlando a bassa voce, e intorno tutte queste persone che bivaccavano sparpagliate nella confusione più totale facesse in realtà tutto tranne che lavorare, o meglio mi sembrava che queste persone si dedicassero a un lavoro talmente segreto, talmente misterioso che finivano per sfuggirmene le finalità. Pertanto, davvero non pensavo che sarei diventato regista.
Mi mancava anche quella particolare capacità, quell’inclinazione, che consente d’intravedere già nella sceneggiatura quelle che possono essere le suggestioni associate a un’immagine. Il mio lavoro consisteva realmente solo nel confezionare degli sketch, delle storielle concepite in maniera teatrale o con quell’umorismo un po’ volgare e un po’ sguaiato che era tipico del giornale al quale collaboravo, il Marc’Aurelio. Ciononostante, è probabile che quella cosa, fatta in quel modo, cioè in maniera quasi distratta e a partire da un punto di vista che non era precisamente quello cinematografico, mi portasse forse abbastanza naturalmente e quasi inconsciamente a cercare di esprimermi un po’ da caricaturista, da vignettista.
Per tornare ai film di Aldo Fabrizi, il mio contributo era molto relativo, addirittura marginale: già la semplice storia non era una mia creatura, tantomeno lo erano i personaggi. Questi ultimi non erano altro che velleità e desideri di Fabrizi. Il bigliettaio di Avanti, c’è posto..., il pescivendolo di Campo de ’fiori, il vetturino di L’ultima carrozzella erano tutti personaggetti che Fabrizi aveva portato con sé dalla scena teatrale, delle macchiette umoristiche nate nel contesto del varietà o dell’avanspettacolo che egli adattava al cinema. Io ho collaborato alla redazione dei testi di alcuni di questi personaggi quando si trattava di metterli in scena o di registrare un disco, ma l’impronta, il modello, il carattere erano quelli di Fabrizi. Ignoro che contributo dessero i registi del tempo a questa specie di presepe romano, molto affettato, molto convenzionale. Poiché si trattava per l’appunto di cineasti come Mario Bonnard o Mario Mattoli, credo che il loro apporto consistesse soprattutto in un mestiere, in una capacità di confezionare il prodotto cinematografico utilizzando indifferentemente e senza troppi problemi lo studio o la strada.
Insisto: non ritiene che quei film fossero anche portatori di una freschezza nuova nell’universo stereotipato del cinema dell’epoca?
Non li ho mai più rivisti, non saprei dire se in essi ci fosse un’aria nuova. Ad ogni modo, penso che essa fosse ricollegabile soprattutto a Fabrizi, più che al contributo degli sceneggiatori o dei registi. Era Fabrizi ad avere questo culto della rappresentazione del vero, un culto quasi paralizzante. «Facciamo la vita», ripeteva sempre. A suo modo, grossolanamente, aveva una certa propensione naturale verso la rappresentazione di ciò che aveva davanti agli occhi; si sforzava di riproporre il piccolo mondo dei commercianti plebei in maniera fedele a come lo aveva osservato. Quindi istintivamente, oscuramente, si trattava di una rappresentazione di tipo verista. Eppure essa era tale nel senso più piatto del termine e sempre ricorrendo a una cadenza, un ritmo, un punto di vista, non soltanto ideologico ma anche narrativo, che era comunque legato ai moduli e agli schemi dello sketch d’avanspettacolo: c’è sempre una tendenza all’autocompiacimento, a chiudere la scena con una battuta divertente, con una gag. Era un’operazione, mi pare, i cui punti di forza e i cui limiti coincidevano davvero con quelli dello sketch d’avanspettacolo. All’epoca tutto ciò poteva sembrare una novità nella misura in cui il cinema italiano era tutto confezionato secondo certi canoni della commedia, che so, ungherese... Insomma, il cinema italiano di fatto non esisteva. Il celebre cinema dei telefoni bianchi era forse un’astrazione, certamente interessante come documento sociologico o storico riguardante un certo periodo. Tutte le astrazioni possono risultare utili per esprimere qualcosa di individuale. Eppure ho l’impressione che quei film lì – lo dico con cautela perché non li ho mai più rivisti – non abbiano veramente nulla. Sono una cosa molto fragile, che non possiede nemmeno – non sto parlano dei film di Fabrizi ora, ma di altri film – quel quid di involontariamente poetico o curioso, quel carattere un po’ surreale che nasce dall’obbligo di realizzare un certo tipo di prodotto, una determinata confezione. Forse qualcuno dei film di Camerini conserva ancora qualcosa...
Anche alcuni film di Poggioli, mi sembra.
Poggioli era già uno che veniva dalla letteratura, quindi uno che nutriva un desiderio di impegno culturale, o perlomeno espressivo, più ampio, uno che faceva riferimento a una certa letteratura. Mi sembra che il cinema di quell’epoca non fosse impudentemente sano come può esserlo il cinema da saltimbanchi, da baraccone da fiera, il cinema fatto un po’ così; e d’altro lato non era neanche il prodotto del caso, forse un po’ stravagante, che talvolta può nascere proprio dall’evasione obbligata fuori dalla realtà o dall’ideologia. Non penso ci sia qualcosa che corrisponda a un carattere particolare e distintivo, in questo cinema: erano film da grandi magazzini, da Rinascente, dei prodotti fatti in serie senza altra finalità se non quella di divertire il pubblico tramite fantasticherie fra le più inoffensive e le più...
Non crede che questa mancanza di carattere sia anche conseguenza di un potente fenomeno di autocensura che ha colpito tanto i cineasti quanto gli sceneggiatori?
Certo. Quelli della mia generazione venivano da un altro tipo di attività, dal giornalismo, dall’avanspettacolo. La collaborazione a un progetto cinematografico veniva vista come una specie di regalo di Natale, un colpo di fortuna: si guadagnavano molti più soldi nel cinema che non nelle altre attività. Di fatto, rimanevo sempre sbalordito quando ricevevo gli anticipi per la collaborazione alla stesura di una sceneggiatura; erano somme superiori a quanto guadagnavo in un anno intero facendo il giornalista, forse lo sarebbero state anche se mi fossi messo a scrivere tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Pertanto, non saprei dire chi, fra di noi, si è avvicinato al cinema pensando che fosse un mezzo espressivo. Io no di certo!
In quel periodo cominciavano a lavorare per il cinema anche persone come Cesare Zavattini.
Sì, forse Zavattini... E però, quali sono i film di Zavattini girati in questo periodo che mostrano la presenza di una documentazione sulla realtà italiana, pur non costituendo un documento in sé? Darò un milione non è che una tavoletta alla Molnár [1].
Pensavo piuttosto a Quattro passi fra le nuvole di Blasetti.
