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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

ARTICOLI SUL TOTO-QUIRINALE DAI GIORNALI DI VENERDI’ 16 GENNAIO 2015


MARIA TERESA MELI, CORRIERE DELLA SERA -
Matteo Renzi non svelerà le sue vere intenzioni nemmeno oggi davanti alla direzione del Pd. «Faremo un punto della navigazione» si limita a far sapere. E, quindi, anche di quanto sta avvenendo sulle riforme alla Camera e al Senato: «Ci vuole senso di responsabilità» è il ritornello che rivolge ai compagni di partito. «Senso di responsabilità» per tutto: riforme ed elezione del presidente.
Il premier è attento a quel che succede. Scambia sms con Roberto Speranza, per monitorare l’alzata di scudi di Forza Italia. Riceve a Palazzo Chigi il «ribelle» Vannino Chiti e poi il capogruppo a palazzo Madama Luigi Zanda. Non sembra però voler drammatizzare la situazione: «È il loro modo di aprire la trattativa», dice ai suoi riferendosi a Forza Italia. Da come si comporta sembra che in realtà abbia già un accordo di massima con Berlusconi. E ora sta cercando un’intesa dentro il suo partito. Direttamente con Bersani, visto che il premier non ritiene che l’ex segretario voglia giocare sporco. A Palazzo Chigi sono convinti che Bersani punti a essere coinvolto nelle decisioni e che alla fine lui «abbia a cuore innanzitutto l’unità del Pd». Unità di cui ha bisogno anche Renzi per mandare in porto l’operazione Quirinale: «Non possiamo offrire un brutto spettacolo come quello del 2013, dobbiamo fare in modo che gli italiani tornino ad avere fiducia nelle istituzioni». E per riuscire nell’intento c’è chi nel Partito democratico alimenta la cortina fumogena: non a caso, ieri è stato lanciato il nome di Luciano Violante. Ma parrebbe proprio un nome dello schermo.
La «confusione» giova al premier. O, quanto meno, il premier ne è convinto, perché «per arrivare alla stretta finale, meglio stressare la situazione». Perciò, se diverse ipotesi si accavallano tanto meglio. A questo proposito sempre ieri, è uscito nuovamente il nome della vice presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia: è una donna ed è stata nominata alla Consulta da Giorgio Napolitano. In questo caos — un po’ apparente e un po’ no — Renzi prosegue con i suoi sondaggi. Con gli alleati del Nuovo centrodestra e di Scelta civica ha adombrato l’ipotesi Veltroni. Perché, come ha avuto modo di dire, «un arbitro e un garante delle riforme non deve essere necessariamente un non politico». Del resto, Napolitano docet. Quello dell’ex segretario del Pd o di un altro «esponente della ditta» (lo stesso Bersani, per esempio) è un nome buono nella prospettiva di giungere alla quarta votazione. Ma Renzi si lascia aperta anche un’altra strada, ossia quella di riuscire a farcela alla prima. Allora sì che riuscirebbe a realizzare appieno «il metodo Ciampi» da lui invocato, sottolineando la necessità della «massima condivisione tra le forze politiche». Sarebbe un colpaccio per il premier e per la sua immagine.
Ma quale potrebbe essere il nome giusto in questo caso? Dal Pd, e anche dagli altri gruppi della maggioranza, filtra un’ipotesi: quella di una candidatura di Piero Grasso. Una prospettiva di questo tipo non vedrebbe contrario Bersani, visto che fu proprio lui a indicarlo come presidente del Senato e attrarrebbe i voti degli ex grillini e forse anche qualcuno di chi siede ancora nei banchi dei «5 stelle». È vero che Berlusconi va dicendo che non vuole un magistrato. Ma i «no», quando si aprono le trattative non sono sempre così granitici. E poi, chi meglio di un ex magistrato potrebbe garantire al leader di FI agibilità politica senza destare scandalo?
Ma i giochi per il Quirinale rappresentano per una fetta dei renziani e per la minoranza interna più dialogante un modo per tentare di compiere un altro passo sulla strada della rottamazione. Perciò tra i gruppetti sparsi nel Transatlantico di Montecitorio si sussurra il nome di un altro Pd: il vicepresidente del Csm Gianni Legnini, 56 anni. Renzi lascia fare, perché la confusione distoglie l’attenzione dalle sue mosse, scruta i movimenti dei big del Pd, da Franceschini a D’Alema, non esclude in futuro un incontro a tre con Alfano e Berlusconi e cerca di capire se quella «buona» sarà la prima o la quarta votazione.
Non vuole andare oltre. Di questo è «certo». E non vuole nemmeno dedicarsi solo a questo tema: «L’attività del governo non può fermarsi». Perciò ieri ha affrontato la «pratica» della Pubblica amministrazione con Marianna Madia, quella delle crisi industriali con la ministra Guidi e ha ripreso in mano il «dossier fisco». E, pur tenendosi lontano dalle luci dei riflettori di questo evento, ha telefonato ai familiari delle due italiane rapite per dare loro la buona notizia della liberazione e dell’imminente rientro in patria delle ragazze.

