Francesca Paci, La Stampa 12/1/2015, 12 gennaio 2015
LE GUERRIERE PER L’ISLAM “AMMALIATE” DAL CALIFFO
Quando nel 2006 la musulmana riformista Amina Wadud pubblicò «Inside the Gender Jihad» (dentro il jihad di genere) non aveva in mente esattamente Hayat Boumeddiene o la 27enne Maria Giulia Sergio ribattezzatasi Fatima per poi lasciare l’hinterland milanese e trasferirsi in Siria. La Wadud, prima islamica a guidare la preghiera del venerdì in una moschea di New York, invoca da anni l’inclusione delle donne nel credo coranico.
IL PARADOSSO
Paradosso beffardo, la sua sfida rischia di essere scavalcata oggi dai fondamentalisti che strategicamente arruolano volontarie della guerra santa per dare scacco matto al femminismo occidentale e non. Le cronache dettagliano le scelte estreme della moglie di Coulibaly, i Bonnie & Clyde del neo islamismo francese, e di Fatima, unica italiana nota tra i ranghi del Califfato che nel 2010 auspicava su Facebook «la vittoria sui miscredenti» e un paio d’anni dopo chiedeva come fare «il niqab da sposa» in vista del secondo matrimonio con un albanese (aveva rotto col primo marito marocchino: troppo moderato). Ma non sono solo loro. Mentre il mondo si stringe alla Francia, gli integralisti nigeriani di Boko Haram fanno strage usando i corpi-bomba di 3 bambine (altre 2 ieri a Yobe) e la polizia austriaca arresta due ragazze minorenni pronte a partire verso lo Stato Islamico. Forzate o intimamente convinte, le ladies jihad sono sotto i riflettori. E non perché, come nota Katherine Brown del King’s College il fenomeno sia nuovo: ci sono state guerriere senza scrupoli in Irlanda del Nord, in Sri Lanka e anche gruppi come Hezbollah, che un tempo obiettavano divieti religiosi, hanno poi permesso alle donne d’immolarsi. Secondo la Brown tra l’81 e il 2007 il 26% degli attacchi kamikaze ha avuto firma femminile. Ma le almeno 200 europee che si stima affianchino il Califfato colpiscono l’immaginario perché non sono cresciute nel conflitto ma lo vanno «romanticamente» a cercare.
I SITI D’INCONTRO
L’ultimo mezzo usato dai reclutatori è lo speed dating, siti d’incontri online tipo quello gestito da Raqqa da Abu Qa’qa al-Britani per proporre alle aspiranti spose i migliori mujaheddin. Le nozze col potenziale martire sono però solo una parte della storia. È vero infatti che, come scrive Mia Bloom nel saggio «Bombshell: Women and Terrorism», quasi tutte le volontarie straniere non vogliono sparare ma aiutare, fare pr, procreare. E molte, come la marocchina di Avignone Nora che continua a chiamare disperata il fratello Fouad perché la vada a prendere, scoprono a loro spese quanto il ruolo di muhajirah (la fidanzata del Califfato) sia sinonimo di schiava.
Ma ci sono pure la 22enne londinese Khadijah Dare che twitta «vorrei essere la prima jihadista a uccidere un ostaggio occidentale», la connazionale a capo della polizia religiosa femminile di Raqqa, la medico malese Umm al-Baraa che chatta «lo stetoscopio intorno al collo e il kalash sulle spalle, il martirio è il mio sogno» o la 20enne scozzese Aqsa Mahmood frustrata perché «qui non c’è assolutamente modo per le sorelle di partecipare ai combattimenti, nessuna operazione di martirio né milizie femminili». Ci sono insomma jihadiste più agguerrite dei loro compagni che rispondono fiere al tam-tam di al Baghdadi perché, osserva Sasha Havlicek dell’Institute of Strategic Dialogue, persuase di battersi contro «l’occidente decadente e corrotto» che per quanto proclami il contrario non ha rispetto per le donne. E magari si sentono femministe.
Francesca Paci, La Stampa 12/1/2015