Ma quel film non è poi così zavattiniano, la storia è di Piero Tellini. Ma anche qui... All’epoca il cinema francese era molto seguito, intendo il cinema verista francese, Carné, L’Herbier, Duvivier... Ricordo che noi italiani guardavamo questi film con ammirazione, queste storie che, per la prima volta, si svolgevano negli ambienti della malavita, in cui si vedevano delle prostitute... La scuola realista francese ci sembrava qualcosa di eccezionale. Nella nostra completa ignoranza, nella nostra totale chiusura, non riuscivamo a vedere i limiti letterari di quel tipo di cinema. Ci sembrava, rinchiusi e separati dal resto del mondo com’eravamo per via del potere fascista e di quello ecclesiastico, che fossero sul serio delle storie che parlavano della vita. La nostra ignoranza – o perlomeno la mia ignoranza, dato che è probabile che qualche mente più sottile avvertisse in effetti un che di inautentico in quelle pellicole – era così profonda che simili film ci conquistavano: quelle strade, quei vicoli, quella nebbiolina, quel senso disperato della vita... A dirla tutta, avvertivo tutto ciò come un po’ estraneo, ma fra le due forme di estraneità, quella dei telefoni bianchi e quella del conformismo da eroe maledetto alla Jean Gabin, mi sembrava di poter aderire a quest’ultima con un po’ di simpatia in più.
Quattro passi fra le nuvole e altri film erano emblematici di una certa tendenza al crepuscolarismo, al decadentismo e al pagnolismo [2]: la storia dei piccoli fatti quotidiani, dei sentimenti ordinari, il grigio tran tran della vita. Io ho anche collaborato alla realizzazione di Quattro passi fra le nuvole, come sceneggiatore insieme a Tellini. Cionondimeno, mi sembrava pur sempre qualcosa di falso. Oggi come oggi credo di poter dire che la nostra realtà non era quella. La realtà di allora era quella di Amarcord. Sì, Amarcord è un film che si sarebbe dovuto fare allora, avessimo avuto la consapevolezza e la capacità di osservare noi stessi con ironia, con distacco, magari anche con un po’ di disprezzo. Ad ogni modo, ripeto, queste mie chiacchiere sono un po’ ingenerose e forse ingiuste: al tempo andavo molto poco al cinema, dopo di che, da allora, non ho più rivisto quei film.
I bambini ci guardano di DeSica, o anche Ossessione di Visconti, sono film degli anni 1942-43. Lì il cambiamento rispetto alla descrizione che lei fa del cinema italiano è tangibile.
Vero, ma era già iniziata la guerra, erano cominciati i bombardamenti. Fra il 1940 e il 1942 succedono cose che fanno un po’ uscire gli italiani dalla loro bigotteria. Ci si comincia a rendere conto del fatto che questa sicurezza, questa pasqua continua, questi «littoriali» portavano dritti al disastro. C’erano i morti, le case sventrate...
Prima faceva riferimento al suo lavoro di giornalista al Marc’Aurelio. Che caratteristiche aveva quel giornale e quali ne erano i contenuti?
Il Marc’Aurelio era un giornale umoristico attorno al quale si erano riuniti diversi giornalisti provenienti da periodici che il fascismo aveva soppresso come Il becco giallo e L’asino, pubblicazioni politiche e anticlericali che sbandieravano un socialismo un po’ alla De Amicis e che il fascismo aveva ovviamente proibito. Molti dei collaboratori del Marc’Aurelio venivano quindi da questi giornali e si firmavano con un altro nome: Otto Smith, ad esempio, era in realtà Tomasino Smith, che dopo la liberazione sarebbe diventato direttore di Paese Sera per parecchi anni [3]. Smith lavorava sotto pseudonimo, scriveva anche testi di propaganda fascista, e questo fino a un anno prima della caduta del fascismo. Il gruppo del Marc’Aurelio era molto eterogeneo; al suo interno vi erano anche scrittori che occupavano livelli della scala gerarchica del regime molto elevati, come Celso Maria Garatti, che si firmava Temisto e che era a capo dell’Opera nazionale dopolavoro. Poi c’era il gruppo dei collaboratori più giovani: Steno, Marcello Marchesi, Ruggero Maccari, io...
Era un giornale che elaborava una satira dei costumi?
Sì. Ripensandoci, Giovanni Mosca in particolare possedeva, consciamente o meno, una particolare inventiva volta alla descrizione di situazioni o personaggi e un modo di scrivere caricaturale che potevano suonare molto corrosivi alle orecchie di chi avesse voluto coglierne l’intenzione di fondo. A una prima lettura questi testi di Mosca potevano sembrare provvisti solamente di un umorismo un po’ astratto, di tipo filologico, surrealista, sentimentale, mentre in realtà alcune rubriche avevano al contrario i tratti distintivi della satira affilata. Mi ricordo in particolare di un articolo di apertura comparso sul Bertoldo [4] che era particolarmente rivelatore. Mosca parlava del re che riceve tutti i suoi cortigiani – cortigiani nel senso più pieno del termine, pronti a dare ragione al sovrano – in un testo il cui intento satirico era assai evidente. Tuttavia, mi pare, la maggior parte di questi umori polemici non potevano essere sfogati liberamente e questo dissenso, questa fronda, trovavano quindi modo di esprimersi in una sorta di rivoluzione filologica, ovvero nel nonsenso. Era un ribellarsi, se non al conformismo in generale, perlomeno al conformismo della grammatica, della sintassi, al conformismo di un certo tipo di letteratura scolastica; ad esempio, si devono sempre alla penna di Mosca alcune parodie di De Amicis, o anche alcuni testi scritti «alla Carducci» o «alla D’Annunzio». In tal modo, sul versante filologico, semantico, si dispiegava una certa carica rivoluzionaria, anche se in modo senza dubbio molto tiepido.
Tenendo conto della censura, è abbastanza ovvio che la satira restasse molto allusiva.
Sì. Detto ciò, la censura era molto goffa, stupida, un po’ come tutto il fascismo. Anche i censori potevano benissimo essere ingannati; vedevano le cose più macroscopiche, più evidenti, ma erano sprovvisti del bagaglio mentale e culturale necessario per notare quelle un po’ più sottili. E comunque, in ogni caso erano italiani anche loro... I fascisti non venivano da un altro pianeta. Era stata l’Italia a produrre il fascismo, e con esso la solita approssimazione di sempre, il solito fondo di doppiezza, il solito tentativo di far quadrare tutto, perfino l’antifascismo salvo casi estremi, beninteso. Però qui rischio di avventurarmi su un terreno che in realtà conosco molto poco. Vorrei evitare che qualche amico pieno di furore smentisse quello che dico.
Ad ogni modo, non mi sembra che fosse in atto una vera e propria persecuzione. L’eterno spirito italiano, la crosta psicologica prodotta da una storia ormai millenaria, hanno avuto come conseguenza la tendenza a riequilibrare sempre tutto: la nostra tipica maniera di tenere sempre ogni cosa in sospeso, di rinviare a domani, i tempi lunghi della chiesa cattolica, tutto ciò esisteva già allora. Non c’era nulla di deciso, perché non si sa mai come cambia il vento, né chi sarà il nuovo padrone in futuro. Al di fuori di qualche capriccio frutto della crudeltà, della ferocia o della follia di qualche fanatico stupido che agiva in maniera brutale, che assassinava, che mandava la gente in carcere o agli arresti domiciliari, ho l’impressione che, in generale, anche sotto il fascismo i giudizi definitivi venivano rimandati a data da definirsi. Il fascismo non era il nazismo, era pur sempre qualcosa di provinciale, da sagra di paese... Ciò è talmente vero che questi giornalisti che avevano scritto per giornali satirici anticlericali e antifascisti, giornali che erano stati soppressi, erano quasi tutti passati in blocco al Marc’Aurelio, dove continuavano a scrivere con nomi diversi. Insomma...
C’erano anche degli sceneggiatori che lavoravano sotto pseudonimo.