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MASSIMO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA -
I l cosiddetto «toto Quirinale» è sempre esistito. È un rito quasi inevitabile quando si cambia capo dello Stato. Ed ha contorni ambigui: un po’ promozione, o autopromozione, e un po’ tritacarne. Ma stavolta l’ultimo aspetto rischia di diventare preponderante. Più che ad una gara di previsioni divertente e un po’ spregiudicata, stiamo assistendo ad uno stillicidio di candidature. E non sempre risulta chiaro se nascano da aspirazioni personali a succedere a Giorgio Napolitano, o da indiscrezioni pilotate dall’alto: magari solo per misurare le reazioni, «consumare» alcuni nomi in anticipo, e insieme confondere le acque sulle vere intenzioni di chi ha il potere di decidere.
Se esiste una regia, il dubbio è che sia partita molto presto, perché all’inizio del voto a Camere riunite mancano ancora due settimane. Lanciando un candidato al giorno, uomo o donna, aumenta il rischio di bruciare nel mucchio figuranti e potenziali protagonisti. Ma aumentano anche le probabilità che la situazione sfugga di mano a chi promuove questo sondaggio logorante. Il Pd e la stessa Forza Italia, architravi del patto che dovrebbe portare all’elezione al quarto scrutinio, quando basterà la maggioranza assoluta dei voti, sono tutt’altro che granitici. Lo scarto deciso ieri dai berlusconiani sulla riforma elettorale, soprattutto, è un avvertimento. Dice al premier e allo stesso leader di FI quanto siano profondi i malumori in quel partito, e dunque in bilico i voti dei suoi parlamentari in assenza di una candidatura «di garanzia».
I nomi che continuano a uscire moltiplicano aspettative destinate tutte ad essere frustrate, tranne una. L’impressione è quella di un Matteo Renzi che intensifica i contatti senza però chiudere un vero accordo con nessuno. La tattica testimonia la sua abilità, ma potrebbe anche acuire le diffidenze: come se avesse lasciato balenare la sagoma del Colle davanti agli occhi di troppi pretendenti.
Il problema è chi sopravviverà ad una esposizione continua a veti e interdizioni che accentuano l’immagine di un Parlamento ingovernabile e di un presidente della Repubblica «ineleggibile». Probabilmente è una preoccupazione esagerata, che sarà smentita dalla capacità di offrire una prova di unità su una scelta di prestigio. Esprimerla può servire tuttavia ad esorcizzare la prospettiva di uno spettacolo simile a quello a cui l’Italia ha dovuto assistere meno di due anni fa; e conclusosi con la rielezione di Napolitano, quasi per disperazione. Benché le tribù interne si agitino, il Pd sa di non potersi permettere di sbagliare di nuovo. Ma viene da chiedersi se sull’altare della compattezza del maggior partito si inginocchieranno docilmente sia gli avversari, sia quanti si sono illusi, a torto o a ragione, di essere i predestinati al Quirinale. Più ce ne saranno, più il loro voto di delusi potrà incidere sull’esito finale. Per questo ci si aspetterebbe una rotta di avvicinamento al 29 gennaio più prudente e meno tesa ad accendere vanità che possono bruciare indiscriminatamente vere e false candidature. La storia insegna che le elezioni del capo dello Stato seguono quasi sempre dinamiche imprevedibili. Anticipano gli equilibri del sistema, più che fotografarli staticamente. E tendono a sottrarsi a qualunque regia: tanto più a quelle che puntano a maneggiare il caos per arrivare al capo dello Stato voluto. In un Parlamento come l’attuale, il pericolo e l’esito paradossale potrebbe essere un presidente eletto quasi per caso , se non «a dispetto».
Massimo Franco

