Silvia Bizio, la Repubblica 10/1/2015, 10 gennaio 2015
“NELLE MIE FOTO UN MONDO SEGRETO”
[Jeff Bridges] –
«Quando faccio incontri con i ragazzi, magari nelle scuole di recitazione, spesso mi chiedono consigli per diventare un bravo attore. Trovatevi degli hobby, rispondo sempre».
È così che esordisce Jeff Bridges, 64 anni, sorriso sornione e un look, il suo look con pizzetto e capello un po’ lungo, che inevitabilmente ci riporta al Drugo de Il grande Lebowsky. «Credo sia fondamentale portare avanti altre passioni per un attore, altre attività nella vita che arricchiscano l’esperienza, per non diventare noioso e stare troppo fuori dal mondo».
Per Bridges gli hobby, come ama definirli, sono due: la musica, è cantante e chitarrista, e la fotografia. Proprio quest’ultima lo ha portato nel 2013 a ricevere una menzione speciale nell’ambito degli Infinity Awards, i premi indetti dal 1985 dall’International Center of Photography di New York, uno dei centri più rinomati della fotografia mondiale.
A essere premiato è stato anche il suo libro, Photographs uscito nel 2003 che presenta una selezione delle sue foto scattate sui set dei suoi film. Molti autoritratti che oggi, ormai assuefatti dall’invasione delle selfie, lo fanno sembrare soprattutto ai più giovani quasi un precursore.
La scelta di fotografare e fotografarsi sui set sembra naturale per uno come lui, che il cinema lo respira fin dall’infanzia. Sei candidature agli Oscar, di cui uno vinto con Crazy Heart nel 2009, e un pedigree di razza alle spalle. Il suo esordio lo vedeva a fianco del padre Lloyd, attivissimo sul grande schermo dalla fine degli anni 30 fino al 2000, e del fratello Beau noto maggiormente per il lavoro in tv e vincitore di numerosi premi tra cui l’Emmy nel 2007 per il suo ruolo in My Name is Earl. La serie era Sea Hunt, in Italia conosciuta con il titolo Avventure in fondo al mare, uno degli show più di successo della televisione americana a cavallo tra gli anni 50 e 60.
La passione per la fotografia «analogica, rigorosamente analogica e in bianco e nero », ci tiene a specificare, accompagna Jeff Bridges fin dall’adolescenza. «Da ragazzino a scuola, mi divertivo a fare esperimenti con i tempi di esposizione e il movimento. Facevo fare grandi corse al malcapitato di turno per vedere i vari effetti. A volte era fatica sprecata, magari in camera oscura mi accorgevo di aver sovraesposto o sottoesposto tutto a tal punto da dover buttare via tutto il rullino!» Ma come l’attore ama ricordare il momento in cui è scattato il vero amore per la fotografia è stato grazie a King Kong, sul set del celebre remake del 1976 prodotto da De Laurentiis e con gli animatronics di Carlo Rambaldi premiati successivamente con un Oscar. «Io interpretavo Jack Prescott — ricorda Bridges — il paleontologo che si unisce alla spedizione alla volta dell’isola di Kong e nel film porta sempre con se una Nikon. Ecco, durante la preparazione del film, ho ricominciato a fare foto, usando proprio la stessa macchina fotografica del mio personaggio. Da quel momento non ho più smesso di fare foto, ma c’era qualcosa di cui sentivo la mancanza», continua a spiegare l’attore che ama entrare in dettagli tecnici quando parla di fotografia, «era come se cercassi l’anello di congiunzione tra fotografia e cinema».
Quell’anello di congiunzione lo trova l’anno dopo, il giorno del suo matrimonio. La moglie, Susan Geston, all’epoca fotografa professionista, gli regala una Widelux F8. Si tratta di una macchina fotografica ad obiettivo rotante, che permette di ottenere fotografie con un’apertura fino a 180 gradi. «La Widelux è stata una vera rivelazione per me. Il punto d’incontro tra il cinema e la fotografia. Rende le immagini nitide e mosse allo stesso tempo e le foto escono in un formato che ricorda la pellicola cinematografica. Il fuoco è fisso e il mirino non è accurato, quindi è una compagna volubile, capricciosa. Una mancanza di precisione che rende tutto più vero, più onesto».
E considerando che il soggetto preferito delle foto di Bridges sono proprio i luoghi da cui nasce la finzione per antonomasia, si tratta di una vera e propria sfida. E le sue foto, a cui sono state dedicate numerose mostre nel corso degli anni negli Stati Uniti, e che si possono ammirare anche online su molti siti Web, riescono davvero nell’intento di rendere onesto e fruibile quel mondo anche da chi non ne fa parte. Senza autocelebrazioni, mostrando momenti di intimità sul set, a cavallo tra il dietro le quinte e il “motore, azione”. Il tutto legato da un’ironia di fondo, come in quell’immagine dove appare con la benda sull’occhio, presso un albero dove si scorge un uomo impiccato... Era sul set de Il Grinta dei fratelli Coen.
«Cerco di immortalare i momenti più surreali, o quelli di relax, mi piace unire la realtà alla finzione del set, e dopo ogni film preparo un libro di foto che regalo a tutti i membri della troupe», spiega l’attore. «Il volume che ho pubblicato, infatti, è una raccolta delle mie foto preferite tratte proprio da quei libricini».
«Non sono passato al digitale», riflette Bridges, «perché il valore della foto analogica sta nelle sue imperfezioni, negli effetti non ottenuti da lunghe sedute davanti a Photoshop, ma da fattori meccanici, movimenti, fughe di luce, inceppamenti nel movimento della pellicola. E soprattutto nel caso di un apparecchio come la Widelux, la pellicola deve seguire un percorso molto ingarbugliato nel corpo macchina che spesso risulta in caratteristiche “bande” a diversa esposizione che percorrono verticalmente la foto stampata. Per questo, ogni volta che entro in camera oscura, e tiro fuori i provini dall’acido, è una sorpresa. Ritrovo quel momento, quell’attimo di quando ho scattato la foto. E certo, a volte gli esperimenti riescono, a volte no, dipende tutto da lei», dice riferendosi alla sua Widelux come ad un’amante.
«Sono tanti i fotografi che amo, molti del passato, primo tra tutti Jaques-Henry Lartigue, fotografo di scena di Fellini, Truffaut e tanti altri registi. E lui ha iniziato fotografando la sua famiglia, ed è forse proprio questo che lo rende speciale ai miei occhi. È facile fare foto spettacolari, e non che lui non ne abbia fatte, ma l’amore per la fotografia credo che nasca dal familiare, dall’ordinario, dal rendere speciale ciò che lo è solo ai tuoi occhi». E il suo occhio, premi fotografici a parte, è innegabile. Gli abbiamo chiesto se crede che dalla macchina fotografica si possa spostare dietro la cinepresa. Non sarebbe il primo attore a farlo. Ma Bridges risponde sempre allo stesso modo, facendo il misterioso ma anche lasciando trapelare la sua onestà di fondo. «Ormai lo sapete, il Drugo è il personaggio che ho interpretato che mi assomiglia di più. Io sono un po’ pigro, di fondo. Non mi piace lavorare troppo. E se devi dirigere un film vuol dire che ci devi lavorare per almeno un anno intero. Sinceramente non ho ancora trovato nulla che mi entusiasmi così tanto. Ma sono un tipo aperto, quindi chissà, prima o poi potrei anche tentare una nuova avventura».
Silvia Bizio, la Repubblica 10/1/2015