Certo. Quest’atteggiamento tipicamente italiano può essere visto in due modi. Da un lato come una grande saggezza, come una forma di pietas cristiana e, dall’altro, tutto ciò può degenerare in una specie di doppiezza, di abiezione e di tendenza al compromesso più sfumato e più labirintico possibile – un’attitudine a far coesistere tutte le possibilità per evitare di impegnarsi, di assumersi una responsabilità definitiva. Questa caratteristica ci appartiene in pieno ed è riconoscibile nell’assenza di responsabilità personale: c’è sempre qualcuno che sta più in alto. Per questa via si arriva dritti al Padre eterno. La conseguenza è che tutto ciò che siamo chiamati a fare lo facciamo salvando capra e cavoli. Quest’equilibrio fra abiezione e negazione della stessa rappresenta una corsa a ostacoli continua nella quale l’italiano, il tipo psicologico dell’italiano, può talvolta anche dare il meglio di sé.
Vito De Bellis, il direttore del Marc’Aurelio, era antifascista?
No, non mi sembra che fosse antifascista. Era prima di tutto un vero direttore. Nello schematismo che ci circondava, nella semplificazione estrema, fino alla povertà intellettuale, di ogni punto di riferimento rispetto a ciò che poteva essere la vita e il rapporto con essa, De Bellis era un direttore eccellente. Era in grado di fiutare i talenti, certo in maniera un po’ rozza ma con istinto piuttosto sicuro; sapeva intimidirli al punto giusto creando un clima un po’ da scuola, da caserma. E noi, con lui, stavamo bene. Personalmente sento molta gratitudine nei confronti di questo direttore. Credo sia l’unica persona a cui continuo ancora a dare del lei quando la incontro, tanto mi è rimasta impressa quest’immagine di un’autorità bonaria ma allo stesso tempo capace di stabilire delle regole, dei limiti, una disciplina. Insomma, fondamentalmente, su un piano emotivo, ho un ricordo del Marc’Aurelio molto simpatico, protettivo; era una specie di grande famiglia un po’ bizzarra, piena di nonni che erano come tutti li avremmo voluti quand’eravamo bambini, dei nonni che dicono le parolacce, che parlano della passera, dell’uccello, che fanno disegnini divertenti. Al Marc’Aurelio c’erano dei nonni e dei padri di quelli che piacciono ai bambini. Si stabiliva quindi quel tipo di complicità che c’è fra compagni di scuola, come fossimo in una grande classe autorizzata a fare un sacco di stupidaggini, o meglio, pagata per fare stupidaggini o per fare qualsiasi cosa andasse contro il lecito, il legittimo, i tabù. Tutto ciò, comunque, entro i limiti un po’ infantili che caratterizzavano ogni cosa che si faceva allora: una visione delle cose molto edulcorata, semplicistica, un po’ sciocca, stupida e, come tale, anche un po’ atroce, a volte. La stupidità è sempre malvagia; c’erano quindi sempre dei tratti di cattiveria, proprio nella misura in cui quest’ultima è il prodotto della stupidità.
Se non sbaglio è dall’esperienza del Marc’Aurelio in poi che lei comincia ad avere i primi contatti con il mondo del cinema.
Sì, ho cominciato come gagman di Macario. Ad ogni modo, lì la collaborazione era anche più strana di quella con Fabrizi. Ci davano una sceneggiatura già pronta, scritta da altri giornalisti del Marc’Aurelio, da Steno, ad esempio, che era anche diventato l’assistente di Mario Mattoli. Non ricordo bene se fu Macario stesso o Mattoli a dire per primo: «Perché non facciamo leggere queste sceneggiature a tutta la redazione, in modo da aggiungere nuove gag?». È in questo modo che ho cominciato a intervenire su una prima sceneggiatura, Imputato, alzatevi!, mi sembra. O forse si trattava di Il pirata sono io!...
Cronologicamente, il primo film di Macario diretto da Mattoli è Imputato, alzatevi!...
Un giorno ci diedero dunque la sceneggiatura di Imputato, alzatevi!, insieme a un anticipo che già da solo aveva un che di prodigioso. Mi misi al lavoro insieme a Ruggero Maccari e infilammo nel testo, in maniera del tutto avventata e senza avere la minima idea del ritmo della scena, alcune battute, trovate, gag, un po’ come se stessimo facendo delle caricature per il giornale. Alcune battute più divertenti ci vennero comprate.
A rivederli oggi, questi primi film di Macario risultano ancora divertenti.
Io non li ho mai più rivisti. Erano film che richiedevano esattamente ciò che i collaboratori del giornale sapevano fare, ciò per cui erano allenati, vale a dire giochi di parole, battute, trovate surreali...
Oltre alle tre sceneggiature scritte per Fabrizi lei ha collaborato a diversi film in quegli anni, ad esempio a Documento Z 3 di Alfredo Guarini, la cui sceneggiatura è stata scritta, fra gli altri, anche da Zavattini.
Sì, con Zavattini, ma anche in quel caso si è trattato di una collaborazione molto esteriore. Non lo dico per rinnegare alcunché, ma proprio per un senso di giustizia. Si trattava di un lavoro molto meccanico, di una collaborazione distaccata, di gruppo, che si accompagnava a ben poca partecipazione e scarso entusiasmo personali. Un testo scritto per un giornale, un disegno fatto per un giornale, con in calce la propria firma, è un qualcosa in cui ci si rispecchia, anche tenuto conto di limiti molto restrittivi come quelli dati dall’età, dall’ignoranza, dal pressappochismo, dall’assenza di una vera cultura. Malgrado il suo lato «goliardico», avventuroso, si tratta pur sempre di ciò che sapete fare. La collaborazione con il cinema faceva emergere probabilmente un po’ più di malumore dal momento che implicava un coinvolgimento minore.
Compare ancora il suo nome sulle sceneggiature di Chi l’ha visto? di Goffredo Alessandrini, di Quarta pagina di Nicola Manzari e Domenico Gambino e di Apparizione di Jean de Limur.
Non mi ricordo assolutamente di Apparizione. Quarta pagina era un film a episodi. Ho scritto con Tellini il soggetto e la sceneggiatura di Chi l’ha visto?. Ho fatto tanti film come autore del soggetto e della sceneggiatura. Io e Tellini ne abbiamo diversi scritti solamente da noi due. Non mi chieda i titoli perché non me li ricordo. Ho collaborato a diverse sceneggiature in quel periodo, dieci o dodici all’anno, e in molti casi senza neanche firmarle. Facevamo anche un lavoro da schiavi: scrivevamo sceneggiature che poi venivano firmate da altri.
Pensavo che con Piero Tellini le capitasse di scrivere sceneggiature un pò più personali.
Sì, ma sempre facendo riferimento al testo scritto. Non c’era mai neanche l’ombra del cinema, delle immagini. Ricordo che quando andavo a vedere questi film non somigliavano mai a ciò che avevo immaginato in fase di scrittura. Sentivo gli attori che dicevano battute che erano state ideate da me, eppure il viso di colui che le pronunciava non aveva alcun rapporto con ciò che mi ero immaginato. La situazione, le luci... Era sempre un’altra cosa, una cosa che somigliava solo vagamente alle immagini che venivo evocando mentre scrivevo o, viceversa, alle immagini che avevano fatto nascere la redazione teatrale.