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FRANCESCO BEI E GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA -
«L’onere di fornirci un nome spetta a Renzi», ripete Berlusconi. «È Renzi che deve fare la prima mossa», concorda Alfano. Una responsabilità di cui il premier sente il peso e che oggi, in Direzione, vuole cominciare a condividere con il suo partito. La minoranza Pd gli chiederà non uno «schema», non un «metodo », ma subito qualcosa di più: l’identikit del futuro capo dello Stato. Ed è su questo che si lavora a palazzo Chigi. Trovare un candidato che superi la prova dei veti reciproci, dei ricatti delle correnti, delle antiche rivalità ormai stratificate da anni.
La lista del premier è divisa in blocchi. E il punto di partenza, necessariamente, sono gli ex leader del centrosinistra. Personalità forti, con un seguito nella base, e una caratteristica in comune: «Si ritengono — ripete da giorni il segretario ai suoi collaboratori -, anche legittimamente per carità, candidati di diritto ». In quel blocco ci sono Romano Prodi, Piero Fassino, Dario Franceschini, Walter Veltroni, Pierluigi Bersani e Guglielmo Epifani. In corsa lo sono tutti, anche quelli che si schermiscono. Ma agli occhi di Renzi, che guarda alla storia delle elezioni per il Quirinale, se si esclude Giuseppe Saragat nel ‘64, mai nessun segretario di partito si è insediato nel palazzo dei Papi. Troppo ingombranti le loro personalità, troppo difficile farli accettare sia dagli alleati che dai rivali interni. Con il rischio di spaccare i gruppi Pd senza attrarre nuovi voti dalle opposizioni. «E adesso serve uno che facilita l’intesa».
Semmai lo schema renziano ripete quello che portò Napolitano al Colle nel 2006: un politico puro ma pescato tra i dirigenti - in primo luogo ex Ds - mai arrivati al vertice del loro partito o scelto tra le riserve della Repubdel blica. È un profilo che oggi ricalca molto quello di Sergio Mattarella. Ai suoi il premier non dice che sarà lui il prescelto ma ammette che l’ex ministro, oggi giudice costituzionale, «ha tutte le qualità necessarie». È stato alla Difesa durante le guerre balcaniche, quando l’Italia partecipò in maniera sofferta ai bombardamenti della Nato sulla Serbia. È stato vicepresidente Consiglio nel governo D’Alema, con cui ha ottimi rapporti. Ma più di tutto conta il precedente di due anni fa: era il primo nome della rosa che Bersani presentò a Berlusconi (gli altri due erano Marini e Amato). Ovvero era il candidato ufficiale della «Ditta». Il Cavaliere allora non pose veti, preferendolo persino ad Amato. Poi si andò su Marini, con gli esiti che tutti ricordano.
Oggi Mattarella ritorna anche nelle discussioni della minoranza Pd. «Sarebbe un presidente che può tenere unito il partito», ammettono i bersaniani. Ma naturalmente i dissidenti aspettano che sia il segretario a fare la proposta. Per questo, per evitare trappole e non solo quelle interne, Renzi ha cambiato tattica. «Votare scheda bianca nei primi tre scrutini è troppo pericoloso, ci esponiamo ai giochetti di Sel, dei grillini e di tutti i gufi sparsi in parlamento. Troveremo un candidato di bandiera». Come si faceva nella prima Repubblica. Il premier non lo dice ma è Prodi il nome che teme gli sia gettato tra i piedi nelle prime votazioni. Un candidato capace di catalizzare sia i voti dei cinquestelle, di Sel, della minoranza Pd e, probabil- dei ribelli forzisti. «I grillini — rivela Arturo Scotto, capogruppo vendoliano — stanno ragionando su questo, forse stavolta si svegliano».
Nella lista di Renzi c’è anche un altro gruppo, importante di papabili, specie se la crisi finanziaria dovesse riaccendersi. Sono i candidati «graditi a Bruxelles », quelli che offrono più garanzie internazionali ma non interne. Tra di loro c’è Giuliano Amato, ma soprattutto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Anche alcuni ministri come Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti andrebbero bene per le Cancellerie. Ma il premier ha già deciso: «Resteranno entrambi ai loro posti».
Se il Pd è il fuoco dell’attenzione di Renzi, Lotti e Guerini, da ieri anche la situazione interna a Forza Italia viene monitorata da vicino. Quanto accaduto a Montecitorio, con il capogruppo forzista Brunetta che si è messo di traverso rispetto al cammino della riforma costituzionale, ha confermato a palazzo Chigi quanto sia ormai «friabile » il patto del Nazareno. Perché, al di là della volontà dell’ex Cavaliere, «Berlusconi non è in grado di reggere il suo partito. Brunetta è una scheggia impazzita ». L’incidente della Camera è stato al centro di una serie di riunioni e telefonate che il premier ha avuto lungo tutto il pomeriggio. Contatti che sono ruotati intorno alle riforme, al cammino dell’Italicum e alla partita del Quirinale. Da Angelino Alfano al capogruppo dem Roberto Speranza, fino al capogruppo Zanda e al senatore Chiti.

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CARMELO LOPAPA, LA REPUBBLICA -
«A me possono proporre tutto, possiamo discutere di chiunque, basta che non mi vengano a chiedere il voto per un ex segretario Pd o per chi è stato mio avversario diretto alle politiche». Silvio Berlusconi il suo identikit per il Quirinale inizia a delinearlo, pur al contrario, nella sequenza di incontri a Palazzo Grazioli, in una giornata che ha avuto il suo culmine nel faccia a faccia di quasi due ore con Raffaele Fitto. Col capocorrente — che rischia di rompergli le uova nel paniere nella difficile trattativa con Renzi su riforme e Colle — il gelo resta intatto, le posizioni immutate. Sebbene in serata il leader racconterà ai collaboratori che con l’eurodeputato «è andata benissimo, alla fine ci siamo anche sciolti in un lungo abbraccio».
Sarà, quel che è certo è che al momento il capo non può contare sull’intera truppa di 130-140 grandi elettori forzisti. Una quarantina rispondono a Fitto, mentre nei gruppi è guerriglia continua. Berlusconi proverà a mettere una pezza, incontrerà martedì i senatori, mercoledì i deputati. Intanto la sua black list, se confermata il 29 gennaio, sbarrerebbe la strada a molti dei “papabili” del campo democraico. Come pure — racconta chi ha parlato ieri — l’ex premier non sembra tanto disposto a concorrere all’elezione di un «pezzo della Prima Repubblica», pur autorevole, come Sergio Mattarella. È tutto un gioco ad excludendum , che lascerebbe sul campo i nomi fatti ieri a Repubblica dalla compagna Francesca Pascale, oltre allo scontato Gianni Letta, anche Pier Ferdinando Casini e Anna Finocchiaro. Questo non vuol dire che Berlusconi rinuncerà ad avanzare una sua rosa, sebbene di bandiera. «I miei candidati ideali li avrei pure — raccontava nel pomeriggio a una deputata — e sono Letta, Antonio Martino e il generale Leonardo Gallitelli. Ma non sarò io a nominarli e bruciarli».
Con Fitto, per la prima volta, si sono ritrovati a tu per tu, senza testimoni e mediatori. Alla fine si sono dati appuntamento alla vigilia dell’elezione del Quirinale. Il chiarimento intanto è stato schietto, come sempre, anche se non risolutivo. «Che ci hai guadagnato da queste riforme? Ci stiamo rimettendo tutti, tu la faccia e il partito i voti. Renzi incasserà il sostegno sull’Italicum e poi eleggerà un suo presidente», lo incalza l’ex governatore. Berlusconi gli dà ragione, conferma che «Matteo non è stato leale, ha cambiato le carte in tavola a più riprese», ma gli spiega che «non possiamo tirarci indietro ora o ci ritroviamo un altro presidente ostile». Quindi gli chiede con insistendelle za di restare in squadra e votare in linea dal 29. Fitto abbozza, resta vago. Ma, appena uscito dalla residenza di Palazzo Grazioli, raggiunge i suoi a Montecitorio per ribadire che «la posizione non cambia, continuiamo a schierarci contro queste riforme».
Lo si è visto chiacchierare in buvette anche con il capogruppo Renato Brunetta, acerrimo nemico del patto del Nazareno, che per tutto il giorno tenta di bloccare l’esame riforme fino all’elezione del presidente. Ma contro la sua proposta di ritardare pur di poche ore i lavori votano contro perfino sei forzisti, tra i quali la Gelmini, Abrignani, D’Alessandro. «Siete dei verdiniani », si è scagliato contro di loro subito dopo la bocciatura a maggioranza. Le riforme vanno avanti. E Brunetta resta in trincea contro “i Nazareni”. Mercoledì sera stava finendo male con quello che il capogruppo ritiene il loro capofila, Verdini. Appena Berlusconi ha lasciato la riunione tenuta nel Parlamentino di Palazzo Grazioli, Brunetta si è scatenato contro il senatore: «Sei un amico di Renzi e ci porterai a sbattere». E il toscano a urlargli: «Lo capisci o no che se non approviamo le riforme siamo fot...?» I erano già a pochi centimetri. Ed è quando Brunetta è sbottato in un «non sputare mentre mi parli» che i presenti sono dovuti intervenire per fermare il senatore toscano. In questo clima Forza Italia affronterà riforme e elezione al Colle nel giro di due settimane.

