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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

PAZZI DA SLEGARE


A Trieste si dice che la bora fa diventare pazzi. Questo vento glaciale proveniente da nord attraversa ogni anno la città incanalandosi fra i palazzi severi della piazza Unità d’Italia fino ai rami degli alberi di San Giovanni. In questo parco le piccole casette verdi sono le ultime tracce dell’ospedale psichiatrico chiuso all’inizio degli anni ’70 dal medico Franco Basaglia. Per festeggiare la chiusura del manicomio, malati, personale sanitario e artisti avevano allora costruito un immenso cavallo blu in carta pesta. Spinto fuori dal parco dove vissero nell’arco di parecchi anni circa milleduecento «pazzi», il cavallo simboleggiava il ritorno alla vita civile, la riconquista della cittadinanza e un appello a un’altra psichiatria.

Nel 1978 una legge generalizzò l’esperienza vissuta a Trieste, ordinando la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici. Questa decisione, frutto di un aggiornamento (in italiano nel testo) intellettuale e politico, ha richiesto del tempo per imporsi: l’ultimo luogo di cura ha messo le chiavi sulla porta alla metà degli anni ’90. L’ospedale psichiatrico italiano è stato per molto tempo una terribile macchina di isolamento, immortalata nel film di Mauro Bolognini Per le antiche scale (1975) (1), molto lontano dal sistema francese o britannico dove già si studiavano delle soluzioni alternative all’internamento (2). Dopo la seconda guerra mondiale i manicomi internavano ancora più di centodiecimila persone.

All’origine di questo cambiamento c’è Franco Basaglia, figura eminente della psichiatria alternativa europea. Nato a Venezia nel 1924 (3), alla fine della seconda guerra mondiale viene imprigionato per parecchi mesi a causa della sua vicinanza a un gruppo antifascista. Colpito da questa esperienza non smise mai di lottare contro l’isolamento. Si ispirò in particolare alla critica delle istituzioni e del colonialismo sviluppata da Michel Foucault e Frantz Fanon, rifiutando di iscriversi al movimento dell’antipsichiatria. Ciò perché, secondo lui, la semplice messa in causa degli ospedali psichiatrici non è sufficiente ad annullare il controllo sociale e normativo esercitato sui malati. Benché il suo pensiero converga spesso con quello della psicoterapia istituzionale difesa in Francia da Felix Guattari, Basaglia, poco incline alla psicanalisi, prende la tangente promuovendo la distruzione dell’istituzione operando altresì al suo superamento.

«Mettere la malattia tra parentesi»

Dopo una prima esperienza di «ospedale aperto» a Gorizia, lo psichiatra vince la sua scommessa e riesce a chiudere la struttura di Trieste. Tutta la gerarchia mandata all’aria, non senza difficoltà: i medici abbandonano il camice bianco e lasciano una parte delle loro competenze agli infermieri che a loro volta lasciano la loro funzione di semplici guardiani. Sono coinvolti assistenti sociali ed «esperti in riabilitazione sociale», così come le cooperative di lavoro, che permettono ai malati di ricevere un salario in cambio di un’attività. Il tutto al fine di «mettere la malattia tra parentesi», questa grande idea di Basaglia che, senza negare la patologia, pensa che «non c’è relazione terapeutica libera se non con un malato mentale libero». L’esperienza ispira Marco Bellocchio per il suo film Matti da slegare, realizzato nel 1975.

Personale sanitario e associazioni di malati vengono a Trieste da tutto il mondo per capire come sia possibile una tale psichiatria. Roberto Mezzina, responsabile dell’ufficio di salute mentale della città, precisa il metodo: «La negoziazione è il nostro ingrediente principale. E, anche senza ospedale, sosteniamo servizi comuni/orti dotati di mezzi, sostegno politico, personale competente e tempo per lavorare». Per rimpiazzare l’ospedale vero e proprio, Basaglia, sostenuto da un presidente di regione piuttosto visionario, aveva immaginato dei centri di salute mentale in città, ispirati al modello anglosassone di Maxwell Jones (4).

