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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

LA CENA A 1 EURO DI CHI SPERA IN UN RIMBALZO

Quando ho visto una bambina che avrà avuto sì e no quattro anni, sulla testa un cappello pieno di lustrini blu luccicanti, correre saltellando allegra, trascinando la mamma per mano dentro un cancello, all’inizio ho pensato di aver sbagliato indirizzo. Non poteva essere una mensa per i poveri, la destinazione della corsetta serale. Non quelle che avevo in mente. Ma questo grande salone dominato da vetrate e legno chiaro, con più volontari e attenzioni che commensali, non è la classica mensa per i bisognosi, di cui Milano abbonda, anche se non bastano mai; è “Ruben” il ristorante solidale a un euro, aperto al quartiere Giambellino dalla Fondazione Ernesto Pellegrini.
Se ne era parlato tanto, ai primi di ottobre, quando il Cavalier (ed ex presidente dell’Inter) Pellegrini, accompagnato dal sindaco Pisapia, altro grande interista, aveva inaugurato lo spazio ricavato proprio sotto una delle cinquecento mense, gestite dalla più grande impresa italiana di ristorazione collettiva. Le intenzioni erano di creare un luogo di accoglienza diverso, complementare a tutti gli altri destinati a lenire il crescente disagio delle metropoli. “Ruben” non si rivolge ai poveri cronicizzati, ma a chi lo è momentaneamente: chi, per una ragione, spesso legata alla perdita del lavoro, si trova più fragile di quanto pensava. Ed è caduto in una buca, non troppo profonda, ma che sembra così, o perché è inattesa, oppure perché non si trovano mezzi economici o l’animo per trovare la via d’uscita. “Ruben” avrebbe offerto loro un momento di sollievo, nell’accezione più completa del termine.
Sono tornato una sera di dicembre, per convincermi che fosse davvero possibile, mettere insieme elementi diversi: il bisogno temporaneo, l’attenzione ai particolari, un clima se non festoso, indiscutibilmente allegro, conviviale, e poi il costo della cena, un euro, quasi nulla, ma sufficientemente reale per conservare dignità. E soprattutto che la Fondazione avesse indovinato, a dedicare i propri sforzi a questa fascia di fragilità e povertà meno nota, e quindi pressoché invisibile. La bambina col cappello blu luccicante era già una conferma. Subito seguita, oltre che dalla mamma, da una famiglia dopo l’altra, poi da tanti bambini in fila che scherzavano. Poi da coppie di lunga data, da una madre con cinque figli; da commensali introversi oppure vocianti, seduti con il loro vassoio in un’atmosfera educata, allegra ma che mantiene le distanze; dove le chiacchiere sono aiutate, ma i bambini invitati a non lasciar niente nel piatto.

