Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 10 Sabato calendario

«VI RACCONTO I SEGRETI DELL’ANTIDOPING»

[Intervista a Pino Capua] –
C’è un’ombra sulla favola del Carpi, primo in serie B con 9 punti di vantaggio su Frosinone e Bologna: la positività di Fabio Concas, genovese di 28 anni, esterno brillante, rivelatosi nel 2011 al Varese di Sannino. È il metabolita della cocaina e allora Concas rischia un anno e mezzo di stop, come Maradona nel ’91. È l’occasione per raccogliere la testimonianza di Pino Capua, dal 2001 presidente della commissione antidoping della Federcalcio. Qui racconta 14 stagioni di controlli, ci guida in quelle segrete stanze, offlimits per tutti. Dottore, le positività negli ultimi anni sono molto rare nel calcio professionistico italiano. Ha il timore che esista un doping sommerso? «Dobbiamo andare per analisi e numeri, teniamo per noi le sensazioni. Le procedure utilizzate nel calcio e negli altri sport sono dettate dalla Wada (world anti doping agency) e dalla Nado, l’agenzia antidoping del Coni, dunque seguiamo le regole stabilite per il nostro sport nel mondo. E abbiamo il primato assoluto per numero di controlli». Quanti ne effettuate? «In Italia 3500-4000 l’anno, dalla serie A al calcio femminile, nel calcio a 5 e in serie D invece sono a cura del ministero della salute, per convenzione». Ogni tanto sono emerse positività a cannabinoidi e cocaina. «Sostanze non mirate a migliorare la prestazione sportiva. Si tratta di vizi individuali, di abuso di droghe, nel caso Concas aspettiamo che si compia l’iter delle controanalisi e che si arrivi a giudizio». Nel 2010 l’ex attaccante Flachi è stato sanzionato con 12 anni di squalifica, perchè positivo per la seconda volta alla cocaina. A giugno scadrà la squalifica di 8 stagioni all’ex portiere Pagotto, ora 41enne, per lo stesso motivo. «E nel 2006 Bachini fu squalificato a vita. La pena a mio avviso deve comunque permettere una riabilitazione, va recuperato l’uomo: non si può penalizzare così tanto, anche a fronte di due errori compiuti». Qualche anno fa impazzavano le positività al nandrolone e i calciatori inchiodati dai test proponevano le versioni più assortite: l’ex juventino Blasi, per esempio, diede la colpa a uno shampoo. «In effetti anche a me sembravano scuse. All’epoca si assisteva all’invasione di anabolizzanti: si contaminavano integratori considerati leciti e la cosa veniva regolarmente smascherata con le analisi all’Acquacetosa. Lì emersero le anomalie dei valori, grazie a mezzi per analisi di altissima precisione. A capo dell’organizzazione c’è il romano Francesco Botrè, il migliore al mondo». Le positività sono rituali, nell’atletica leggera e nel ciclismo, soprattutto a livello internazionale. «Al calcio serve lo stesso rigore per far sparire ogni sospetto, però siamo già attrezzatissimi». Ecco, come avvengono i controlli? «Ci sono sempre l’ispettore antidoping della federazione medico sportiva, e uno o due rappresentanti federali: all’interno della sala garantiscono la regolarità del test, sono attenti anche alle virgole. Abbiamo 200 rappresentanti federali, fra questi avvocati, ingegneri, persino giudici e poliziotti». Come avviene il sorteggio dei designati? «È secretato. Le buste vengono spedite dal Coni e sono aperte a un quarto d’ora dalla fine della partita. Nella stanza ci sono solo l’esponente della federcalcio, il medico della società calcistica e l’ispettore che si prende in carico il prelievo». Sono sempre 2 per squadra, i sorteggiati? «A volte anche soltanto uno per ciascuna. Si concorda con il Coni, ente di controllo per tutti gli sport. Alla fine della gara i prescelti vengono invitati nella sala antidoping, per il controllo sulle urine o, più raramente, su sangue e urine». Controllando il sangue si hanno maggiori garanzie? «Indubbiamente. Il