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 2015  gennaio 10 Sabato calendario

“I TARTARI DI BUZZATI SIGNORI DEL CINEMA”

[Intervista di Morando Morandini] –
Il Morandini 2015 sulle ginocchia di Morando Morandini. Tra i dizionari Zanichelli, l’unico per cui sull’editore prevale l’autore, sinonimo di cinema, decano dei critici italiani, inventore delle stellette e dei pallini, suprema sintesi di giudizio e di mercato. Diciassettesima edizione aggiornata. La seconda che è insieme «Dizionario dei film e delle serie televisive». Ce ne sono 500 accanto ad altrettanti cortometraggi e alle trame di 16 mila film proiettati in Italia dal 1902 al 2014. Un tesoro di indici: degli autori letterari e teatrali, dei registi, degli attori principali, delle opere migliori, di quelle apparse alla Mostra di Venezia. Nella versione digitale anche 7 mila schede con immagini di scena e locandine.
«Quest’anno nessun’altra novità - dice come scusandosi - se non una ulteriore perdita della memoria. Per fortuna mi salva il Morandini». Per fortuna non ha perso l’ironia. Classe 1924, milanese appassionatamente juventino, continua a giocare con gli ossimori - «sono un razionale emotivo» - e a sorridere della condizione del critico, che il regista Elia Kazan paragonava all’«eunuco nell’harem dannato a contemplare quanto gli è precluso». Confida il proprio «crollo fisiologico», di aver avuto «il progetto di morire nel 2014, ma senza far nulla per metterlo in atto», e di avere un secondo progetto... Intanto il fumo della sigaretta va ad accarezzare sulla libreria tre versioni della Ricerca del tempo perduto di Proust, tutto Shakespeare, tutto Strindberg, tutto Pirandello, il teatro di Molière, Le mille e una notte, tanta letteratura russa, Il ramarro, esordio poetico di Paolo Volponi e i romanzi di quel suo grande amico: Memoriale, La macchina mondiale, Corporale, Il sipario ducale, Le mosche del capitale. Sovrastante la presenza scenica della Biblioteca Adelphi.
Dunque una novità c’è, se ha un progetto...
«Penso alla pubblicazione di racconti scritti in un passato remoto, ambientati durante il secondo conflitto mondiale. Ne avevo cinque o sei. Ne ho trovati altri. Potrebbero intitolarsi: Una guerra così. Sono sempre stato bravo a inventare i titoli di cose che poi non ho pubblicate. Mi dispiacerebbe capitasse pure a queste. Vorrei parlarne a Feltrinelli. Ma prima devo finire il lavoro».
Stanco di critica?
«E’ diventata una cultura di élite, una realtà sempre più di nicchia per chi realmente è interessato ad approfondire l’argomento, sia cinema, teatro o letteratura. Oggi con internet ci si illude che tutto sia più vicino, invece tutto è più lontano: la critica dal pubblico, l’autore dal critico. Una volta ci si conosceva con i registi e gli sceneggiatori, ci si vedeva, ci si scriveva . Un confronto continuo, sfociato in relazioni straordinarie, artistiche e private, in amicizie. Il tesoro che ho trovato, la ragione per la quale mi considero un uomo fortunato».
Solo fortunato?
«Sono diventato critico cinematografico prima dei trent’anni. Da ragazzo avevo due amori: i film e i libri . Mi considero un uomo fortunato per essere riuscito a far coincidere queste due passioni e ad avere un rapporto con gli autori dei film. Da ragazzo leggevo sempre le recensioni di Mario Gromo, Leo Pestelli, Filippo Sacchi. Ho fondato una rivista, Schermi. Ero molto influenzato dalla cultura francese e dai Cahiers du cinéma. Sono stato il primo in Italia a scrivere un saggio sulla “Nouvelle Vague”. Di lì la mia ammirazione per il cinema di Truffaut».
Tra i tanti rapporti con gli autori, quali furono più assidui, più forti?
«Primo fra tutti quello con i Bertolucci: il poeta Attilio, i figli registi Giuseppe e Bernardo, che mi volle attore in “Prima della rivoluzione”. Fui molto colpito dalla morte di Pasolini. Certe persone muoiono come vorrebbero morire. Pasolini era una forza: poeta, scrittore, regista, giornalista. Un lavoro vario, folto, frammentario, per occasioni. Veniva qualche volta a pranzo a casa nostra con Ninetto Davoli, allora suo compagno di vita, timido, simpatico».
La passione per i libri da quale cominciò?
«Forse da Conrad: Lord Jim, L’agente segreto, Cuore di tenebra. Mi colpiva la capacità di prenderti, di essere nello stesso tempo interessante da leggere e profondo nelle cose che raccontava».
Un’attrazione speciale per i russi, così numerosi nella sua libreria?
«Davvero non saprei fare graduatorie tra i classici della narrativa russa Ottocento-Novecento: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Gogol... Cominciai a leggerli a quindici, sedici anni. Me li regalava mia madre, li cercavo in biblioteca. Rilessi Anna Karenina e altri romanzi dieci anni dopo, li sentivo vicini. Vi tornai vent’anni dopo, soprattutto a Gogol, apprezzando quella sua componente satirica. Per me la letteratura russa è tuttora valida e universale».
Qual è stato per lei il romanzo meglio interpretato sullo schermo?
«Trasposto magistralmente al cinema è stato Il deserto dei Tartari, venduto in tutto il mondo. Il romanzo di Buzzati è del 1940. Il film è del 1976, l’ultimo di Valerio Zurlini e l’unico non scritto da lui».
E il risultato peggiore?
«Il giorno della civetta, che nel 1968 Damiano Damiani trasse da Sciascia, fu nel mio ricordo una trasposizione non riuscita».
Ha sempre amato la poesia. Amico di Bertolucci, lo è stato anche di Giorgio Caproni. E ha scritto poesia...
«Per amore di Laura, mia moglie. Dall’uno all’altra, un piccolo album di versi e scatti di Francesca Fago, la mia nipote fotografa. Nella prefazione Gianni Amelio scrive che “hanno l’azzardo della limpidezza”. E li paragona a inquadrature di un film».
Segue l’editoria, i giornali?
«Oggi si pubblica di tutto, forse troppo. Del giornalismo italiano mi fa arrabbiare il culto del successo editoriale e il servilismo più o meno camuffato».
Che idea ha dell’Italia?
«Negli Anni 70 pensai di andarmene. Torno a pensarlo adesso. E faccio previsioni pessimistiche. Anche se qua e là, soprattutto in certe città di provincia, non mancano elementi positivi. Ci sto male in questo Paese. Se fossi costretto a farlo sceglierei la Francia. Forse perché quella francese è la cultura che conosco di più».
Che cosa dice a chi si avventura ora nel cinema?
«Sii sincero. Fai soltanto qualcosa in cui credi davvero».
Alberto Sinigaglia, La Stampa 10/1/2015