Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 12 Lunedì calendario

INTERNET E INDUSTRIA, IL POST PETROLIO DI RIAD

Poli industriali, case, strade, treni, telecomunicazioni, food e persino la finanza. L’Arabia Saudita sta sperimentando la diversificazione economica per emanciparsi dal petrolio, che oggi rappresenta l’80% del bilancio pubblico e il 90% dell’export. Primo paese produttore dell’Opec, il primo al mondo, è anche il paese più colpito dal rapido crollo delle quotazioni dell’oro nero. E sta cercando di attrarre imprese, personale specializzato e know how dall’estero per dare vita a nuovo modello di business per il paese: una “knowledge basic economy”. Ma non basta mettere sul piatto incentivi, infrastrutture, energia e manodopera a basso costo. Pur essendo un regno ricchissimo che può permettersi di pianificare sussidi decennali, infatti, è un posto non facile per fare business, come mette in evidenza l’Economist che ai primi di gennaio ha dedicato un servizio a questo paese, prima del tragico attentato a Parigi. Imprese e lavoratori stranieri spesso mettono da parte questo mercato perché dominato da regole sociali restrittive, in particolare verso le donne, che per esempio non possono guidare e sono obbligate a indossare il tipico lungo vestito nero, abaya. La strage al Charlie Hebdo non rischia, oggi, di accentuare timori e pregiudizi nei confronti dei paesi islamici? «Io non sarei pessimista», commenta Alessandro Terzulli, capo economista Sace, il gruppo specializzato in servizi assicurativi e finanziari di supporto all’internazionalizzazione delle imprese italiane. Spiega Terzulli: «Dal punto di vista della governance alcuni indici utilizzati dalla Banca mondiale – che ci danno il quadro dell’efficacia delle azioni di governo, della burocrazia, della corruzione e altre variabili – partivano da punteggi bassi e sono andati via via migliorando». Un trend positivo, che fa stimare un aumento dell’attrattività di questo paese. Anche in termini di stabilità sociale. «Guardiamo i connotati dove è scoppiata la primavera araba – racconta Terzulli – forte perdita di potere di acquisto, forte incidenza di alcuni beni nel paniere dei consumi, elevata scolarizzazione: c’era una voglia di partecipazione da parte di persone dotate di competenze ma in condizioni di estrema povertà. In Arabia, come in Algeria, le rivolte non ci sono state, perché hanno predisposto molte risorse, molti sussidi. Molti salari in Arabia Saudita sono sussidiati. Ma la politica dei sussidi funziona a breve termine. Lo sviluppo economico e i conseguenti benefici sulla popolazione sono stabilizzatori sociali di più lungo termine. E il governo sta dando segnali concreti di voler portare a compimento questa ambizione». Sei “città economiche” sono in fase di costruzione, per un investimento complessivo di circa 100 miliardi di dollari: la più imponente è King Abdullah Economic City, più familiarmente nota come Kaec, che prende il nome dal sovrano. «Il piano è partito nel 2005 ed entro il 2020 dovrebbe dare, secondo le stime, un contributo al Pil di 150 miliardi di dollari», racconta Terzulli. La cittadina economica si affaccia sul Mar Rosso, dove ha un porto, il King Abdullah Port. Il 24% del commercio mondiale, si legge sul sito di Kaec, passa per il Mar Rosso. C’è poi l’Industrial Valley, dove lo scorso dicembre ha aperto i battenti uno stabilimento della Mars, uno dei marchi di dolci più famosi al mondo. E tutto attorno, villaggi residenziali e una downtown dove si stima che 8,5 milioni di persone avranno accesso a una linea di treni ad alta velocità. Il modello è simile a quello adottato dalla Cina: tanti hub economici, metro, aerei, banda larga e Internet. Ma rispetto al Dragone, l’Arabia Saudita ha anche avviato progetti di housing compagnia aerea di Dubai, Emirates, la prima a spiccare il volo alla grande nel trasporto aereo mondiale. E su questa strada Dubai ha costruito un know how aeronautico che la rende un luogo privilegiato non solo per i servizi ma anche per attività manifatturiere. Stessa cosa sta succedendo con Abu Dhabi, base operativa di Etihad. Si parla di un progetto della Boeing per realizzare un nuovo stabilimento in Abu Dhabi dove già da diversi anni la Mubadala Aerospace produce parti importanti del Boeing 777 e del 787 Dreamliner. Alluminio e materiali compositi sono la base degli aerei. Ma anche delle automobili. L’Arabia Saudita è ricca di bauxite e ha un costo dell’elettricità bassissimo, due fattori chiave per la produzione di alluminio. E questo ha sociale per supportare giovani generazione e gli immigrati, che rappresentano una quota sostanziale della forza lavoro. Appena un poco diversa dalla strada seguita nei vicini Emirati Arabi. Dubai, primo tra gli emirati a capire l’importanza di emanciparsi dal petrolio, già circa quindici anni fa ha dato il via ai piani di diversificazione economica. Puntando inizialmente sul turismo, con la costruzione di hotel e villaggi sull’acqua e sul nulla. Quando l’aeroporto di Dubai è stato inaugurato sembrava la classica cattedrale nel deserto. Oggi è diventato la Mecca del lusso. Grazie alla sua felice posizione geografica è snodo di traffici intercontinentali importanti, che erano stati previsti e programmati. L’hub aeroportuale ha sostenuto lo sviluppo della attirato investitori stranieri, come Alcoa of America. Ma ora vuole diventare fabbrica di automobili, di pezzi o addirittura di stabilimenti per l’assemblaggio. Da due anni ci sono trattative in corso con l’indiana Jaguar Land Rover. L’Arabia Saudita, rileva uno studio di Boston Consulting Group, è il più grande mercato di acquisto di auto nella sua aerea, e le stime sono di crescita: entro il 2020 dovrebbe arrivare a 9 milioni di dollari di vendite contro 1 di oggi, soprattutto auto di lusso, dove i margini di profitto sono più elevati. Un mercato grande e ricco, insomma, appetibile non solo per vendere ma anche per fabbricare. Considerato che la manodopera costa poco. Ma alcuni analisti sono scettici sull’effettivo potenziale di competitività del paese in questo settore. Si vedrà col tempo. Intanto è avvenuto con successo il primo passo: il processo di diversificazione a valle del petrolio, dal petrolchimico, alle materie plastiche, dove la Sabic è diventata uno dei più grandi produttori al mondo. E Saudi Aramco, la compagnia petrolifera pubblica, ha aperto un impianto in joint-venture con il gigante americano Dow Chemical. Il governo ora vuole passare allo sviluppo dell’industria dei prodotti in plastica, per esempio nel packaging. Insomma la copertura dell’intera filiera. Oltre che in verticale il governo ha avviato l’operazione di diversificazione di filiera in orizzontale, dal petrolio al gas naturale muovendosi anche nell’energia elettrica. Ora anche attraverso le fonti rinnovabili.
Paola Jadeluca, Affari&Finanza – la Repubblica 12/1/2015