Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 13/1/2015, 13 gennaio 2015
ROMA Per sperare di trovare qualche responsabilità nella morte di Stefano Cucchi, bisogna ricominciare daccapo
ROMA Per sperare di trovare qualche responsabilità nella morte di Stefano Cucchi, bisogna ricominciare daccapo. Più precisamente dal momento dell’arresto per qualche dose di droga, una sera di ottobre del 2009, una settimana prima del decesso, perché «non può essere definita una “astratta congettura” l’ipotesi secondo cui l’azione violenta ai danni di Cucchi sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare». Una ipotesi fondata «su concrete circostanze riferite anche da persone sulla cui attendibilità non vi è motivo di dubitare». Così hanno scritto i giudici della corte d’assise d’appello che lo scorso 31 ottobre hanno assolto tutti gli imputati: le guardie carcerarie accusate delle percosse e i medici del reparto carcerario dell’ospedale Pertini che non avrebbero curato adeguatamente il detenuto. Mettendo la parola fine sulle presunte colpe di chi è stato giudicato finora (salvo il già annunciato ricorso in Cassazione) e scrivendo l’inizio di un nuovo capitolo giudiziario. Ma non sarà un percorso facile, e l’esito sembra tutt’altro che scontato. La corte ha inviato gli atti alla Procura dando per certo che Stefano Cucchi fu picchiato; le lesioni sul corpo del detenuto, infatti, non potevano essere dovute a una caduta accidentale ma erano «necessariamente legate a percosse, o anche a una semplice spinta che avesse provocato la caduta», come spiega il presidente della corte d’appello Luciano Panzani illustrando le motivazioni della sentenza. Il problema è stabilire chi ha picchiato Cucchi, dopo che la testimonianza del detenuto africano contro gli agenti penitenziari non è stata ritenuta «sufficientemente attendibile». Resta dunque l’eventualità che siano stati i carabinieri che lo fermarono, prima che — l’indomani — Cucchi venisse portato in tribunale per la convalida del fermo. Questione non emersa nella prima indagine e già riaperta dalla Procura in un fascicolo al momento senza indagati ma che già racchiude diverse testimonianze raccolte dagli inquirenti. «Parlando di “percosse” e non di “lesioni”, la corte ha lasciato aperta la possibilità di una diversa qualificazione giuridica del fatto», spiega l’avvocato Fabio Anselmo, che assiste i familiari di Cucchi e da tempo si batte perché venga contestato il reato di «omicidio preterintenzionale». Tuttavia, questioni tecniche a parte, le difficoltà di accertare responsabilità a oltre cinque anni dalle botte e dalla morte del detenuto sono evidenti a tutti: giudici che hanno indicato la pista alternativa, inquirenti chiamati a percorrerla, parti civili in attesa di risultati. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, mostra reazioni apparentemente contrastanti. Da un lato, insieme ai genitori, esprime «soddisfazione» per la «grande vittoria» ottenuta con le nuove indagini; dall’altro, sospetta che «punteranno a dimostrare che i pm del primo processo hanno fatto tutto benissimo». Una sorta di polemica preventiva che riacutizza la spaccatura tra famiglia e Procura, cominciata all’udienza preliminare quando l’avvocato Anselmo parlò di «processo suicidio». Ora i giudici d’appello hanno scritto che nemmeno le cause della morte di Cucchi sono certe: delle quattro ipotesi prospettate non ce n’è una più convincente di altre. Bocciata la condizione di «fame e sete» in cui l’avrebbero lasciato i medici condannati in primo grado e assolti in appello, restano gli errori e le assurdità di una vicenda drammatica, ancora senza spiegazioni. L’ultima, segnalata dalla sentenza depositata ieri, è che non v’è certezza nemmeno sul peso di Stefano al momento dell’arresto: al carcere di Regina Coeli scrissero 50 chili, ma per i giudici fu un errore; sbagliarono pure l’altezza, di almeno 5 centimetri.