In che modo è poi passato a un’attività più significativa nella quale si è sentito maggiormente coinvolto nella creazione cinematografica?
I mutamenti della mia vita non li ho mai capiti troppo bene. Dal mio punto di vista non ci sono mai stati veri e propri atti di volontà, di consapevolezza di ciò che stava succedendo. Ho l’impressione di esser sempre stato messo di fronte alle cose definitive, o perlomeno a quelle che hanno poi avuto uno sviluppo enorme nella mia vita, finendo addirittura per identificarsi con essa, un po’ così, distrattamente, per caso. Ho la stessa impressione anche in relazione al fatto di essere diventato regista. Dopo aver conosciuto Rossellini e Pinelli mi sono messo a fare lo sceneggiatore in maniera un po’più seria. Negli anni del dopoguerra sono nate diverse sceneggiature. Quel momento è stato una rinascita, in tutti i sensi, ma lei sta facendo riferimento al periodo precedente, dunque... Dopo la guerra c’è stato un impegno maggiore; dopo Roma città aperta il cinema è diventato più serio.
È stato quando si è trattato di lavorare a Roma città aperta che ha conosciuto Rossellini?
No, lo conoscevo già. L’ho conosciuto all’Aci [Alleanza cinematografica italiana], una società di produzione cinematografica diretta dal figlio di Mussolini, Vittorio. Contemporaneamente al lavoro al Marc’Aurelio facevo infatti parte dell’ufficio dell’Aci che si occupava dei soggetti. Venni anche mandato in Africa per rivedere la sceneggiatura di un film intitolato Gli ultimi tuareg. Non credo sia mai stato portato a termine: gli inglesi dell’ottava armata avanzarono e le riprese vennero interrotte. Da un certo punto di vista, meno male che furono interrotte!
Potrebbe descrivere in maniera un po’ più dettagliata le circostanze di questo viaggio in Africa?
Fu un’avventura memorabile, un sogno. Dunque, all’Aci io avevo uno stipendio, ero un impiegato assunto in pianta stabile dalla società. Facevo parte dell’ufficio che si occupava dei soggetti. Dovevo leggerli, leggere dei libri, dare dei pareri, rivedere le sceneggiature, scriverne... Era un’attività a tempo pieno e avevo anche un orario: ci andavo poco, visto che lavoravo ancora al Marc’Aurelio, ma avevo pur sempre un orario. In quel periodo ero stato esonerato dal servizio militare. Si trattava di un esonero dovuto un po’ alla corruzione e un po’ al fatto che non godevo di una salute granché buona. Oltre a ciò, ero iscritto all’università, ero giornalista, tutta una serie di giustificazioni che diventavano però sempre più fragili con l’aggravarsi della situazione militare. A un certo punto Vittorio Mussolini mi disse, o forse mi fece dire, che dovevo prendere l’aereo e andare a Tripoli per rimettere in sesto una sceneggiatura. Io non ne avevo la minima voglia e, oltretutto, in quel periodo ero innamorato di una soubrette straordinaria e non mi andava di separarmi da lei. Dopo di che, a causa della situazione in cui mi trovavo, la cosa mi venne formulata un po’ in termini di ricatto, di minaccia: se non andavo in Libia i permessi di convalescenza di cui godevo per evitare il servizio militare rischiavano di scadere e sarei dovuto partire, che so, per l’Albania, la Grecia o la Russia. Fu così che mi misi in viaggio, ma veramente a malincuore e avendo la sensazione di subire violenza.
Quando sono arrivato mi sono sistemato in albergo, un hotel disorganizzato e deserto, mentre piovevano bombe dal cielo e colpi di cannone dal mare, e anche da terra, visto che c’era l’ottava armata che stava avanzando. A volte mi recavo presso la troupe cinematografica che girava in zone predesertiche, difficili da raggiungere. Era uno strano film, del quale sapevo molto poco: Gli ultimi tuareg, ispirato a un libro di Emilio Salgari, I predoni del Sahara, la sceneggiatura, le situazioni, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida... Una notte, mentre seguivo le riprese, ci fu una tempesta di vento, il Simun. Fu un’esperienza incredibile. Fummo tutti invitati a metterci al riparo sotto delle grandi tende. C’erano degli arabi, tutti molto preoccupati, che davano ordini con delle grida da circo. Siamo rimasti lì, con la faccia nella sabbia, sotto le tende, mentre il vento urlava, per circa un’ora o un’ora e mezza. Quando abbiamo ricominciato a sentire le grida degli arabi che avevano diretto le operazioni – questa specie di difesa consistente nel dileguarci sotto le tende, appiccicati l’uno all’altro – siamo usciti. Il paesaggio era cambiato completamente: dove prima c’era un orizzonte piatto, ora c’era una gobba, dove c’era una collinetta, ora era sparita. Il camion non c’era più. Tutto era stato seppellito sotto la sabbia, veramente una specie di sogno.
All’improvviso tutta la troupe venne invitata ad abbandonare rapidamente la Libia perché le linee aeree civili avevano smesso di funzionare. L’attraversamento in volo di quel pezzo di mare nostrum – che non era più tanto nostro – era diventato estremamente pericoloso. Si svolse allora una scena retorica, come in un film di serie b: decidemmo di tirare a sorte fra di noi per stabilire chi sarebbe partito e chi no. Se non ricordo male, l’ultimo apparecchio in partenza appartenente all’aviazione civile – si trattava della Lai, mi sembra, le Linee aeree italiane [5] – era dotato di soli quaranta posti. Franco Riganti, il direttore di produzione del film, amava queste scene melodrammatiche, questa teatralità eroica. Il sorteggio ebbe luogo di notte, dopo che ciascuno ebbe scritto il suo nome su un foglietto di carta. All’ultimo momento, preso da qualche strano capriccio e suggestionato dall’atmosfera che regnava, ho dichiarato che non sarei partito: «Lascio il mio posto a quelli che hanno famiglia, a quelli che sono sposati». In realtà mi rifiutavo di mettere il mio nome dentro un casco coloniale in mezzo a quelli degli altri, come se stessimo facendo una riffa. L’ascensorista dell’albergo, un giovane arabo dagli occhi grandi, era stato incaricato di estrarre i bigliettini e di leggere i nomi, fino a quaranta. Quelli che sarebbero restati sul fondo del casco non sarebbero partiti. Io mi ero appunto ritirato; Luigi Giacosi, che anni dopo sarebbe diventato il mio direttore di produzione per I vitelloni e per La strada, rimase con me, come anche l’attore Guido Celano. Chissà che avevamo in testa, pensavamo che gli inglesi sarebbero arrivati e non immaginavamo che ci avrebbero fatto prigionieri; credevamo che il nostro gesto eroico avrebbe comportato qualche riconoscimento da parte del capo dell’ottava armate britannica, il generale Montgomery. Io, poi, in piena affabulazione, mi immaginavo pure un incontro personale con Montgomery... In generale, eravamo quasi sempre un po’ ubriachi. La paura dei bombardamenti, la solitudine, il fatto di dover trovare spesso rifugio nelle cantine di quel grande albergo, la presenza di Osvaldo Valenti che già all’epoca aveva probabilmente la tendenza a sovraeccitarsi sotto l’effetto della droga, tutto ciò era causa di una specie di stordimento e liberava la fantasia, l’immaginazione. Dopo tre giorni pensammo anche noi che era il caso di tornare in Italia. Vendendo i tappeti e i braccialetti d’argento che avevamo acquistato con i rimborsi giornalieri delle spese di soggiorno riuscimmo a trovare due tedeschi che accettarono, in cambio di tutto il denaro che avevamo, di trasportarci in Sicilia su un piccolo aereo militare. Facemmo così il viaggio di ritorno volando a soli due metri dall’acqua, per confonderei col mare. Una fortezza volante americana ci accompagnò per tutta la traversata; riuscivamo a vederla, a 20 mila metri d’altezza, con la sua grossa stella bianca sulla pancia. Forse non ci aveva avvistato. Abbiamo viaggiato dentro un aereo che era circa un quarto di questa stanza, seduti in terra nella carlinga, sballottati insieme a due tedeschi, uno alla guida dell’apparecchio e l’altro alla mitragliatrice, costantemente puntata sulla stella dell’aereo americano. Siamo così arrivati in Sicilia, a Castelvetrano, in pieno bombardamento. Era veramente l’inferno: siamo scesi dall’aereo e ci siamo messi a correre per metterci in salvo.
