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 2015  gennaio 10 Sabato calendario

«DALLA STAMPA CLANDESTINA ALL’ANSA E A 95 ANNI MI SONO FATTO IL BLOG»

«Sono qui, Perna», dice Sergio Lepri comparendo sull’uscio mentre mi aggiro incerto a quale porta suonare. Non incontravo da un quarto di secolo l’oggi novantacinquenne ex direttore dell’Agenzia Ansa, decano del giornalismo italiano. Lepri, che ha retto l’Ansa per 28 anni, dal 1962 al 1990 inserendola tra le grandi agenzie di stampa del mondo, è un uomo riservato. Quando per telefono gli ho chiesto l’intevista si è schermito con questa scusa: «Ma, Perna, mi sento ancora che dovrei farle io le interviste». Poi ha accettato perché quarant’anni fa ero stato un suo redattore e, sempre al telefono, mi ha fatto una grazia che mai mi avrebbe concessa prima: «Diamoci del tu». «Siediti qui», dice con l’accento fiorentino mai perduto pur vivendo a Roma da settant’anni e indica la poltrona che mi ha destinata nel suo bel salotto.
Lepri è un fenomeno naturale. Si muove e parla come un sessantenne. Vive da solo e ha appena traslocato arredando il suo appartamento con la cura che suppone una moglie. È, invece, vedovo da tre anni dopo sessantacinque di matrimonio. Passa la giornata scrivendo. Ha un blog molto seguito. Apprezza il web perché può aggiornare continuamente gli scritti che ci mette. Non disdegna però l’editoria tradizionale e ha appena pubblicato con Rai-Eri un volume che firma con il coetaneo e concittadino Ettore Bernabei, leggendario ex direttore generale della Rai-tv degli anni ’60. Un dialogo tra due quasi centenari che, sul filo dei ricordi, ripercorrono la storia d’Italia dal 1920 a oggi. Va infine detto per completare il periplo del suo attivismo che, se non fosse impegnato con me, Lepri starebbe ora giocando a tennis al Circolo Montecitorio sulle rive dell’Aniene, dove due volte la settimane emula Mac Enroe. «Hai mai pensato di essere altro che giornalista?», gli chiedo appena siede a sua volta. «Dal 1944, no -risponde-. Ero già laureato in Filosofia e avviato alla carriera universitaria ma, con l’8 settembre e l’ingresso nella resistenza, la mia vita prese una nuova piega. Feci il giornalista clandestino dirigendo il foglio liberale l’Opinione. Da allora, sono esattamente settant’anni di giornalismo. Lì è maturata la mia idea del mestiere come servizio per la democrazia. È quanto ho sempre detto ai miei allievi nei sedici anni in cui ho insegnato giornalismo alla Luiss». «Alla politica hai mai pensato?», chiedo. «Non faceva per me -dice-. L’ho costeggiata con Fanfani, presidente del Consiglio nel ’58-’59. Fu lui il primo a volere un portavoce per i rapporti con la stampa. Chiese a Bernabei, col quale era un tutt’uno, di trovargli “un non dc” per dare credibilità al ruolo. Ettore propose me. L’esperienza fu preziosa ma, appena Fanfani cadde, tornai subito al mio mestiere ed entrai all’Ansa». «In quota fanfaniana, come si è sempre detto», faccio io. «Si diceva, ma era falso -replica-. Non potevo essere dc: non ero e non sono credente». «Ti ho sempre creduto un democristianone», sbalordisco. «Mai stato. Ti ho detto del Pli. Quando nel 1946 ci fu il referendum istituzionale, il Pli si schierò però con la monarchia. Io ero repubblicano e da allora votai Pri».