Oggi, i quattro centri di Trieste sono aperti 24 ore su 24 e dispongono ciascuno di 6 o 7 letti, per un’area di duecentoquarantamila abitanti. Su tutto il territorio italiano, esiste una media di 10 letti per centomila abitanti, cioè circa nove volte di meno che in Francia nel periodo 2000-2010 (secondo Eurostat). L’accento è messo sull’accoglienza durante la giornata – in ambulatorio. Nel centro Gambini, vicinissimo alla principale via dei negozi della città, le persone sofferenti di disturbi psichiatrici vengono per il trattamento, un pasto, incontrare un assistente sociale, uno psichiatra o uno psicologo, partecipare ad attività o a gruppi di ascolto. Nessuno resta qui più di una settimana o due, e solamente nei casi di crisi. I pazienti vivono il più possibile in famiglia o in centri di accoglienza e in appartamenti non medicalizzati.

Il pronto soccorso psichiatrico esiste all’ospedale generale. Il clima è disteso: le porte sono tutte aperte, tutto è chiaro, pulito, accogliente. Ci sono solo 8 letti. La contenzione (il fatto di essere legato a un letto o a una poltrona) è proibita. La legge italiana riserva il trattamento sanitario obbligatorio a situazione eccezionali e lo limita a una settimana al massimo. «Chiaramente, per noi, l’ospedale è patogeno, spiega Mario Colucci, psichiatra e coautore con il filosofo epistemologo Pierangelo Di Vittorio di un libro su Basaglia (5). Ma la crisi è sempre possibile per uno schizofrenico, per esempio, in preda a una psicosi intensa. Se arriva al pronto soccorso, deve sentire che non si tratta di una prigione, che non ci sono nemici fra quelle mura e che potrà uscire rapidamente. È essenziale affinché accetti il trattamento.» Da qui il grande lavoro, a monte, di animazione sul territorio, con strutture che vedono insieme malati e non, e con la sensibilizzazione delle forze dell’ordine.

Il processo di «de-istituzionalizzazione» non si ferma con la morte di Basaglia, nel 1980. La riabilitazione sociale prende forma oggi in altre maniere, visto che la crisi economica e il contesto ideologico conservatore complicano la missione delle cooperative di lavoro, perno del dispositivo. Il dipartimento di salute mentale sperimenta il «budget personale», vale a dire una somma di denaro data sulla base di un contratto con il beneficiario, il quale si impegna su un progetto: una formazione, l’inizio di un’attività professionale, artistica... «Quello che rende il malato anche un escluso riguarda tutto il sistema: la legge, il dominio economico e sociale, i rapporti di classe... La dimensione politica era evidente per Basaglia e resta una questione determinante», ricorda Di Vittorio. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha riconosciuto la qualità del lavoro svolto a Trieste. Non ci sono state situazioni problematiche maggiori. L’ospedalizzazione sanitaria obbligatoria concerne meno del 10% dei pazienti, mentre il tasso di suicidi (già debole in Italia) è diminuito di due volte fra il 1990 e il 2011.

Questo approccio non ha però sempre convinto. «Molti medici stranieri hanno detto che il paese aveva abbandonato i propri malati, dice lo storico della medicina Jean-Christophe Coffin. Negli anni ’70 la sinistra radicale francese ha considerato per esempio che se si riduceva lo spazio dell’ospedale pubblico, si riduceva di fatto il ruolo dello Stato. È un errore, perché è l’istituzione che era presa di mira da Basaglia e non le cure.» Lucien Bonnafé, psichiatra francese e militante comunista, o ancora Jean Oury, fondatore della clinica La Borde, hanno criticato Basaglia pur essendo d’accordo con la sua volontà di modificare l’organizzazione psichiatrica e sulla sua denuncia della marginalizzazione del pazzo, associato al povero. «Ritroviamo un’ambivalenza dello stesso tipo nel panorama italiano, visto che Basaglia e la città comunista di Parma [dove lavorò per un periodo] hanno avuto un rapporto complicato... in tutti i casi più complicato che a Trieste dove il sindaco dell’epoca era democristiano.»

