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 2015  gennaio 11 Domenica calendario

ARTICOLI SULLA MORTE DI FRANCESCO ROSI DAI GIORNALI DELL’11 GENNAIO 2015


SELEZIONAXX

PAOLO D’AGOSTINI, LA REPUBBLICA -
Si è spento serenamente, ieri mattina nella sua casa di via Gregoriana a Roma, a due passi da Trinità dei Monti, con la figlia, l’attrice Carolina, accanto a lui, insieme ai più giovani colleghi e discepoli, Marco Pontecorvo, figlio di Gillo, Marco Tullio Giordana, Roberto Andò, Giuseppe Tornatore, subito accorsi. Francesco Rosi, nato a Napoli il 15 novembre del 1922, da qualche tempo non stava bene, una bronchite lo aveva tenuto a lungo a letto. Ieri è morto a 92 anni. La camera ardente si aprirà domani dalle 9 alla Casa del cinema di Roma dove dalle 12 si terrà una cerimonia civile per l’ultimo saluto, dove, fa sapere la famiglia, sono graditi “non fiori ma solidarietà per gli immigrati” Non ha mai cessato Francesco Rosi (per gli amici Franco) di partecipare e intervenire. Instancabile, animato da inesauribile fiducia nella parola, nello scambio, nel dialogo, in privato e in pubblico. E sempre impeccabile, anche un po’ vanitoso. È un tratto distintivo della sua personalità. Nella primavera 2010 non si era sottratto al festeggiamento del David di Donatello per Tonino Guerra – poeta sceneggiatore tra i più immaginifici che, misteriosi assortimenti del cinema, ha più volte collaborato con il più scientifico dei nostri cineasti – malgrado i pochi giorni trascorsi dalla perdita in tragiche circostanze, un incendio in casa, dell’amata moglie Giancarla Mandelli. La gioventù borghese napoletana alla quale è appartenuto Rosi (stessa “classe” di Lizzani e Pasolini, e di Berle linguer) richiama uno di quei gruppi generazionali che hanno fatto la storia politico- culturale dell’Italia postbellica. Accanto ai nomi di Giorgio Napolitano, Peppino Patroni Griffi, Aldo Giuffré, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Domenico Rea — futuri protagonisti in una grande varietà di ambiti — spicca anche quello di Rosi. Punto di incontro e debutto per questa giovanissima intellettualità è la stazione di Radio Napoli dopo la liberazione della città e sotto la giurisdizione militare alleata. La molteplicità di esperienze e interessi, compresi gli studi di giurisprudenza, segneranno il cinema che Rosi inizierà a realizzare “in proprio” soltanto sul finale del decennio Cinquanta.
Dopo apprendistati eclettici che vanno dalla collaborazione con il commediografo Ettore Giannini alle incursioni anche attoriali nel teatro musicale, ecco l’occasione di affiancare — destino condiviso con un coetaneo fiorentino, Franco Zeffirelli — l’astro di Luchino Visconti su set capitali: La terra trema, Bellissima, Senso.
La scuola è dura (confessa di aver pianto per i mortificanti trattamenti inflitti dal Conte Rosso) ma ne vale la pena. Stargli accanto in quelle stagioni innovatrici su tutti i fronti, cinema e teatro, equivale a una laurea.
Nel 1958 può firmare con La sfida la prima eloquente prova della sua poetica. È un’inchiesta — in sintonia con l’energico mix tra spettacolo e sensibilità sociale che sostiene la scuola americana del dopoguerra e i film di Elia Kazan — sul mercato ortofrutticolo napoletano dominato dalla camorra. “Inchiesta” sarà la parola chiave del cinema di Rosi. Il quale ha tuttavia sempre tenuto a rivendicare il carattere di interpretazione e di trasfigurazione artistica, sia pur puntigliosamente documentati, dei suoi ritratti sociali e storici.
Dopo un capitolo anomalo come I magliari ( la presenza di Sordi porta il film un po’ fuori centro), irrompono sulla fertile scena dei primi Sessanta i due capolavori. Salvatore Giuliano nel ‘62 e Le mani sulla città l’anno dopo premiato con il Leone d’oro di Venezia. Effettivamente le due così incisive analisi dei mali italiani contemporanei — il malaffare intrecciato alla corruzione politica e agli interessi oscuri di apparati statali o di gruppi di pressione economici o di strategie segrete internazionali, nella Sicilia del dopoguerra e nella Napoli della speculazione edilizia — risultano tanto potenti in primo luogo grazie alla scelte di stile e di sguardo. Clamorosa prova: nella memoria visiva comune immagini del film sul bandito di Montelepre si sostituiscono a quelle della cronaca.
Inizia dunque la serie di incontri con l’interprete per eccellenza del suo cinema, Gian Maria Volonté. Sarà il personaggio alter ego di Emilio Lussu, autore di Un anno sull’Altopiano cui si ispira il film Uomi ni contro destinato a entrare nella galleria del grande cinema antimilitarista sulla Grande Guerra. E poi Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli . Per chiudere con il Cristo Bedoya di Cronaca di una morte annunciata da Gabriel Garcia Marquez.
Intanto il regista sigla anche Cadaveri eccellenti ( da Il contesto di Sciascia) e Tre fratelli dove all’alba degli anni 80 si disegna il malessere che percorre l’Italia di quella stagione. Chiude il suo contributo alla storia del nostro cinema nel ‘97 con un imponente adattamento de La tregua di Primo Levi, il romanzo del ritorno da Auschwitz.
La dolorosa mancanza di attività cinematografica che ha accomunato gli ultimi anni di Rosi a quelli di Fellini, è stata parzialmente sostituita con l’attivismo teatrale che dopo il Duemila lo ha visto portare in scena Eduardo: Napoli milionaria, Le voci di dentro, Filumena Marturano . Tra i numerosi progetti non realizzati un film sulla figura di Ernesto Guevara, andato a monte per il fermo rifiuto di soddisfare le pretese di controllo da parte dell’establishment cubano.
Profilo singolare nel panorama di un’attività sempre assediata dalla cialtroneria e contaminata da esigenze extrartistiche. Esigente e pignolo, sul suo rigore si è qualche volta ironizzato bollandolo come professorale e pedante. Uomo di sinistra ma ideologicamente non allineato, salvo la parentesi di fiducia nella nouvelle vague craxiana. Artista ma – caso raro nello spettacolo – anche intellettuale di alto profilo. Ha segnato in profondità i migliori anni del cinema italiano.