Ho letto sulla rivista Cinema che Gli ultimi tuareg avrebbe dovuto segnare l’esordio alla regia dell’attore Osvaldo Valenti.
Non ricordo molto bene. Il regista era Gino Talamo, un uomo con due grandi occhi miti che era stato attore anche lui. In un secondo momento gli venne affiancato un altro regista, un tal Barboni. Costui era tornato dall’America, e per il semplice fatto che era stato un po’ di tempo negli Stati Uniti – chissà a far cosa, poi – godeva di un’autorità particolare. Gli italiani che hanno vissuto in America tornano in genere parlando un italiano un po’ storpiato. Barboni infatti ripeteva spesso: «Come si dice in italiano...?». Noi veramente non ci capacitavamo del fatto che quest’uomo, originario di Sora, il paese di De Sica, avesse potuto all’improvviso dimenticare questa o quella parola... Più tardi anche Franco Riganti si improvvisò a sua volta regista. Insomma, c’erano ben tre persone a dirigere il film: fu quindi giusto che venissero cacciati tutti e tre dall’arrivo della guerra. Di quelle riprese ricordo soprattutto Guido Celano che, ricoperto da un ampio telo – recitava il personaggio di un arabo traditore – doveva imitare il verso dello sciacallo. Questa cosa ci faceva morire dal ridere, innanzitutto perché Celano, con i suoi grossi sandali, camminava a fatica sulla sabbia, poi perché incespicava con i piedi nel telo e infine perché doveva posizionarsi in prossimità di una duna, di notte, per far sì che la sua sagoma si stagliasse in controluce nel cielo notturno. Una volta lì, sempre stando alle indicazioni che gli davano i tre registi, doveva mettersi a ululare...
Per tornare alla sua domanda, non mi pare che Valenti abbia preso parte alla regia del film, era soltanto uno degli attori. C’era anche Luisa Ferida che era già incinta, poverina, molto stanca, esausta... una situazione di glorioso disastro, una débàcle totale. Era la fine di tutto, una fine beffarda: ce ne stavamo lì a fare cinema con Guido Celano che ululava alla luna imitando il verso dello sciacallo...
Dunque è all’Aci che lei ha conosciuto Roberto Rossellini.
Esattamente. Rossellini stava all’Aci e io l’ho visto affacciato alla finestra della stanza vicina alla mia. Ho sentito qualcuno che parlava, mi sono affacciato a mia volta e ho visto quest’uomo, col suo naso aguzzo e il suo mento puntati in avanti... Parlava con qualcuno giù in strada. Ci siamo guardati come due vicini, due persone che si incontrano ai finestrini del treno, abbiamo cominciato a chiacchierare e dopo un po’ lui è venuto nella mia stanza. Quindi, sì, è lì che l’ho conosciuto.
Ritiene che il suo incontro con Rossellini sia stato qualcosa di fondamentale?
Per quel che riguarda il cinema sì. In maniera inaspettata ho capito che si poteva fare cinema con la stessa scioltezza e la stessa libertà espressiva di cui si dispone quando si scrive o si disegna. Tutta la macchina tecnica, tutto l’apparato logistico avevano sempre avuto su di me un effetto paralizzante perché sentivo che era necessaria un’autorità da persona che sa comandare e anche una voce per comandare, tutte cose che non pensavo di possedere. Soprattutto, mi sembrava di essere sprovvisto del tono di voce giusto per fare il regista, per urlare, imprecare. E invece, con Roberto, seguendo dapprima in maniera un po’ vaga le riprese di Roma città – aperta talvolta mi recavo sul set insieme a Sergio Amidei, ma ero sempre distratto, distaccato e mantenevo molto le distanze – e poi, successivamente, quelle di Paisà, ho cambiato atteggiamento verso il cinema. Per Paisà mi sono messo al seguito di Rossellini non come assistente alla regia ma come sceneggiatore volante. Quel film è stato per me un’esperienza fondamentale. Innanzitutto dal punto di vista della scoperta del mio paese; prima di allora non l’avevo visto se non sporgendomi talvolta dal finestrino di qualche treno omnibus col quale andavo in Calabria o in Puglia al seguito di una compagnia di rivista. Oltre a Rimini e a Roma non conoscevo granché, non sapevo cosa fosse l’Italia. Una volta avevo passato un intero giorno a Napoli, ma senza capire nulla. Al contrario Paisà – le cui riprese hanno comportato diversi spostamenti della troupe: Napoli, tutta la costiera amalfitana, Roma, Firenze e poi fino al Po – è stata un’esperienza totale, vissuta giorno per giorno con profonda emozione, in uno stato di eccitazione permanente. Ma soprattutto, con Paisà ho scoperto che il cinema poteva aspirare allo stesso grado di personalizzazione espressiva della scrittura. I condizionamenti cui andava soggetta la capacità espressiva, che mi erano sempre sembrati insormontabili, si rivelavano invece superabili: nel cinema era veramente possibile scegliere un aggettivo, dare un ritmo alla frase... Osservavo Rossellini che girava in tutta libertà in mezzo a un’Italia ancora sconvolta. Ho qui il testo di un libro che sarà pubblicato da Einaudi; si tratta di interviste e discorsi che ho fatto, talvolta in maniera anche un po’ sconsiderata. Vuole che le legga il brano in cui parlo delle riprese di Paisà?
Volentieri.
«[...] Andavo sul set per modificare situazioni o battute, e mi meravigliavo che il regista potesse avere rapporti distaccati con le attrici. Mi riusciva difficile di scrivere un dialogo in quella confusione; sentivo terribilmente il disagio del lavoro collettivo, tutti insieme a fare una cosa e parlando forte. Eppure, è andata a finire che riesco a lavorare bene solo nella confusione, come quand’ero giornalista e scrivevo gli articoli all’ultimo momento nel caos della redazione.
Mi ritrovai più a mio agio nei film girati fuori, all’aria aperta. In questo davvero Rossellini fu un iniziatore. L’esperienza con Rossellini, il viaggio di Paisà, rappresentò per me la scoperta dell’Italia. Fino a quel momento non avevo visto gran che: Rimini, Firenze, Roma e qualche cittadina del Meridione intravista quando stavo in giro con l’avanspettacolo, borghi e paesi chiusi in una notte medievale come quelli conosciuti da ragazzo, solo con dialetti diversi. Mi piacque il modo che aveva Rossellini di fare il cinema come un viaggio piacevole, una scampagnata di amici. Fu quello, mi pare, il seme buono.