L’angolo morto degli Opg

Oggi numerose collettività italiane non adempiono al loro ruolo, per mancanza di mezzi o eccessiva cautela politica. A Milano o a Roma, alcuni centri sono aperti solo qualche ora al giorno, e ciò spinge in strada o al pronto soccorso generale i malati in preda alla crisi. Altre regioni si alleggeriscono dei loro malati rivolgendosi alle cliniche private, senza tener conto di coloro che non hanno i mezzi per farvi ricorso. Esiste ancora un angolo morto, reminiscenza del passato di isolamento, che offusca fortemente il quadro; gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), unità psichiatriche installate in carcere, sotto la doppia tutela del ministero della giustizia e della sanità. Circa 800 persone sono internate nelle sei strutture restanti.

Per farla finita con gli Opg è necessario però darsi i mezzi per curare realmente tutti i malati, quando, sin dalle sue origini, si chiede alla psichiatria di proteggere la società dai «pazzi». Basaglia lo diceva sin dal 1968: «Dove sono le responsabilità? Un uomo in grado di lasciare l’ospedale e che si vede respinto dalle persone a lui più vicine, dal suo datore di lavoro, dai suoi amici, da una realtà che lo vomita come un uomo di troppo, cosa può fare se non uccidersi o uccidere qualunque persona abbia per lui il volto della violenza che gli si infligge?» L’esperienza riuscita di Trieste risolve in parte queste contraddizioni: «Mi rifiuto di credere a una sorta di “specificità sociale” della nostra regione, sottolinea Giovanna Del Giudice, ex psichiatra di Trieste e membro del collettivo nazionale Stop Opg. Ho lavorato a Cagliari, in Sardegna, dove la situazione era molto degradata. Nel 2004 c’erano 74 persone nell’Opg provinciale. Alla mia partenza nel 2009, quarantatré. Oggi solamente dieci. Questo grazie a un presidente della regione illuminato che ha messo al centro del dispositivo il potenziamento delle cure di salute mentale». Secondo un responsabile di servizio al ministero dell’interno, le autorità stimano oggi che solo l’uscita dell’8% delle persone internate porrebbe dei problemi. La chiusura ufficiale degli Opg potrebbe, dopo lunghe tergiversazioni, avvenire nel prossimo aprile. La fine del manicomio è una vera avventura politica.
(1) Film tratto dall’omonimo libro di Mario Tobino, edito nel 1972. Nello stesso anno vinse il premio Campiello. Nel libro Tobino racconta la sua esperienza personale di medico psichiatra (ndt).
(2) Per esempio la politica di settore in Francia, concepita per lottare contro una forma centrata sull’ospedale e favorire le cure fuori le mura.
(3) La sua opera di maggior importanza è: L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, 1968.
(4) Psichiatra britannico (1907-1990) considerato come il padre delle «comunità terapeutiche», che proibiva i medicinali e aveva un approccio di riadattamento sociale.
(5) Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori, 2001.