prelievo sanguigno è iniziato nel 2003, siamo stati i primi al mondo in campo calcistico, e solo il ciclismo ha l’abitudine del controllo ematico». Qualche curiosità relativa ai test? «Una volta da San Siro sono uscito alle 2 di notte, per aspettare che Bernardo Corradi, all’epoca attaccante nella Lazio. Ogni tanto scendo anch’io a seguire il controllo. E poi mi occupo delle designazioni dei dirigenti federali incaricati». Chi apre il contenitore per le urine? «Arriva sigillato, tocca al medico o al giocatore, alla presenza appunto del dirigente. Il recipiente è naturalmente sterile e viene scelto fra 4 inviati per evitare sospetti. Il calciatore controllato entra nel bagno da solo, però ci sono specchi per evitare qualsiasi tipo di trucco». In mancanza degli specchi il medico sorveglia per prevenire imbrogli? «Una volta espletato il test, la provetta è chiusa e sigillata. Viene stilato un verbale con i codici dell’atleta, cosicchè chi si occuperà delle analisi all’Acquacetosa non sappia a chi appartiene quel campione di urine. Neanche si conosce lo sport in questione». È mai stato invitato a testare un atleta in particolare? «No. Nè mi sono arrivate delazioni, potrei comunque chiedere al Coni un controllo mirato. Il sorteggio è random». I laboratori hanno mai sbagliato? «L’unico caso che mi addolora riguarda Francesco Acerbi, il difensore del Sassuolo tornato di recente in nazionale. Nelle urine si vedevano tracce della ripresa del tumore, venne inizialmente sanzionato questo atleta che non doveva essere fermato: ci siamo ricreduti a distanza di un po’ di tempo, per la gravità della malattia; per qualche giorno, tuttavia, sui giornali era apparsa la notizia come fosse stato positivo». Albertino Bigon, allenatore dello scudetto del Napoli, racconta che in coppa le squadre dell’Est, negli anni ’70, erano talmente dopate che i giocatori entravano nello spogliatoio sbagliato. Quando cominciarono i controlli antidoping, nel calcio? «In serie A, all’inizio degli anni ’80. In Europa sono arrivati un decennio prima, dalle olimpiadi di Monaco 1972. Da noi, la vera rivoluzione è stata la creazione della commissione federale antidoping». Quante sono le sostanze proibite? «Centinaia e ogni anno la lista viene aggiornata. Il sito del Coni le riporta tutte». Cosa può sfuggire? «Considerato anche che non si trovano più positività, serve creare il passaporto biologico. Dunque 3-4 controlli l’anno, per valutare le differenze dei valori a distanza di circa 3 mesi, così si risale a ritroso, per vedere se l’atleta ha veramente utilizzato sostanze proibite». Quando sarà applicato? «Noi siamo pronti da 2 anni, in accordo con il Coni vorremmo avviarlo il prima possibile. La Fifa ha già applicato il protocollo ai mondiali in Brasile». Nel ’98 Zeman disse che il calcio doveva uscire dalle farmacie. Aveva ragione? «Obbligò a una riflessione, il nostro sport gli deve tanto». I medici che propinano doping sono sempre molto avanti. Chi sono, invece, i migliori nelle società sportive? «I nostri sono tutti bravi. Non credo che nessuno consigli farmaci inutili o dannosi, ai 25-30 calciatori che hanno in rosa». All’estero la lotta al doping è altrettanto profonda? «Siamo in rapporti con tutte le federazioni: in Francia vengono effettuati 700 controlli l’anno, in Inghilterra 1000, dunque un quarto rispetto ai nostri». Esistono test per arbitri? «Non sono previsti». È la Figc a pagare la federazione medico sportiva per eseguire i controlli. Ogni anno quanto spende? «Fra il milione e 600mila e il milione e 800mila euro. Cifra senza eguali al mondo». Agli sportivi che messaggio si sente di dare? «Qualsiasi sostanza dovesse migliorare la prestazione, nuoce sicuramente alla salute. E dunque da un momento all’altro si può rischiare la vita. Magari non subito, ma sono pericolose».