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STEFANO FOLLI, LA REPUBBLICA -
Come era facile immaginare, quella frase di Renzi («se Berlusconi non ci sta, il presidente lo eleggiamo da soli») era solo una battuta. Al nuovo capo dello Stato si può arrivare solo sommando i voti del Pd con quelli di Forza Italia e dell’arcipelago centrista, a meno di inoltrarsi lungo i sentieri avventurosi e infidi che portano ai Cinque Stelle.
Quindi il «facciamo da soli» è una dichiarazione orgogliosa ma non realistica. Non a caso, il vicesegretario del Pd Debora Serracchiani si è affrettata ieri a correggerla, senza dubbio d’intesa con il premier. E si capisce. Renzi, che è il regista dell’operazione Quirinale, ha bisogno di tutta la collaborazione di Berlusconi, fosse pure l’ultimo e definitivo episodio di un «patto del Nazareno» assai logorato. È come un bizzarro gioco di «matrioske» russe: l’accordo con le correnti interne del Pd serve al presidente del Consiglio per presentare un candidato credibile a Berlusconi; ma l’intesa con Forza Italia, almeno nella fazione fedele al capo, gli è indispensabile per disinnescare il cosiddetto «fuoco amico», i dissidenti del centrosinistra.
Che tutto questo definisca una strategia o addirittura una strategia vincente, è tutto da vedere. Mancano ancora circa due settimane alla riunione del Parlamento e il tempo per tessere il filo decisivo senza dubbio c’è. Tuttavia sarebbe utile cominciare a intravedere una rotta, un obiettivo. Anche perché si avvicina il momento in cui le parole generiche non saranno più sufficienti e i grandi elettori vorranno cominciare a sentire dei nomi e vedere dei volti. Per adesso siamo al «toto presidente» dei giornali, talvolta con 40 o 50 ipotesi: un po’ troppe per credere che il progetto Quirinale sia vicino al traguardo.
In realtà i rischi cui va incontro il premier sono più di uno. Il primo riguarda il solito intreccio fra legge elettorale e voto per il presidente. Con qualche forzatura si tenta di far approvare la riforma al Senato prima che il Parlamento si dedichi a individuare il successore di Napolitano. Ma la vicenda è destinata a creare un’area di malcontento; anzi, più sarà evidente il fastidio degli avversari della legge, a causa delle liste bloccate, tanto più sarà chiaro che manca l’accordo interno fra Renzi e Bersani sul Quirinale.
Il secondo rischio incombe da giorni e se ne parla in modo esplicito nella Roma politica.
Riguarda l’uso che i Cinque Stelle intenderanno fare della loro forza parlamentare che resta notevole. Le ultime uscite di Beppe Grillo sono del genere classico: no a tutti i candidati di primo piano, arroccamento «virtuoso» in se stessi, nessuna contaminazione con i partiti della maggioranza e tanto meno con i contraenti del «patto». Ma nel movimento «grillino » il fuoco, come si dice, cova sotto la cenere. A parte le espulsioni, che hanno creato di fatto un piccolo raggruppamento parlamentare più vicino a Renzi che all’opposizione, anche nelle file dei Cinque Stelle ortodossi si desidera uscire dallo splendido isolamento. Alcune decine di parlamentari sarebbero pronti a mettere in campo il proprio voto per contare nella partita a scacchi.
Cosa accadrebbe, dunque, se una parte dei seguaci di Grillo si unisse al Sel di Vendola e a un segmento almeno della minoranza democratica per votare il nome di Romano Prodi fin dalle prime votazioni, quelle in cui Renzi vuole tenere le carte coperte e giocare di rimessa con la scheda bianca? È un tema che appassiona tutti coloro che vedono in questo scenario il vero tallone d’Achille del premier.
Se Prodi raccogliesse un numero crescente di voti già nei primi tre scrutini, potrebbe essere molto scomodo per Renzi bloccarlo alla quarta votazione in favore del vero candidato del «patto», magari un nome fin lì tenuto riservato per paura di bruciarlo. Sarebbe una sfida interessante, che obbligherebbe tutti a uscire dall’ipocrisia e a guardarsi negli occhi.