(Traduzione di Luca Endrizzi)
ORA MI RIVOLGO AI RELIGIOSI E AGLI IMAM. È inconcepibile
«Ora che il pensiero che noi riteniamo più sacro faccia dell’intera umma (comunità musulmana mondiale, ndr) una causa di ansietà, pericolo, morte e distruzione per il resto del mondo». Dopo la strage parigina compiuta all’interno della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, tutti sanno quanto fegato ci voglia a parlare in questo modo dell’islam, del Corano e dei testi della tradizione islamica. Soprattutto se l’uditorio non è composto da occidentali islamofobi ma dal gran consesso di imam, ulema e studiosi dell’università di Al Azhar. Queste parole, pronunciate l’I gennaio, assumono ancora più valore se si considera che a pronunciarle è stato un musulmano sunnita. E non uno qualsiasi, ma il presidente dell’Egitto: «Questo pensiero e non sto parlando di “religione” ma di “pensiero” -, questo corpo di testi e di idee che abbiamo sacralizzato nel corso dei secoli, fino al punto
che separarsene è diventato quasi impossibile, si sta inimicando il mondo intero. Si sta rendendo nemico il mondo intero! È mai possibile che 1,6 miliardi di persone (i musulmani, ndr) vogliano uccidere i restanti sette miliardi di abitanti del mondo per poter vivere? No, questo non è possibile».
Durante il suo discorso, Abdel Fattah al Sisi, sposato e padre di quattro figli, eletto 1’8 giugno 2014, non ha tradito alcun segno di nervosismo e questo atteggiamento è perfettamente in linea con il modo in cui viene descritto da coloro che l’hanno conosciuto: una persona sicura di sé, tranquilla, di poche parole e schiva. Diceva di lui il cugino Ali Hamama quando Al Sisi, fmo a pochi anni fa militare sconosciuto alla stragrande maggioranza degli egiziani e del mondo, ha cominciato a diventare protagonista della vita politica del paese: «Non ci sono storie interessanti risalenti a quand’era bambino. Era sempre così serio. Abdel Fattah amava gli scacchi e si allenava sollevando pesi. Giocare a nascondino? Mai». L’intervento con
cui il presidente dell’Egitto ha chiesto ai responsabili più autorevoli del mondo islamico sunnita niente meno che una «rivoluzione religiosa» non è un’improvvisata, ma una conferma del percorso dell’ex generale, che ha un preciso obiettivo: mostrare che l’islam, al pari del cristianesimo, è compatibile con la democrazia. Il problema è: quale isiam e quale democrazia? Al Sisi, infatti, prima di essere eletto presidente ha deposto con un colpo di Stato il suo predecessore dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, ha dichiarato la Fratellanza un’organizzazione terroristica, mettendola mori legge, non ha impedito la condanna al carcere di centinaia di suoi mèmbri e viene visto da molti reduci della cosiddetta “Primavera araba” come il nuovo Faraone.
La carriera militare
Nessuno a Gamaleya, cuore pulsante della vecchia Cairo islamica, nel centro della capitale egiziana, a poche dozzine di metri dalla moschea di Al Azhar, si sarebbe mai immaginato che quel ragazzo di
quartiere, nato nel novembre del 1954, secondo di otto fratelli, sarebbe diventato un giorno l’uomo più importante del paese. Cresciuto in una famiglia molto religiosa, Al Sisi dopo la scuola si recava tutti i giorni a lavorare nella bottega di artigiani di famiglia, situata nel bazaar di Khan el Khalili, la meta turistica più visitata dopo le Piramidi. Realizzava arabeschi e a sentire il cugino sapeva come farli «ed era anche molto bravo». Disciplinato, «quasi apatico», devoto e riservato, «di famiglia ricca ma sempre umile», il destino del giovane Abdel Fattah non era però l’artigianato ma la carriera militare. Iscritto in una scuola secondaria e poi all’accademia, si è laureato nel 1977 e tra gli anni Ottanta e Novanta ha scalato i gradi nelle brigate di fanteria meccanica, dove tutti si sono accorti che nonostante il carattere apparentemente docile, aveva le stimmate della leadership.
Negli ultimi anni del regime di Hosni Mubarak, Al Sisi è stato trasferito nell’intelligence militare, uno dei tanti organismi accusati dal popolo egiziano di sva-
>nnti crimini. Questa militanza non ha giovato alla sua immagine, così come il rifiuto di criticare completamente l’ex raìs, ma l’uomo che nel giro di tré anni, dalle prime proteste di piazza Tahrir, è diventato il generale più giovane dell’esercito, capo del Consiglio supremo delle forze armate, ministro della Difesa e poi presidente, ha dimostrato di saperci fare anche con la politica. La “Primavera araba” ha segnato una svolta nella sua vita e in quella di tutto il paese, e la sua elezione a presidente è frutto tanto della sua capacità di leggere la volontà degli egiziani e di agire rapidamente, quanto dell’incapacità, della divisione e dell’assenza di alternative fornite dai giovani che hanno posto fine al regime di Mubarak.