«Com’è cambiato il giornalismo?». «Il ’68 ha spazzato via tutto. Siamo passati dall’800 al Duemila. Dal delitto d’onore approdammo all’aborto. Il giornalismo fu causa e subì gli effetti del cambiamento. A influenzarlo fu la tv che, essendo spettacolo, lo spettacolarizzò. L’informazione è diventata gridata. Internet l’ha poi resa incontrollabile». «Troppa libertà?», chiedo. «Non sempre bene usata. Prima un giornalista, per esprimere spirito critico, parlava male di Garibaldi. Oggi, si dice male di tutti i garibaldi. Se mentre parla Draghi, novanta lo applaudono e dieci lo fischiano, la notizia diventa: “Draghi fischiato”. Un ribaltamento della realtà. Esagerazioni che dovrebbero avvincere il lettore e finiscono invece per allontanarlo». Lepri, che parla col sorriso sulle labbra, pare un innocuo maestro di giornalismo dai bei capelli bianchi. Io che però lo conosco dall’Ansa so il bel tipo che cova in lui. Dava del lei e lo esigeva. Se sbagliavi ti folgorava. Il giorno che commisi un errore mi rimandò lo scritto cerchiato in rosso accompagnato da due righe minatorie: «Ricordi che io l’Ansa la dirigo ma lei ci lavora». Quando, passato a un quotidiano, andai a salutarlo, mi disse: «Ci pensi bene. Chi esce dall’Ansa non ci rientra». Ma poi mi abbracciò. Secondo sondaggi, i giornalisti sono tra le categorie più impopolari. (ride) «Infatti, quando mi chiedono che faccio non dico giornalista ma docente universitario. Perché siamo caduti in basso? «Raccontiamo un sacco di palle. Scriviamo “meteorite ha sfiorato la Terra”, mentre è passato a migliaia di chilometri di distanza, o “Italia è spaccata in due” per un incidente che ha solo interrotto il traffico sull’Autosole». Eppure rischiamo la pelle. Come oggi i colleghi di “Charlie Hebdo” o ieri con le Br. «Le Br avevano finalità politiche ed erano, se non comprensibili, prevedibili. Gli islamici sono più pericolosi perchè puramente irrazionali». Ti sei battuto, con libri e manuali, per la buona lingua: un colpo si "spara", non si "esplode", ecc. Battaglia vinta o persa? «Vanto qualche successo. Il Codice penale parlava di associazione “a delinquere”. Io scrissi che la dizione corretta era “per delinquere” e oggi il codice l’ha adottata. Nilde Iotti si faceva chiamare “il presidente della Camera”, io all’Ansa facevo scrivere “la presidente”. Alla fine anche la Iotti optò per la presidente». Insuccessi? «Susanna Agnelli si faceva chiamare senatore Agnelli, ma l’Ansa scriveva senatrice Agnelli. Lei, con l’arroganza che solo gli Agnelli potevano avere, mi disse che voleva scrivessimo "senatore". "Senatore era suo nonno (Giovanni, ndr)-replicai-, lei invece porta la gonna ed è perciò senatrice”. Se ne andò senza salutare». Il tuo quotidiano? «Ne leggo tre: Corriere della Sera, La Stampa e la Repubblica, che mi piace meno ma è da leggere. Nient’altro per questioni di tempo. Per ogni giornale impiego un’ora» Il migliore del terzetto? «Nessuno mi soddisfa al cento per cento». Il giornalista principe in settant’anni di professione? «Premetto che c’entra l’amicizia: Arrigo Levi, Alberto Ronckey e (ci pensa un po’) Enzo Biagi». Indro Montanelli? «Ci sono vari Montanelli. Il Montanelli amato dalla destra e quello osannato dalla sinistra. Sempre simpatico e bravo ma variegato». Tra i giornalisti degli ultimi anni? «Oggi un articolo non può superare una colonna e mezzo, poco per potere apprezzare una firma. In realtà, si leggono ormai per lo più i titoli. L’opinione pubblica e perfino quella politica si formano su titoli che spesso tradiscono l’articolo». Ci sono ancora mitici direttori come Albertini, Missiroli, Montanelli, Scalfari? «Con la morte delle ideologie l’opinione è sminuzzata. Oggi, bravo direttore è chi intercetta questo sparpagliamento, non chi ha una grande personalità». Chi voti? «L’ultima volta Pd». Berlusconi? «Chi fa “le cene eleganti” non può fare l’uomo di governo. Ho conosciuto i De Gasperi, i Fanfani, i Berlinguer. Uno che in Piazza San Giovanni, davanti a centomila persone proclama: “In tre anni guarirò il cancro”, ha un disturbo narcisitico della personalità». Il tuo concittadino Matteo Renzi? «Che il giudizio sia positivo o negativo, dico che se fallisce viene fuori un disastro. Non vedo un’alternativa». Chi auspichi sul Colle? «Uno come Ciampi, con il quale sono in sintonia culturale. O uno come Napolitano di cui, a parte le idee che sono distanti, ho apprezzato l’azione politica al Quirinale». A 71 anni scalasti il Cervino. Cosa ci prepari per settembre quando ne compirai 96? «Ooh! (copre la faccia con la mano come una diva del muto) Alla mia età il domani fa paura». Ma stai un fiore! E poi ho bisogno di una bella chiusa. «Te la faccio io. Ho 65 pulsazioni al minuto. Motiplica per sessanta e fanno un’ora. Per 24 e fanno un giorno. Per 365 e fanno un anno. Per 95, che sono gli anni che ho. Sono tremila miliardi e duecento milioni di battiti che il mio cuore ha già prodotti. Avrà voglia di continuare? Il busillis è tutto lì».