Seguendo Rossellini mentre girava Paisà mi parve improvvisamente chiaro, una gioiosa rivelazione, che si poteva fare il cinema con la stessa libertà, la stessa leggerezza con cui si disegna e si scrive, realizzare un film godendolo e soffrendolo giorno per giorno, ora per ora, senza angosciarsi troppo per il risultato finale; lo stesso rapporto segreto, ansioso ed esaltante che uno ha con le proprie nevrosi; e che gli impedimenti, i dubbi, i ripensamenti, i drammi, le fatiche, non erano poi molto diversi da quelli che soffre il pittore quando cerca sulla tela un tono e lo scrittore che cancella e riscrive, corregge e ricomincia, alla ricerca di un modo espressivo che, impalpabile e sfuggente, vive nascosto tra mille possibilità. Rossellini cercava, inseguiva il suo film in mezzo alle strade, con i carri armati degli alleati che ci passavano a un metro dalla schiena, gente che gridava e cantava alle finestre, centinaia di persone intorno che cercavano di venderci o di rubarci qualcosa, in quella bolgia incandescente, in quel formicolante lazzaretto, che era Napoli, e poi a Firenze e a Roma e negli sconfinati acquitrini del Po, con problemi di ogni tipo, permessi revocati all’ultimo momento, programmi che saltavano, misteriose sparizioni di danaro, nel girotondo frastornante di produttori improvvisati sempre più avidi, infantili, mentitori, avventurieri.
[...] Ecco, da Rossellini mi pare di avere appreso – un ammaestramento mai tradotto in parole, mai espresso, mai trasformato in programma – la possibilità di camminare in equilibrio in mezzo alle condizioni più avverse, più contrastanti, e nello stesso tempo la capacità naturale, di volgere a proprio vantaggio queste avversità e questi contrasti, tramutarli in un sentimento, in valori emozionali, in un punto di vista. Questo faceva Rossellini: viveva la vita di un film come un’avventura meravigliosa da vivere e simultaneamente raccontare. Il suo abbandono nei confronti della realtà, sempre attento, limpido, fervido, quel suo situarsi naturalmente in un punto impalpabile e inconfondibile tra l’indifferenza del distacco e la goffaggine dell’adesione, gli permetteva di catturare, di fissare la realtà in tutti i suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori contemporaneamente, di fotografare l’aria intorno alle cose, di svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita. Il neorealismo non è forse tutto questo? Perciò, quando si parla di neorealismo ci si può riferire solo a Rossellini. Gli altri hanno fatto del realismo, del verismo, o hanno tentato di tradurre un talento, una vocazione, in una formula, in una ricetta.
E negli ultimi film, in quelli fatti perché aveva preso un anticipo o perché [...]» [6]. Ma insomma, ora sto parlando un po’ troppo di Rossellini...
Un’ultima domanda: alla fine della guerra in quali circostanze ha ritrovato Rossellini e Aldo Fabrizi per la realizzazione di Roma città aperta? Rossellini venne a cercarmi nella bottega in cui disegnavo caricature, il «Funny Face Shop». Io non avevo alcuna intenzione di fare cinema, poiché mi guadagnavo da vivere abbastanza bene facendo le caricature. Lui voleva girare un documentario a partire da una piccola sceneggiatura, scritta da Alberto Consiglio, che rievocava la vita e la morte di don Morosini, un prete fucilato dai nazisti. Mi venne a trovare perché io conoscevo bene Fabrizi e gli scrivevo alcuni testi. In quel periodo Fabrizi recitava in alcune commedie alla Sala Umberto. Erano degli sketch, delle farse ispirate all’attualità, ma sempre un’attualità folcloristica: storie di mercato nero, di piccoli trafficanti eccetera... Rossellini voleva che io convincessi Fabrizi ad accettare il ruolo di don Morosini. Roberto aveva in cantiere anche un altro progetto, voleva fare un film sui bambini di Roma durante la guerra. Parlandone tutti insieme – c’era anche Sergio Amidei – abbiamo pensato di unire le due cose. Ho collaborato al film in maniera poco convinta. Ricordo che io e Sergio scrivemmo la sceneggiatura nel giro di qualche notte, rapidamente. In realtà la guerra non era ancora finita, perché al Nord si continuava a combattere.*
* Colloquio registrato nel 1977 nell’ufficio di Fellini nei teatri di posa dell’Aventino e uscito in francese su Positif, n. 244-245, luglio-agosto 1981.
‘Cinecittà, una parola magica’
Cosa le viene in mente quando sente pronunciare la parola «Cinecittà»? Posso dirle che cosa mi veniva in mente le prime volte che l’ho sentita. Era qualcosa di oltremodo favoloso, un po’ come se domandaste a un medico o a qualcuno che sente di avere una vocazione per la medicina cosa significano per lui le parole «policlinico» o «ospedale», o come se chiedeste a un bambino che ha una vocazione religiosa cosa evoca in lui il sentir parlare del Vaticano o della basilica di San Pietro. Quando ero piccolo questo seguito di sillabe, questa parola, «Cinecittà», evocavano, probabilmente in maniera oscura, l’idea di una specie di città nella quale desideravo abitare, di una dimensione che avrebbe fatto parte della mia vita. Dal punto di vista della seduzione, di un’attrattiva esteriore, si trattava della città del cinema, dunque della città delle attrici, delle dive. La mia generazione è nata con il mito del cinema americano. Siamo stati tutti affascinati dalle star di Hollywood, da Clark Gable, Gary Cooper eccetera... Per me, che abitavo a Rimini, una cittadina di provincia, il fatto di sapere che anche in Italia c’era una Cinecittà, vale a dire qualcosa di simile a Hollywood, era motivo di grande eccitazione, di grande seduzione. Di fatto, quando sono venuto a Roma per fare il giornalista avevo diciotto o diciannove anni ho fatto in modo che mi assegnassero da fare delle interviste ad attori e registi cinematografici proprio per poter andare a Cinecittà.
Ricordo ancora la prima volta che sono arrivato, in tram, un piccolo tram che partiva dalla stazione ferroviaria, si lasciava alle spalle la città e attraversava chilometri e chilometri di campagna in mezzo alle rovine di un acquedotto romano. Alla fine compariva questa specie di costruzione che assomigliava veramente a un ospedale o a una città universitaria e, invece, aveva quel nome magico, Cinecittà. Mi ricordo dell’emozione che provai la prima volta che entrai, in mezzo a portieri gallonati e avvolti in palandrane che ricordavano quelli dei grandi alberghi, e poi il primo incontro con la grande macchina del cinema.
Ricordo che in quel momento c’era Blasetti, il Regista con la R maiuscola, intento alle riprese, se non ricordo male, di La corona di ferro. Sono quindi piombato in mezzo a una dimensione cinematografica molto italiana: le comparse vestite da antichi romani, le grandi scenografie, i colonnati, i templi, le scalinate di marmo, una sorta di Quo vadis? fatto in casa, di Ben Hur laziale, e al centro di tutto questo polverone fatto di comparse vocianti, soldati, schiavi, cocchieri tirati da cavalli, al di sopra di questa marea di persone a un certo punto ho visto alzarsi il braccio di una gru che saliva, saliva, sempre più in alto e, su questa gru, c’era il regista, il regista nella sua massima espressione di apoteosi, la più trionfante, coperto di fischietti, visori, megafoni, medaglie e con tanto di visiera, stivali e frustino, e quello era Blasetti, era il regista che si innalzava sempre di più, che saliva verso il sole, verso le nuvole...