Si entra con la “tessera”. Ci voleva un luogo come questo, perché una realtà nuova, non ancora definita, si polarizzasse, trovando il modo per diventare visibile, e quindi conosciuta. Se non era per “Ruben”, o per iniziative simili, e indirizzate a smuovere le acque sociali in una zona non frequentata, avremmo incontrato queste persone, – appena un gradino sotto la linea di galleggiamento, appena cadute o sul punto di farlo, e che se non riescono a trovare un rimbalzo, rischiano di “abituarsi” alla povertà, al disagio –, tutte insieme, rispettose dell’altro, in fila per cenare? Detto in altro modo, e da Davide Locastro, direttore della Fondazione Ernesto Pellegrini Onlus, le persone che cenano qui la sera in cui c’ero anch’io, «mangerebbero lo stesso». A mancare sarebbero altri elementi di contorno, ma fondamentali: un cibo sano e variato come si può trovare qui (menu salutista, niente fritti, pietanze per celiaci, proprio quando gli ultimi dati Istat rivelano che l’84% degli intervistati, per la crisi, ha diminuito l’acquisto di frutta e verdura). Oltre al tempo per mangiare in pace, senza fretta, un luogo piacevole ai sensi, e quella cosa che non ha una parola sola per essere definita, e sta nel ricevere attenzione e aiuto, ma non quel plus di compassione, o di giudizio.
È così che si rivela un mondo, creandogli uno spazio per il confronto. Indico le tante famiglie al direttore... «Sono qui perché negli altri luoghi (mense, ndr) non vanno: sembrano gironi danteschi».
Davide Locastro presenta i primi dati di “Ruben”. «Per ora ci limitiamo a un turno unico, così da accogliere circa 150 persone a sera. In primavera, finito il rodaggio, dovremmo poter inaugurare il secondo turno. Il trenta per cento sono stranieri, se in quel settanta per cento di italiani s’includono anche i figli di stranieri nati qui. Un fatto significativo: il trentacinque per cento delle tessere è di chi ha meno di 18 anni (sotto i 16 non è richiesto nemmeno l’euro, ndr)».
Immaginavo che “Ruben” sarebbe stato oggetto di una pressione forte dall’esterno, di una costante richiesta d’ingresso da parte di bisognosi, anche del quartiere. «No, nessun problema dall’esterno. Il tam tam in questo mondo è velocissimo. Per entrare ci vuole una tessera, che noi rilasciamo soltanto a chi possiede i requisiti necessari, a giudizio delle diverse associazioni del Terzo settore, dei centri di ascolto, Caritas per prima, e delle parrocchie, con cui “Ruben” ha fatto rete». Forse i problemi potrebbero capitare alla scadenza dei due mesi che dura la tessera, rinnovabile a discrezione delle associazioni. Ma questa scadenza è ancora lontana.
Entro nella grande sala dominata dal legno chiaro, quasi in punta di piedi, tanta è la preoccupazione degli organizzatori di non disturbare chi sta cenando. Dove altro potrei trovare un insieme di persone così eterogenee: silenziose e anziane coppie di milanesi, famiglie con tanti figli piccoli e l’unico lavoro perduto, un’altra che cena qui tutte le sere, «anche se questo è raro, capita piuttosto che vengano due-tre volte la settimana, e poi abbiano bisogno della loro privacy», dice Giuseppe Orsi, ex amministratore delegato di Finmeccanica e ora “il primo volontario di Ruben”. C’è chi ha accompagnato a Milano un parente per un intervento chirurgico (sembra siano più di mille, ogni giorno, in questa condizione). Oppure il padre separato, che sceglie questa sede per incontrare i figli; il laureato, l’immigrato regolare e senza lavoro.
Sono tutti qui per cenare, a un euro, c’è la pizza un giorno su due, il pollo arrosto, due menu tra cui scegliere, e le patatine, non fritte però, al forno, per la salute. E trovano più del cibo.
C’è chi preferisce isolarsi, come una coppia, una madre e un figlio, qualche anziano timido e chiuso in sé; però si capisce che man mano s’intrecciano parole e sguardi, ci si confronta nelle angosce o nelle speranze. I numerosi bambini aiutano.
Un luogo così offre l’occasione per riprendere a comunicare. Se non tra loro, con uno dei cento volontari su cui poggia il ristorante: s’aggirano tra i tavoli, offrendo il pretesto per aprirsi ed esporre problemi, dai più piccoli in su. E immediatamente sopra il cibo, c’è la questione principale, il lavoro. Il lavoro come valore fondamentale, e simbolo di “Ruben”. Nel progetto di Pellegrini, come aveva detto nel giorno dell’inaugurazione, c’è quello di affiancare al cibo – di cui si occupa ovviamente il personale specializzato della sua azienda – un primo aiuto a ritrovare la strada del lavoro.
Nella serata della mia visita, sulla parete accanto alla coda per la mensa, era stato appena attaccato un nuovo cartello, con diverse proposte di lavoro, scelte dal personale della Fondazione tra quelle trovate in rete. Si fermano subito due o tre persone. All’inizio pensano che siano proposte della Pellegrini. Poi capiscono l’errore; potranno però essere aiutati dai volontari a capire meglio l’annuncio. Nelle loro espressioni e parole, piene di curiosità, ma anche di quella insufficienza di mezzi per capire subito di che si tratti, l’incapacità magari di usare la Rete a proprio vantaggio, c’è l’idea che oltre a mancare il lavoro, ci sia spesso un altro gap da superare, come si cerca e si trova, il lavoro.

In memoria di un dipendente. La catena della vita, certe volte ha bisogno soltanto di una piccola tensione o di una stretta in più, per ripartire. Forse non basterà, almeno qui si fa un tentativo nel momento giusto. Il ristorante a un euro è stato battezzato “Ruben”, in memoria di un lavorante a servizio di tre generazioni della famiglia Pellegrini, nella cascina alle porte di Milano, dove vivevano. Quando Ruben ebbe un momento di grave difficoltà, Pellegrini non fece in tempo ad aiutarlo, ma la figura di quel lavorante rimase lì, nella memoria, per decenni — mentre Pellegrini passava dal fare il contabile per la Bianchi a un’azienda con 7.500 dipendenti — come simbolo di una persona semplice, che aveva dedicato la propria esistenza al lavoro.
Nel mio passaggio non sono stato sorpreso tanto dalla generosità nella cucina o dai dettagli dell’ambiente, dai fasciatoi per i neonati, dalle poesie e dai quadri alle pareti: un layout accogliente cui si è dedicata Valentina, la figlia del Cavaliere.
A colpire è un’altra cosa. Durante l’inaugurazione, Ernesto Pellegrini, nel rispondere a una domanda, aveva rivendicato un aspetto del suo carattere, la capacità di anticipare le tendenze. E qui, nel vedere come le madri, arrivate con l’aria smarrita, preoccupata, nell’ufficio in cui si ritirano le tessere, poi, di fronte alla vista di cosa è davvero “Ruben” (o meglio, di ciò che non è), si allarghino in un sorriso, sembra che il Cavaliere ci abbia preso.