Tutti si chiedono se l’uomo che oggi guida l’Egitto sia un dittatore, un islamista, un rivoluzionario, un nazionalista o la combinazione di tutte queste cose. E nessuno sa darsi una risposta perché Al Sisi cita spesso il Corano a memoria ma ha messo al bando i Fratelli Musulmani. Non può che essere considerato un uomo della vecchia guardia ma parteggia per la democrazia e nella nuova Costituzione che ha fatto approvare, viene garantito un livello di libertà (anche religiosa) mai conosciuto prima. Ha le idee più chiare Sherifa Zuhur, docente americana del presidente egiziano quando questi, nel 2005-2006, è stato inviato negli Stati Uniti, in Pennsylvania, a perfezionare gli studi militari. È di quegli anni un saggio di 11 pagine scritto da Al Sisi dal titolo: “Democrazia in Medio Oriente”. «Al Sisi non è un islamista segreto: non lo è mai stato e non penso lo sia ora», afferma Zuhur. «È invece un pragmatico: discuta e giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani, non era più il presidente dell’Egitto. L’allora ministro della Difesa e capo delle Forze armate ha saputo sfruttare una petizione firmata da oltre 20 milioni di egiziani che chiedevano le dimissioni di Morsi e ha capito che era arrivato il momento di prendersi il paese. Gli egiziani hanno perdonato ad Al Sisi la strage di Fratelli Musulmani del 14 agosto e la loro messa al bando per un solo motivo, come ricordato da Tewfik Aclimandos, ricercatore egiziano al Cairo dal 1984 al 2009: «Gli egiziani si sono stufati della Fratellanza perché questa ha compiuto attentati terroristici in tutto il paese. Nessuno in Egitto vuole più morire in un attentato. Ora c’è bisogno di uno Stato forte, di sicurezza, democrazia e giustizia sociale».
tendo di califfati e islamizzazione delle istituzioni, vista la grande religiosità della maggior parte degli egiziani, vuole mostrare che l’islam può essere compatibile con la democrazia». Più precisamente: «II punto che vuole sottolineare nel suo saggio è che non si può parlare di democrazia puramente secolare in Medio Oriente» e che allo stesso tempo «non si può monopolizzare la scena politica (...) impossessandosi di una religione».
Come si sfrutta una petizione
Alla luce di queste parole non stupisce che Al Sisi, il 3 luglio 2013, dopo aver portato in piazza i carri armati, abbia annunciato in diretta televisiva che Mohamed Morsi, eletto nel 2012 con il partito Liber-
In un paese che ha avuto quattro presidenti della Repubblica tra il 1953 e il 2011, e altri quattro tra il 2011 e il 2014,
Al Sisi ha compreso il bisogno di stabilità del popolo, ha cercato di rilanciare l’occupazione sfruttando l’amicizia dellArabia Saudita, tagliando i sussidi che rovinano l’economia del paese e rilanciando al contempo all’Occidente una proposta che non si può rifiutare: fermare il terrorismo islamico in Iraq, Siria e Libia. Questo ha ripetuto in occasione della sua visita in Italia e in Vaticano di fine novembre, sottolineando al Corriere della Sera «quanto sia importante la stabilità dell’Egitto» in un Medio Oriente e Nord Africa che bruciano.
Nel mezzo di questo percorso di cambiamento del paese, a 60 anni tondi, Al Sisi ha preso la parola davanti agli imam di Al Azhar e ha dichiarato: «Quello che vi sto dicendo, voi non potete comprenderlo se rimanete intrappolati nella vostra mentalità. (...) Ho detto, e ripeto, che noi abbiamo bisogno di una rivoluzione religiosa. Voi, imam, siete responsabili davanti ad Allah. Il mondo intero, lo ripeto ancora, il mondo intero sta aspettando una vostra mossa... perché Finterà umma musulmana viene lacerata, viene distrutta, si sta perdendo. E si sta perdendo per opera delle nostre stesse mani». Pochi giorni dopo, la sera del 6 gennaio, in occasione del Natale dei copti ortodossi, ha partecipato al Cairo alla Messa solenne presieduta dal patriarca Tawadros II (prima assoluta per un capo di Stato egiziano) e ha detto: «È importante che oggi il mondo guardi gli egiziani. Avrete notato che ho usato solo la parola “egiziani”», non musulmani o cristiani, perché «noi siamo tutti egiziani». Un concetto inedito in un paese dove i cristiani, il 10 per cento circa della popolazione, sono perseguitati e considerati cittadini di serie B. Ma il coraggio è il minimo che ci si possa aspettare dal “Leone d’Egitto”, uomo che rilascia dichiarazioni di questo calibro:
«II nostro esercito potrebbe annientare lo Stato islamico in poche settimane».