In seguito Cinecittà è veramente diventata la mia città. Spesso, quando qualche amico giornalista mi domanda in quale città avrei voluto nascere, la risposta nasce abbastanza spontanea: «Cinecittà». È la dimensione per me più congeniale, qualcosa di simile, come dicevo prima, all’ospedale per il medico, al palazzo di giustizia per l’avvocato. Se non mi ferma posso continuare, posso andare avanti a dire stupidaggini all’infinito...
Nei suoi primi film, ad esempio Lo sceicco bianco e La strada, ci sono molti esterni; poi, a poco a poco, lo studio diventa sempre più importante, fino ad arrivare a E la nave va, che è tutto girato utilizzando scenografie artificiali. In che modo si è andata sviluppando l’importanza crescente dello studio cinematografico, del teatro di posa, nel suo lavoro?
Anche in Lo sceicco bianco, in realtà, ci sono delle sequenze girate a Cinecittà, ad esempio tutte quelle in cui viene utilizzato il trasparente [7]; tutta la scena del mare è stata girata nel teatro di posa – ora non ricordo più che numero avesse – in cui c’era l’apparecchio di proiezione per il trasparente. Anche nei Vitelloni ho girato qualcosa a Cinecittà. La tendenza a girare in studio è nata in relazione a esigenze espressive, nel senso che progredendo nella conoscenza di me stesso e cercando di esprimermi in maniera sempre più personale mi è sembrato – o meglio, ne ero sicuro – che il teatro di posa mi avrebbe permesso di realizzare le immagini che avevo in mente esercitando un controllo maggiore, con più rigore.
Il cinema è fatto di immagini. Il cinema è un’immagine, e l’immagine la si mette a punto servendosi della luce, perché è la luce che crea l’immagine. In questo senso penso che il cinema abbia veramente uno stretto legame con la pittura e quindi anche con la luce. La luce in uno studio la si può esigere, controllare, modellare... ci si può esprimere con la luce; in esterno tutto ciò diventa più complicato. E tuttavia, a parte questo problema della luce che è secondo me la manifestazione primaria e più preziosa del cinema e dell’immagine cinematografica, c’è anche tutto ciò che ha a che fare con l’espressione, i volumi, le prospettive, le proporzioni delle cose che devono essere espressi in un certo modo, con determinate peculiarità. Penso che lo studio sia l’ambiente nel quale l’immagine che abbiamo immaginato può essere realizzata esercitando un controllo completo, in maniera simile a quanto fa il pittore utilizzando il pennello sulla tela. Può affiancare l’uno all’altro i vari colori, le varie tonalità, tener conto delle distanze, delle trasparenze, dei punti della prospettiva. Analogamente, nello studio le scenografie possono essere realizzate in maniera più rigorosa, più rispondente a ciò che si vuole veramente fare. Nella misura in cui l’espressione cinematografica è realmente un artificio, una finzione, è normale che si tenda a realizzare tutti i film in teatro di posa. Artificio e finzione riescono in quel contesto a raggiungere una maggiore precisione, una maggiore verosimiglianza, una maggiore fedeltà all’immagine di fantasia che uno ha dentro di sé.
Costruire un mare di plastica la diverte?
Non è questione di divertimento. Credo che ogni atto espressivo riempia il suo autore di un’energia vivificante, e in tal senso può forse essere anche considerato un divertimento. Si tratta sempre di un grande gioco, di un teatro delle marionette, di ombre cinesi, di un modo di dipingere, di una maniera di partecipare gioiosamente a quell’attività semidivina che è la creazione. In tutto ciò c’è un’esaltazione di sé, del proprio ego... C’è qualcosa di gratificante. Si tratta del divertimento sperimentato dal bambino quando gioca. Il mare di plastica è un’esigenza espressiva. Il vero mare è il vero mare, e può rivelarsi il meno vero di tutti perché manca un sentimento preciso. In E la nave va, come anche nel mio Casanova o in Amarcord, ho pensato che anche il mare fosse un elemento incontrollabile. Se si vuole conferire al mare un sentimento – il sentimento per cui quello è un mare di un certo tipo – lo si può fare solo utilizzando materiali che possano essere illuminati in un certo modo fino a renderli carichi, densi di sentimento. A prescindere dai tanti altri problemi connessi con la possibilità di controllare la maniera in cui ci si esprime, lo studio è il luogo più protettivo, la costruzione più adeguata per potersi poi abbandonare ai giochi espressivi della luce, dei colori, delle prospettive, degli oggetti vicini e lontani, in breve per evocare il mondo che si è immaginato e per renderlo concreto.
Quando gira nel quartiere monumentale dell’Eur, a Roma, in genere lo utilizza come fosse una scenografia realizzata in uno studio cinematografico...
L’Eur, con i suoi grandi cubi di marmo, la sua linearità, dà quest’immagine di città metafisica, alla de Chirico. È un quartiere disegnato a tavolino, che sembra la materializzazione di una planimetria e allo stesso tempo fa venire in mente certe città di de Chirico, con il verde della vegetazione e l’azzurro del cielo, il suo orizzonte piatto e i suoi volumi, le sue costruzioni verticali. È per questo che ha un che di scenografico, un qualcosa che ricorda un artefatto realizzato in studio, una scenografia cinematografica. È in questo senso che l’Eur può richiamare alla memoria le visioni dello scenografo. Ho girato diverse sequenze in esterno all’Eur, e ho anche ricostruito artificialmente il quartiere nell’episodio di Boccaccio ’70, rifacendolo praticamente tutto in miniatura, un plastico molto grande all’interno del quale Anita Ekberg doveva sembrare gigantesca: poiché era una proiezione dei complessi d’inibizione sessuale di Peppino De Filippo, doveva muoversi come fosse una grande divinità. Il quartiere aveva quindi dimensioni ridotte in modo da farla sembrare un colosso. All’Eur ho girato anche alcune scene di La dolce vita. Si tratta di una zona che mi affascina per via di questa sua capacità di suggestione scenografica.
Quando lavora in studio, che tipo di rapporto ha con lo scenografo, il costumista, il direttore della fotografia?
Un rapporto dispotico, dittatoriale, di autorità assoluta: devono fare quello che dico! [ride] In realtà, ho con loro un rapporto eccellente, si tratta di amici. Lo scenografo e il direttore della fotografia sono il braccio destro e quello sinistro dell’autore, sono le sue dita, i suoi occhi. Con loro ho un rapporto di collaborazione costante molto stretta, mi esprimo attraverso di loro. In alcuni casi sono anche più importanti dello sceneggiatore. In studio ha luogo la concretizzazione di qualcosa che esisteva solo nella sfera dell’immaginazione. È ora arrivato il momento di tradurla in legno, ferro, luci, colori, stoffe... Lo scarabocchiare, il disegnare, mi aiutano molto; mi sembra in tal modo di riuscire a esprimermi in maniera più pertinente, di dare ai miei collaboratori, e anche all’operatore, delle indicazioni grafiche, pittoriche, più immediate. Sono ormai diversi anni che lavoro con Peppino Rotunno, con il quale si è instaurato un rapporto di grande armonia, di grande intesa. In tutto questo lavoro, si crea una relazione simile a quella che il pittore stabilisce con i colori, i pennelli, la tavolozza, la biacca...
