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 2015  gennaio 14 Mercoledì calendario

QUARANT’ANNI DI LUCY


Sono passati quarant’anni. Quarant’anni dalla scoperta del più celebrato fra i fossili dell’evoluzione umana: buona parte dello scheletro di una giovane femmina di australopiteco il cui nome si ispira a una canzone dei Beatles: Lucy. È stato a novembre 1974, infatti, che Donald Johanson scopriva Lucy (e non solo), la studiava poi per diversi anni e la raccontava al mondo. Apriva così nuove prospettive per le ricerche in Africa orientale e per la scienza delle nostre origini in generale.
L’anno prima, Johanson aveva partecipato a una missione franco-statunitense nei territori mai esplorati da paleoantropologi nella regione degli Afar, in Etiopia. Segnata dalla valle del fiume Awash, quest’area è parte dell’estensione settentrionale del complesso sistema di fratture tettoniche noto come Rift Valley. Qui, in una località chiamata Hadar, Johanson e gli altri rinvennero nel 1973 i primi resti di una forma arcaica di australopiteco. Quindi, nel 1974 venne Lucy; ovvero, per gli specialisti, AL 288-1 (dove AL sta per Afar Locality). Ancora, nel 1975 l’insieme di circa 200 frammenti fossili appartenenti a un minimo di 13 individui adulti e giovani, denominato «la prima famiglia» (AL 333); negli anni novanta, il cranio maschile della stessa varietà di australopiteco (AL 444-2); e molto altro ancora, fino alle ultime missioni. Questi reperti sono rappresentativi di una singola specie estinta denominata nel 1978, dallo stesso Johanson con Tim White e Yves Coppens, Australopithecus afarensis.
Con le ricerche degli anni settanta ad Hadar venne letteralmente sfondato il limite dei tre milioni di anni fa, fino a quel momento ritenuto già molto elevato per la cronologia dei più antichi precursori dell’umanità. Lucy, per esempio, avrebbe un’antichità di circa 3,2 milioni di anni.
Ad Australopithecus afarensis vengono anche riferite le impronte scoperte a Laetoli, in Tanzania, nel 1976. Si tratta di una pista di almeno 20 metri, composta da due file di orme lasciate da primati bipedi verso i 3,6 milioni di anni fa. La morfologia delle singole impronte e l’andamento delle piste ci dicono molto sul piano strettamente anatomico e funzionale, e quindi aggiungono informazioni a quanto possiamo desumere dallo studio dei resti scheletrici. Ma soprattutto, direi, a Laetoli sono impressi alcuni fotogrammi che raccontano un momento della vita di queste antichissime scimmie antropomorfe bipedi.
Un altro reperto di straordinario interesse venne scoperto nel 2000 in una località a pochi chilometri da Hadar: Dikika. Si tratta del cranio e di parte dello scheletro di un individuo datato 3,3 milioni di anni fa circa. Ipoteticamente di sesso femminile, morì all’età di tre o quattro anni. La potremmo chiamare così: la cucciola di Lucy.
Grazie al numero e alla varietà dei reperti attribuiti ad Australopithecus afarensis, siamo in grado di affrontare e comprendere la variabilità interna a una specie estinta di nostri antenati e di chiarirne aspetti della biologia e del comportamento. Per esempio, un dibattito ancora attuale riguarda la possibilità che Australopithecus afarensis sia stata una specie con elevato dimorfismo sessuale, simile al grado di diversità tra i sessi – dimensionale, ma anche morfologica – di scimmie antropomorfe viventi, come gorilla o gli orangutan.
Questo dato suggerisce che difficilmente la struttura sociale delle più antiche specie di australopiteco poteva essere basata su un modello «promiscuo» simile a quello degli scimpanzé o addirittura sulla monogamia, visto che un elevato dimorfismo sessuale nei primati superiori è associato a elevata competizione tra i maschi per la riproduzione e a strutture sociali cosiddette ad «harem».
È uno degli aspetti che intorno a due milioni di anni fa, con la comparsa del genere Homo, cambierà radicalmente.