Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 13 Martedì calendario

LA CRISI DELLE PILLOLE AL CIANURO


È il 30 settembre 1982, una giornata come tante nella sede della multinazionale Johnson&Johnson. Nemmeno la telefonata di un giornalista è preoccupante, almeno fino a quando il reporter del «Chicago Tribune» inizia a chiedere informazioni dettagliate sull’azienda, su una delle consociate, su un farmaco di largo consumo.
All’ufficio relazioni pubbliche cominciano a domandarsi cosa interessi a un giornalista la situazione della McNeil Consumer Products Co. e del loro prodotto di punta, il Tylenol, un antipiretico e analgesico a base di paracetamolo. Il direttore dell’ufficio, insospettito dalla telefonata, decide di richiamare il giornalista e scopre che sta indagando su un caso di morte sospetta, avvenuto nell’area di Chicago, probabilmente collegato all’assunzione del Tylenol. È successo il giorno prima, quando una ragazzina di 12 anni, Mary Kellermann, ha chiesto ai genitori un rimedio per il mal di gola e il raffreddore. La mattina seguente Mary viene ritrovata priva di sensi; accompagnata d’urgenza in ospedale, muore poche ore dopo il ricovero.
Quello che il giornalista ancora non sa è che nel pomeriggio dello stesso giorno una tragedia simile ha colpito la famiglia Janus; sono in tre ad avere un collasso dopo aver assunto il farmaco, e nessuno è sopravvissuto.
È un pompiere di nome Philip Capitelli il primo a intuire il possibile collegamento tra i casi e a lanciare l’allarme, senza impedire però che, il 30 settembre, altre tre persone perdano la vita.
Le indagini dell’FBI, sostenute dai referti medico legali, portano a scoprire che le sette vittime avevano assunto capsule modificate di Tylenol Extra Strength cui qualcuno aveva aggiunto 65 milligrammi di cianuro. La dose letale di cianuro va dai cinque ai sette microgrammi, e ciò sta a significare che ogni vittima ha ingerito una quantità di veleno 10.000 volte maggiore a quella che sarebbe bastato per ucciderli. Tanto che in una dichiarazione ai media, Thomas Kim, primario del Northwest Community Hospital, afferma che le vittime non avrebbero avuto nessuna possibilità d’essere salvate, anche se l’intervento fosse stato tempestivo.

Gestione esemplare
II caso dei «Tylenol Murders», come viene etichettato dalla stampa, diventa presto uno dei più complessi al mondo, valutabile dalla mole della rassegna stampa relativa, con 138.000 articoli. Per comprenderne le ragioni basta considerare che nei primi anni ottanta, negli Stati Uniti, il mercato degli analgesici da banco ammonta a un miliardo di dollari, e la quota di mercato attribuibile al Tylenol è pari al 35 per cento.
Accanto alla drammaticità dei fatti, quello del Tylenol è un caso che è entrato di diritto nella storia del crisis management, ancor oggi citato per l’esemplare gestione della comunicazione da parte del gruppo J&J. Le decisioni, prese e attuate con rapidità dal top management dell’azienda, hanno infatti portato a risultati positivi in termini di mantenimento e recupero, se non addirittura di rafforzamento della fiducia dei consumatori e delle quote di mercato.
Jim Burke, il GEO di J&J, affida a David Collins la gestione della crisi, che a sua volta può contare su una squadra di esperti creata per l’occasione, compreso un buon numero di specialisti in pubbliche relazioni; il team si occupa esclusivamente della crisi, fino al momento della sua risoluzione, permettendo al resto del management di rimanere concentrato sulla gestione del business.
Per ottenere la maggiore collaborazione possibile attraverso una rapida e capillare informazione, J&J invia qualcosa come mezzo milione di messaggi a giornalisti, farmacisti, medici e in generale alle categorie professionali interessate; dirama annunci su giornali, e lancia spot in radio e TV, per invitare i consumatori a riconsegnare le confezioni di Tylenol di cui erano in possesso.
Contemporaneamente, mette a disposizione dei cittadini un numero verde attivo 24 ore su 24, per fornire qualsiasi informazione in merito.
Prima della crisi, Johnson&Johnson non era particolarmente interessata al rapporto con i media, ma quando la società si trova a gestire la crisi del Tylenol, il crisis team riconosce immediatamente i vantaggi di una comunicazione efficace, sfruttando al meglio la diffusione degli avvisi al pubblico.
Johnson&Johnson ferma poi l’intera produzione e la pubblicizzazione del farmaco, ritirando in soli cinque giorni 31 milioni di confezioni di Tylenol da distributori, grossisti, farmacie e abitazioni private; e questo nonostante la Food and Drug Administration lo ritenga un provvedimento non necessario.