La sua immaginazione e la sua fantasia trovano il modo di esprimersi nella maniera più naturale in studio, piuttosto che in esterno.
Sì. Dato il tipo di storie che racconto o che ho intenzione di raccontare, mi sembra di riuscire a essere più preciso, di non affidare nulla al caso o a quell’elemento inafferrabile che caratterizza sempre qualsiasi operazione creativa che vada incontro a una diffusione mediatica implicante l’uso di macchine e di una serie di processi il controllo dei quali si fa via via meno rigoroso: il laboratorio, lo sviluppo, la stampa, le copie... Interviene tutta una serie di operazioni suscettibili di alterare, intiepidire e mortificare gradualmente l’intenzione originale. In un teatro di posa è possibile esercitare un controllo maggiore di quanto non si possa fare affidandosi alla luce del sole, che muta in continuazione e non può essere controllata nonostante tutti i riflettori o tutti i sistemi che abbiamo a disposizione per cercare di mitigarla o di renderla più scintillante. Ciò non significa che certe scene girate alla luce naturale non possano restare fedeli a ciò che si è immaginato, affidandosi alla realtà che uno sceglie. Si può anche intervenire sulla realtà, si può tentare di renderla più simile, da un punto di vista espressivo, a quella immaginata.
Alla fine di E la nave va vengono mostrati allo spettatore la cinepresa e il teatro. È un omaggio a Cinecittà?
Un omaggio a Cinecittà? E se avessi girato il film altrove? Non si tratta di un omaggio a Cinecittà, è piuttosto un omaggio al cinema, all’espressione cinematografica. È anche un modo, perlomeno nelle mie intenzioni, di esprimere il mio punto di vista con una certa modestia. Dal momento che la narrazione filmica poteva allargarsi fino a includere alcune interpretazioni suggerite dall’attualità che stiamo vivendo, il rischio era anche quello che finisse per assomigliare a un ammonimento, a un avvertimento apocalittico, e pertanto questa cinepresa che arretra e che disvela allo spettatore lo studio, l’artificio, il grande palcoscenico mobile sorretto da pistoni, i fondali, tutta la troupe, i trucchi cinematografici, era un modo per dire: «Io sono uno che fa cinema, quindi ho raccontato questa storia ma l’ho fatto a partire dal mio punto di vista, che è quello di un uomo di spettacolo».
I motivi per cui ho sentito che era necessario fare questo passo indietro e mostrare il luogo delle riprese sono diversi. Volevo anche dire: «Siamo tutti immersi in questa situazione, anche l’autore, che sostiene di essere distaccato». La minaccia e la decisione, il tentativo di prendere consapevolezza, di cercare di comprendere ciò che sta succedendo, riguarda anche colui che tenta di fare quest’operazione. A nessuno è concesso un alibi, una giustificazione.
C’è forse anche un’altra ragione, e dico ciò in maniera un po’ scherzosa. Io sono innamorato del set, dello studio, delle quinte, delle luci, dei riflettori. Avevo quindi voglia di mostrare i miei mezzi espressivi, in maniera analoga a un pittore che facesse delle foto al suo atelier, con i suoi cavalletti, le sue tele, le sue tavolozze, i suoi stracci...
Volevo anche mostrare allo spettatore malato e assetato di realismo, che durante la proiezione ha osservato sospettoso il mare di plastica e il sole fatto di carta velina, volevo mostrare a costui il rovescio della scenografia e dirgli: «Sì, è vero, è tutto un artificio, una finzione, guarda, è addirittura una finzione totale, ma talmente complessa, in grado di ricorrere a una tale quantità di macchinari, che si giustifica da sé».
Allo stesso tempo, poiché alle volte vengo accusato ingiustamente di fare film troppo costosi, volevo anche dire: «Sì, abbiamo speso del denaro, ma guardate che razza di baraccone abbiamo costruito». Anche questo, lo dico in maniera un po’ scherzosa.
Non ha l’impressione che lo studio sia anche, da parte sua, un modo per proteggersi dal mondo esterno?
No, perché a conti fatti la vita all’interno di una troupe cinematografica è emblematica della vita sociale, della vita che si svolge all’esterno dello studio. Ogni cosa può essere ridotta in maniera microscopica e allo stesso tempo rappresentare il macrocosmo, l’universo. La vita all’interno di un teatro cinematografico, con tutti i problemi che crea la coabitazione, è veramente un apologo della vita sociale, quindi non ho affatto l’impressione di proteggermi. Quest’accusa potrebbe essere rivolta a chiunque.
Non è un’accusa.
Ad ogni modo, è un’osservazione che potrebbe essere fatta anche a proposito di un chirurgo: «Ma lei, che se ne sta sempre in clinica a operare, non si distacca troppo dai problemi della vita?». Lo stesso si potrebbe fare con uno scrittore, con chiunque, anche con un astronauta: «Standosene sempre nella sua astronave, in mezzo allo spazio, non trascura un po’ troppo le preoccupazioni della vita di tutti i giorni?». Mi sembra una domanda senza senso. Ciascuno si impegna veramente in ciò che sa fare e risolve il suo impegno e i suoi problemi lungo la strada che si è scelto.*
(traduzione di Marco Zerbino)
* Colloquio registrato nel 1984 nell’ufficio di Federico Fellini in Corso Francia a Roma, e uscito in francese su Positif, n. 300, febbraio 1986.
Note:
1 Ferenc Molnár, pseudonimo di Ferenc Neumann (Budapest 1878-New York 1952), autore del celebre I ragazzi della via Pál, un classico della letteratura per ragazzi, è stato uno scrittore, drammaturgo e giornalista ungherese di origine ebraica. Pubblicò diversi romanzi, novelle e drammi per il teatro (n.d.t.).
2 Da Marcel Pagnol (Aubagne 1895-Parigi 1974), scrittore, drammaturgo e regista cinematografico francese (n.d.t.).
3 Tomaso Smith, sceneggiatore dal 1931 al 1943, fondò nel 1947 i giornali Paese e Paese Sera, che diresse fino al 1956.
4 Il Bertoldo fu una rivista di umorismo e satira pubblicata a Milano dal 14 luglio 1936 al 10 settembre 1943 dalla Rizzoli (n.d.t.).
5 Esisteva anche la compagnia denominata Ala Littoria S. A.
6 F. F. Velini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980, pp. 44-46.
7 Il trasparente era, prima dell’avvento di altre tecnologie che lo hanno poi sostituito, un particolare schermo (trasparente, per l’appunto) sul quale venivano proiettate da dietro delle immagini. Esso faceva a sua volta da sfondo, dal lato opposto a quello della proiezione, a una scena girata in interno, dando l’impressione grazie alle immagini retroproiettate che fosse invece girata all’aria aperta. Esempio tipico di uso del trasparente è quello in cui venivano ripresi gli attori seduti dentro un’automobile, simulando il movimento della stessa grazie alle immagini che scorrevano sul trasparente e che erano visibili dai finestrini (n.d.t.).