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CARLO BERTINI E FABIO MARTINI, LA STAMPA -
Durante la tradizionale «guerra di posizione» che segna le prime, inutili votazioni per il Quirinale, stavolta potrebbe deflagrare uno scontro cruento. Osserva Matteo Orfini, presidente del Pd: «Siamo sicuri che nelle prime tre votazioni, quelle nelle quali è necessaria una maggioranza qualificata, la cosa migliore sia votare scheda bianca? Siamo sicuri che in questo vuoto, non possano prendere corpo operazioni di segno opposto?». L’allarme di Orfini, un «dottor Sottile» che conosce molto bene le truppe parlamentari del Pd, coglie un’operazione in corso, la più significativa operazione politica che interferisce con quelle in cantiere a Palazzo Chigi. Da alcuni giorni diversi spezzoni del variegato fronte anti-Renzi-Berlusconi stanno ipotizzando di lanciare sin dalla prima votazione la candidatura del personaggio considerato più antagonista al patto del Nazareno: Romano Prodi. In altre parole, mentre i grandi elettori fedeli a Renzi e a Berlusconi nelle prime tre votazioni voterebbero scheda bianca, il fronte del No punta a far ottenere al Professore quei 200-250 voti capaci di far «massa critica», puntando a farlo crescere, per convincere i «padroni del vapore» a cambiar cavallo.
Il rischio
Naturalmente l’operazione del «fronte del No» non è semplice. Ma visto da Palazzo Chigi, il pericolo esiste. In questa ottica potrebbe rivelarsi decisiva la candidatura di una personalità come il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, la carta coperta di Renzi, forse l’unico personaggio in grado di rappresentare un argine preventivo a Romano Prodi, il quale peraltro è del tutto estraneo alle manovre in corso. Eppure, il Professore che crescesse tra la prima e la terza votazione, «realisticamente rappresenterebbe un’operazione Rodotà al cubo», riconosce Antonio Misiani, già tesoriere del Pd, oggi della strategica area dei «giovani turchi». Ma l’operazione-Prodi è ancora tutta da costruire e vi stanno lavorando personaggi tra loro diversissimi. Anzitutto Pippo Civati, nel Pd il capofila dell’opposizione più irriducibile: «La prima cosa è riuscire a trovare una linea comune in tutta l’area che va da Sel ai gruppi che hanno lasciato il Cinque Stelle e che comprende un pezzo significativo del Pd».
Ordine sparso
Per ora le varie minoranze del Pd marciano separate. Bersani si è visto con Renzi e successivamente ha fatto sapere ad amici di essere pronto a «votare per Giuliano Amato». Un tatticismo per sfuggire alla rosa - Fassino, Veltroni, Mattarella, Castagnetti - che gli proporrà Renzi? Ma se invece l’area indicata da Civati alla fine coagulasse tutta la minoranza Pd, l’operazione-Prodi potrebbe contare su una base di partenza di un centinaio di grandi elettori, troppo pochi per fare decollare la candidatura. Per il Professore c’è anche un drappello di parlamentari della sinistra Dc, guidati da Bruno Tabacci, anche se il vero moltiplicatore per un’operazione di questo tipo sarebbe la convergenza dei 140 grandi elettori del Cinque Stelle. Dice Danilo Toninelli, uno dei capofila grillini a Montecitorio, lui risponde così: «Se non va bene la quarta votazione, per il Pd c’è solo Prodi. Renzi venga a chiederci il voto». Ma un’eventualissima adesione dei grillini, farebbe lievitare il fronte filo-Prodi a quota 250, ancora troppo basso, per far decollare l’operazione. Ma poi nel voto segreto, confluirebbero anche altri nemici del «patto del Nazareno» e infatti uno dei partecipanti all’ultima riunione degli amici di Fitto, rivela: «Siamo pronti a votare per Prodi...».