Ritiro immediato
Dopo aver trovato altre due capsule di Tylenol contaminate, l’azienda comprende la vulnerabilità alla manomissione delle proprie confezioni. Con il ritiro del farmaco, Johnson&Johnson dimostra che non è disposta a rischiare la sicurezza dei clienti; una politica strategicamente perfetta, che porta l’opinione pubblica a considerare l’azienda non come colpevole, ma come la sfortunata vittima di un crimine.
Ma J&J non si è limita ad agire all’esterno, avviando rapidamente un’indagine e accertando che l’avvelenamento non è avvenuto durante il processo di produzione o confezionamento, ma è frutto di un sabotaggio esterno.
Fin dai primi giorni della crisi, gli executive di J&J si rendono disponibili a rilasciare interviste e a partecipare a trasmissioni radiotelevisive, dove chiariscono la posizione dell’azienda, assicurandosi l’importante ruolo di fonte di informazione tempestiva, accurata e affidabile. Anche i dipendenti del gruppo vengono costantemente informati.
Bloccata la fase acuta della crisi, eliminato il pericolo di nuovi avvelenamenti, J&J si interroga su come rivedere le procedure di confezionamento di un farmaco come il Tylenol, per evitare che episodi del genere possano ripetersi. Anche quest’aspetto viene pensato nell’ottica di riconquistare la fiducia dei consumatori, non solo verso il prodotto ma soprattutto verso l’azienda.
Con la collaborazione dell’FDA, l’Agenzia americana del farmaco, i tecnici di J&J studiano una nuova confezione tamper-proof, a prova di manomissione, e sei settimane dopo il ritiro del Tylenol annunciano la messa in commercio della specialità, illustrandone le novità tecniche in una video conferenza che coinvolge in simultanea 30 diverse località degli Stati Uniti, con la possibilità che i giornalisti presenti nelle varie sedi possano interrogare i relatori.
Durante la conferenza, si annuncia anche la distribuzione di un coupon che dà diritto a un sconto di due dollari e 50 sull’acquisto di una qualsiasi confezione di Tylenol, un buono sconto disponibile su quotidiani e riviste convenzionati, o facendone richiesta al numero verde. Infine, con un investimento non indifferente, più di 2000 rappresentanti di Johnson&Johnson sono inviati dall’azienda in tutti gli Stati Uniti per presentare il nuovo farmaco e rilanciare così il prodotto sul mercato.

Nessun colpevole
Nell’arco di cinque mesi, il Tylenol recupera il 70 per cento della sua quota di mercato, scesa al 13 per cento durante il momento di massima crisi recupero che raggiunge il 98 per cento nel volgere di pochi anni.
Un’imponente comunicazione con media, pubblico e autorità, accanto a un nuovo packaging anti manomissione: irrinunciabili passaggi di marketing e comunicazione, che hanno contribuito a creare un clima di fiducia e a consolidare l’immagine della società. Quella della J&J è stata soprattutto una dimostrazione di lungimiranza, in termini di buona gestione della crisi: la prima acuta intuizione è stata proprio quella di comprendere che il rischio stava nel pericolo che il nome dell’azienda rimanesse macchiato da un episodio, compromettendo quindi non solo un unico, per quanto importante, settore di mercato ma l’intero business del gruppo.
Sul mistero di chi sia stato il responsabile dell’avvelenamento di sette innocenti, è possibile solo dire che, come accade in casi simili, si sono fatti avanti un buon numero di mitomani e ricattatori più o meno ingenui. Come James Lewis, un contabile disoccupato che ha tentato di estorcere un milione di dollari alla Johnson&Johnson. Nell’ottobre 1995 Lewis è stato rilasciato dal penitenziario federale di Reno, nel Nevada, dopo avere trascorso in cella 12 anni.
All’epoca dei fatti, il coinvolgimento della Behavioral Science Unit dell’FBI e del suo più celebre profiler, John Douglas, ha portato a questo identikit psicologico: «L’assassino è un solitario, spinto dalla rabbia, dall’odio verso l’intera società. È probabile che nel passato sia ricorso a cure psichiatriche, abbia chiesto aiuto per gestire un’emotività spiccata, con scivolamenti depressivi alternati a crisi d’ansia e difficoltà a controllarsi. È possibile che nel corso della sua vita abbia deciso di lamentarsi apertamente per i soprusi che ritiene di avere subito dalla società. E lo abbia fatto tentando di contattare qualche personaggio di spicco, sia scrivendogli che telefonandogli. È probabile che l’assassino si sia sentito respinto e rifiutato da chi ha cercato di interpellare per un ascolto e un aiuto, e che questo abbia ulteriormente alimentato la sua rabbia e lo abbia spinto a uccidere, a uccidere chi capitava, e a non smettere».
Un profilo che tuttavia non ha condotto ad alcun arresto. A tutt’oggi il criminale responsabile di questi omicidi non è stato identificato e la taglia di 100.000 dollari offerta da J&J non è mai stata reclamata.
(Ha collaborato Alessandro Picozzi)