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FRANCESCO MAESANO, LA STAMPA -
Non dura neanche ventiquattr’ore l’ipotesi di Prodi candidato del M5S per il Quirinale. A spazzarla via ci ha pensato Beppe Grillo, che in un post di quelli che fanno giurisprudenza, tutto rivolto all’interno del Movimento, ha stilato una lista di nomi sui quali non ha intenzione di ragionare. Ci finiscono dentro Veltroni, Fassino, Amato, Grasso, Finocchiaro, Pinotti, Mattarella, Delrio. Persino Raffaele Fitto, che ha 45 anni e non è eleggibile, ma soprattutto Romano Prodi e Pietro Grasso.
Lo stop
Agli ultimi due nomi Grillo dedica più righe che agli altri, tanto perché sul punto non ci siano fraintendimenti: un messaggio a chi nel gruppo aveva pensato di provare a mettere in difficoltà Renzi avanzando la candidatura del professore di Bologna e anche a quei Senatori dissidenti tentati di proporre il nome di Grasso. Sul presidente del Senato, che ora ha assunto le funzioni di capo provvisorio dello Stato, il blog è durissimo: «Si adopera da tempo come bastone del governo contro le opposizioni ignorando in modo plateale il suo ruolo di presidente super partes del Senato facendo votare leggi senza contenuto, cambiali in bianco, alle 4 di notte».
Più felpato il riferimento a Prodi: «Ora che l’euro va in pezzi e ne subiamo il disastro, è lui che ci ha portato non sembra proprio il candidato più adatto». Una chiusura che invita a ragionare quanti, tra i Cinque stelle, lo invocano come l’arma letale contro il governo mentre Grillo punta forte sia a livello politico che nel preparare il suo prossimo tour sulla lotta per abbandonare la moneta unica.
Di Maio è tornato dall’incontro di Milano alla Casaleggio Associati con la consegna del silenzio. L’idea di utilizzare Prodi come un grimaldello per scardinare il patto del Nazareno è stata sonoramente bocciata dai vertici. D’ora in avanti il M5S giocherà soltanto di rimessa, aspettando le mosse del Pd, in attesa di valutare un eventuale nome proposto dal premier. D’altra parte tempi e modalità per le Quirinarie sono esclusivo appannaggio dei diarchi. Lo spiegava ieri in Transatlantico il capogruppo alla Camera Alessio Cecconi: «Quelle sono cose che non possono decidere né il gruppo parlamentare né il direttorio. Spetta ai garanti, a Grillo e Casaleggio, decidere».
La rosa dei candidati
L’ipotesi più probabile è che si arrivi a una griglia di nomi, forse una decina, decisi dai vertici e votati dalla rete. Ma non è escluso che questa votazione avvenga a ridosso del voto se non a votazioni già iniziate. Un attendismo che infastidisce molti nel gruppo. Non nella pattuglia dissidente, che ormai gioca una partita tutta sua, ma nella «maggioranza» M5S, dove in molti vorrebbero iniziare almeno in via informale le trattative per non restare tagliati fuori. Nel frattempo una diplomazia parallela sta lavorando per convincere il pm di Palermo Nino Di Matteo ad accettare una candidatura per il Movimento.
Sull’ipotesi di votare Grasso, rimbalzata ieri da palazzo Madama a Montecitorio, ci sono almeno una ventina di senatori. Alcuni ex, altri pronti a partire, uniti nel tentativo di far imboccare al presidente del Senato la via del Colle, per poi giocarsi la partita sul presidente dell’assemblea che gli succederebbe. Una strategia un po’ elaborata che assomiglia più alla ricerca di un casus belli per strappare con Grillo che a una vera tattica di gioco per il Quirinale.
«Ispirati dal Pd», argomentano i dissidenti della Camera, che per ora assecondano la trovata. Ieri Walter Rizzetto si è lasciato andare a un poco convincente «per me Grasso ce la può fare», prima di aggiungere: «Al Senato è un anno che hanno il pane e non hanno i denti». Ormai da quelle parti la scissione dal M5S è questione di giorni e Federico Pizzarotti, ieri a Roma per un incontro dell’Anci, ha chiesto «regole chiare nella scelta». Proprio quelle che Grillo e Casaleggio non sembrano intenzionati a concedere.

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ALBERTO GENTILI, IL MESSAGGERO -
Ogni giorno da palazzo Chigi, ora che il Quirinale è senza inquilino, esce un ambo sulla ruota del Colle. Mercoledì erano stati i nomi di Giuliano Amato e Sergio Mattarella, ieri sono usciti Piero Fassino e Anna Finocchiaro. E sempre con una postilla significativa: «Piacciono anche a Berlusconi e ad Alfano».
Il più delle volte si tratta di tattica, un modo per sondare gli umori. Ma per il dottor Sottile, l’ex premier socialista ora giudice costituzionale, c’è qualcosa di più. L’altro ieri Pier Luigi Bersani, spina nel fianco di Renzi in questa delicatissima partita e “guida” di circa un centinaio di grandi elettori del Pd, ha confidato a più di un parlamentare: «Se fosse per me voterei Amato, ha grande esperienza, autorevolezza e con il tempo non ha più addosso il marchio di berlusconiano». Parole che non hanno suscitato troppo stupore: nell’aprile del 2013 proprio Bersani propose a Silvio Berlusconi una rosa con tre nomi: Sergio Mattarella, Franco Marini e, appunto, Amato. Fu il leader di Forza Italia a optare per Marini, finito però impallinato alla prima votazione.
Dunque, per Bersani sarebbe un ritorno all’antico. L’ex segretario del Pd avrebbe fatto il nome di Amato anche a Renzi, mercoledì in un incontro rimasto finora segreto. Il premier ha ascoltato. Non ha detto né sì, né no. I suoi sostengono che «Matteo non impazzisce all’ipotesi-Amato, ma non chiude neppure la porta».
E Renzi non la chiude, perché il dottor Sottile è anche uno dei candidati suggeriti da Giorgio Napolitano. Perché risponde all’identikit tracciato a Strasburgo: «Voglio un arbitro, una personalità di grande livello». E perché una convergenza sull’ex premier socialista potrebbe risultare utile per sedare la rivolta contro Italicum e riforma del Senato e per togliere di mezzo la “mina” rappresentata da Romano Prodi.
L’OPERAZIONE-PRODI

Il Professore bolognese è infatti il candidato su cui Bersani è pronto a puntare per mettere in difficoltà il premier nelle prime tre votazioni a maggioranza dei due-terzi. E alla candidatura di Prodi lavora anche Nichi Vendola, impegnato a sondare i grillini nella speranza di costituire una massa critica per non lasciare a Renzi «la possibilità di scodellare un suo candidato, poco autonomo e molto allineato» alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza assoluta di 505 grandi elettori. All’operazione, in più, si sono sommati nelle ultime ore i 48 voti di Scelta civica e Per l’Italia-Centro Democratico di Gianluca Susta, Lorenzo Dellai e Bruno Tabacci che invocano «un Presidente autorevole e di alto profilo».
C’è da dire che l’ipotesi Amato non è scartata a priori da Renzi anche perché il primo a spendere il nome dell’ex premier è stato Berlusconi. E proprio l’ex Cavaliere - che mercoledì ha posto un veto tattico a un candidato espressione della sinistra - ieri ha ricevuto una visita di Amato accompagnato da Gaetano Quagliariello. Il segno che sul nome del giudice costituzionale sarebbe pronto a convergere anche il Ncd di Angelino Alfano che con la sua “Area popolare” ha più o meno 80 grandi lettori.
Messa così, l’elezione di Amato al Quirinale potrebbe sembrare cosa fatta. Ma naturalmente così non è. Anzi, il fatto che tanto si parli a quindici giorni dal D-day dell’ex premier, aumenta le probabilità che venga bruciato. In più, sempre ieri, da palazzo Chigi è filtrato appunto un altro ambo. Quello con Piero Fassino e Anna Finocchiaro, entrambi non sgraditi a Berlusconi anche se provenienti dal Pci. In realtà una sola cosa è certa, Renzi si tiene stretto il patto del Nazareno: «Servono cifre ampie, per legittimare il nuovo capo dello Stato, impossibile fare a meno dei voti di Forza Italia», ha detto Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd. E oggi Renzi, in Direzione, fornirà indicazioni del metodo «per arrivare a una scelta che sia chiara, condivisa, autorevole».
Alberto Gentili

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FABRIZIO D’ESPOSITO, IL FATTO QUOTIDIANO –
Nella nebbia che avvolge la falange di candidati per l’irto Colle orfano del sovrano, sono due le ombre che s’individuano meglio delle altre nella folla degli aspiranti presidenti. La prima è quella dell’eterno Topolino della Casta al secolo Giuliano Amato, già craxiano e tante altre cose, oggi giudice della Corte costituzionale. Quando ieri a Montecitorio si è propagata alla velocità della luce la notizia che Giorgio Napolitano era già al lavoro nel suo studio di senatore a vita a Palazzo Giustiniani (contrariamente alle previsioni che riferivano di qualche giorno di riposo dopo le dimissioni di mercoledì), il riflesso malizioso di molti è stato questo: “A Palazzo Giustiniani è stato inaugurato il comitato elettorale di Giuliano Amato”.

La lobby di “Topolino” e lo schema anti-Renzi
Non è mistero per nessuno che l’ex Re Giorgio consideri “Giuliano” come il suo erede naturale, al punto che l’eventuale successo di questa operazione avrebbe come titolo questo: “Ecco il Napolitano ter”. La lobbyamatianaèforteecomposita. Comprende Silvio Berlusconi, comprende il Corriere della Sera e il Sole 24 Ore, comprende Massimo D’Alema, che pur di non darla vinta all’odiato premier avrebbe detto ai suoi fedelissimi di far recapitare al Condannato anche il nome di Paola Severino. Insomma, comprende quasi tutti, tranne Renzi. Nel Pd delle minoranze si confida con un alto grado di attendibilità che le ultime sorprendenti uscite di Napolitano in favore di Renzi possano aver avuto come prezzo proprio questo: l’impegno del premier a eleggere un candidato autorevole e dalla fama internazionale. E disponibili su piazza sono solo in due con questo profilo. Uno è Romano Prodi, l’altro è Amato. La strada per arrivare all’ex craxiano è semplice: imprigionare Renzi nel suo triplice schema mortale, riforme più Italicum più Quirinale, e metterlo spalle al muro, impallinando tutti gli altri candidati. Il calcolo prevede che si arrivi almeno al decimo scrutinio.

La supplica di Pier Luigi a San Giuseppe Grillo
Ed è qui che il gioco dell’establishment incrocia la tattica della maggiore opposizione antirenziana del Pd, quella dei bersaniani. Ieri, in una riunione volante di alcuni colonnelli di “Pier Luigi”, la supplica rivolta nei giorni scorsi a San Giuseppe Grillo si è trasfigurata in una disperata e rabbiosa imprecazione: “Ma perché Grillo è così coglione da non capire che se propone Prodi qui esplode tutto, a cominciare dal Nazareno?”. Ma Bersani sa che i manganelli per bastonare Renzi sono due. Oltre Prodi, c’è Amato appunto. Persino Stefano Fassina si sarebbe lasciato andare promettendo che non avrebbe “problemi” a votare Amato. Sintesi estrema affidata a un antirenziano autorevole: “Il premier si sta sempre più infilando in un cul de sac. E i deputati che controlla nel Pd non sono più di duecento. Se non rinuncia alla sua arroganza sarà una battaglia feroce. Certo il problema non si risolverà domani (oggi per chi legge, ndr) in direzione”.

Il dossier Delrio sull’ex demitiano della Dc
La seconda ombra più visibile delle altre che emerge dalla nebbia quirinalizia è quella di Sergio Mattarella, ex demitiano della sinistra dc, giudice costituzionale e fratello di Pier-santi , presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980 (e di cui da poco è uscita la biografia scritta da Giovanni Grasso). Il nome di Mattarella rimbalza con insistenza da due giorni e sono in tanti ad assicurare che il primo vero dossier istruito da Renzi riguardi lui. A curarlo il sottosegretario Graziano Delrio. Per i democristiani del Pd, Mattarella è diventata una speranza concreta dall’altra sera, quando a cena si sono ritrovati i deputati di Beppe Fioroni e il vicesegretario dem Lorenzo Guerini. In quell’area non tutti però sarebbero d’accordo. In primis i cosiddetti franceschiniani. Loro vorrebbero Pierlugi Castagnetti ma qualcuno rivela che lo stesso “Pierluigi si sarebbe detto d’accordo su Mattarella”. Il conto non torna e il sospetto è che i guastatori franceschiniani lavorino invece per il loro leader, oggi ministro della Cultura. In ogni caso la pancia moderata del Pd è eccitata come non mai da mercoledì scorso, giorno delle dimissioni di Napolitano. E in Transatlantico si è pure rivisto Enzo Bianco, sindaco di Catania.

I veleni sul figlio e il derby della Consulta
A dimostrare che il nome di Mattarella sia una cosa seria è il fatto che cominciano a circolare le voci sul figlio Bernardo Sergio, professore di diritto amministrativo e soprattutto capo dell’ufficio legislativo del ministro alla Semplificazione Marianna Madia. Sul sito del dipartimento della Madia, Bernardo Mattarella ha un curriculum di ben 73 pagine ma questo non ferma le illazioni su consulenze e stipendio d’oro da più di centomila euro annui. Storie di Casta, di padre in figlio. In ogni caso su Mattarella ancora non c’è una risposta definitiva di Silvio Berlusconi. E contro il siciliano c’è già il precedente del 2013. Sergio Mattarella fu infatti la prima scelta del Pd di Bersani. Solo dopo venne Franco Marini. Quando l’allora segretario democratico chiamò B., questi chiese e ottenne di incontrarlo. L’impressione del Condannato non fu negativa: “Mi avevano detto che lei era peggio della Bindi ma ora che la conosco mi rendo conto che non è così”. Tuttavia non bastò e venne fuori Marini, poi fucilato dai franchi tiratori di Matteo Renzi, all’epoca minoranza. Il primo vero derby tra candidati si gioca nel recinto della Corte Costituzionale. Amato contro Mattarella. Il primo è favorito. Anche perché sarebbe una garanzia assoluta contro lo scioglimento anticipato delle Camere. Parola di Napolitano, senatore a vita.

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ROBERTO SCAFURI, IL GIORNALE -
Ma come diavolo dovrà essere questo nuovo presidente? Identikit si sprecano, ognuno ha un nome nel cuore o più spesso uno sullo stomaco: tanto da volerlo tirar giù. Fioccano le autocandidature e c’è chi fa fruttare buone amicizie nei quotidiani, così conquistando quel quarto d’ora di celebrità affinché un giorno possa produrre il miracolo, chissà. Non mancano neppure incontri riservati, cene segrete e casuali conciliaboli. Ieri, a esempio, Roberto Speranza si è recato da Raffaele Fitto per sponsorizzare Walter Veltroni al Quirinale.
Da parte sua, Mario Monti fa sapere che non parteciperà «ad alcuna riunione sul nome», sperando che qualcuno si ricordi persino del suo. «Non mi interesso al fantacalcio», fa sapere invece Matteo Salvini ed è finora di gran lunga la frase più saggia e costruttiva sull’argomento.
Un «grande arbitro» ha buttato là il premier Matteo Renzi, che intrattiene per vie traverse contatti con ciascuno dei «papabili», e si dice ci stia ripensando persino su Giuliano Amato, che piacerebbe a Silvio Berlusconi al punto d’averne fatto per primo il nome. Ma si sa che è inviso a parte del Pd, quella che vuole a tutti i costi «uscire dal Nazareno»: ovvero scegliere un presidente in dispetto agli ultimi vincitori di libere elezioni (eppure ieri la Serracchiani ha ricordato che «senza Cav non si può fare»). L’attuale giudice costituzionale è uno dei pochissimi a possedere il giusto pedigree di un inquilino del Colle: due volte presidente del Consiglio, vastissima cultura giuridica ed economica, fittissima rete di relazioni internazionali. Civil servent si diceva una volta, «uomo per tutte le stagioni» declinato oggi, così diventando forse pietra tombale sulla corsa. L’altro supertitolato è Romano Prodi, le sue quotazioni restano stabili, anzi tendenti al rialzo se non fosse per l’improvvisa fatwa lanciata da Beppe Grillo (diversivo o veto?) che impedirebbe la crescita costante dei voti nelle prime tre votazioni.
Il premier, in questo marasma che qualche commentatore paragona al suk arabo, pare ci stia sguazzando. Tramite quotidiani di comodo cerca di far passare una tesi a lui congeniale: che i tempi siano talmente mutati da rendere possibile uno strappo alle regole, quindi di non attenersi a nessuno dei tradizionali clichè. Per esempio, che sul Colle vada chi abbia ricoperto almeno una delle tre cariche principali della Repubblica: presidenza parlamentare, presidenza del Consiglio, presidenza di Bankitalia. Di questo elitario parterre fanno parte, oltre a Prodi e Amato, pochi nomi spendibili: Violante e Casini, D’Alema e Monti, Dini e l’attuale governatore Visco (esclusi in partenza Fini, Bertinotti, Pera e Schifani). Ognuno di essi però ha poche carte da giocare, pessimi caratteri o pessimi risultati (Monti), carenza di «quid» politico (il governatore); requisito, quest’ultimo, che naturalmente ingolosisce Renzi, deciso a restare unico giocatore in campo.
È questo il motivo che legittima e sospinge ambizioni che mai prima d’ora sarebbero sembrate plausibili: dal sottosegretario Delrio al ministro Padoan, all’impresentabile Rutelli (per restare ai fedeli). Oppure, per la categoria audience tv, politiche che non hanno esattamente illustrato la Patria nella militanza di partito, tipo Pinotti e Finocchiaro (che piace alla Pascale). O ancora, per il settore autoconvocati, giuristi rispettabili sebbene sconosciuti ai più, quali Sabino Cassese o Marta Cartabia.
È verissimo, la carica di capo dello Stato è una di quelle «auto-legittimanti», capace di rendere simpatico e popolare chiunque venga eletto (sempre che non esageri). Eppure, in attesa che cambi la modalità d’elezione, andrebbe rispettato il dettato dei Padri costituenti e la prassi conseguente. Un «grande arbitro» va bene, ma che mastichi almeno un po’ di (sacro) pallone.