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FRANCESCO ERBANI, LA REPUBBLICA -
Li divideva poco più di un mese. L’anno era lo stesso, il 1922. Francesco Rosi è nato a metà novembre, Raffaele La Capria i primi di ottobre. Ma erano ancora bambini quando d’estate si tuffavano dagli scogli di Posillipo, a Napoli, sotto villa Rosebery. Racconta La Capria: «È stato il mio amico più caro, con lui in ottant’anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all’affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee». Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici - Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna... - la stessa idea di lasciare Napoli, «forti solo dei nostri sogni» e quindi i film - Rosi regista, La Capria sceneggiatore. Basta ricordarne due, Mani sulla città ( 1963) e Cristo si è fermato a Eboli ( 1979).
Con Rosi avete condiviso la stessa formazione?
«Al liceo Umberto avevamo un preside, D’Alfonso, che s’ispirava a Croce. L’ambiente era naturalmente antifascista e da lì scaturirono due filoni, quello comunista e il nostro, liberaldemocratico. Dopo la guerra demmo vita alla rivista Sud, diretta da Pasquale Prunas. Collaboravano Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea. Io mi occupavo di letteratura angloamericana, Franco scriveva note di cinema. A guardarle ora, quelle pagine emanavano un entusiasmo che fa sorridere, ma si resta sorpresi dalle cose che sapevamo ».
Nel ’48, a ventisei anni, Rosi era già assistente di Visconti per La terra trema .
«La naturale precocità di un artista. Fin da ragazzo, più che elaborare intellettualmente, Franco coltivava immagini che immagazzinava. Eravamo in un clima neorealista, ma lui pur ammirando quel cinema, diffidava di certo sentimentalismo patetico. Era un razionalista, tendeva a raffreddare gli umori».
Che cosa ricorda di Mani sulla città?
«Un giorno, a Roma, Franco mi disse che voleva girare un film su Napoli, ma diverso dai soliti modelli. Passeggiavamo e non so chi dei due parlò per primo di un palazzo che crolla come spunto per indagare su che cosa la nostra città era diventata».
La speculazione edilizia patrocinata da Achille Lauro.
«Sì, ma senza impigliarsi in questioni teoriche. Ricorda la scena in cui Rod Steiger traccia con un bastone un quadrato per terra e dice: “Questo quadrato vale tanto, ma se noi ci portiamo la luce, le strade, le fogne, questo stesso quadrato varrà mille volte di più”? Ecco: con quell’immagine e quelle parole raccontammo la speculazione edilizia, che cambiò la morfologia della città e dell’Italia intera, distruggendo valori e rapporti umani».
Nel film Rosi faceva emergere una terribile realtà politica, anche quella non solo napoletana.
«È vero. Ma sempre e solo manovrando la macchina da presa. Franco la metteva a pochi centimetri dai volti dei consiglieri comunali, ne catturava le occhiate, le smorfie e così documentò il passaggio di alcuni di loro da Lauro alla Dc. Una vicenda politicamente dirompente, testimoniata attraverso un artificio, un’invenzione. Direi, uno stile».
Lavoraste insieme per C’era una volta (1967), liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, poi per Uomini contro (1970) ispirato al romanzo di Emilio Lussu. E quindi per Cristo si è fermato a Eboli .
«Il suo film più bello. Franco cercava la verità di quel Mezzogiorno entrando nelle case dei contadini, misurando la distanza fra la civiltà e un’arcaica forma di vita. Quando la domestica Giulia, interpretata da Irene Papas, fa il bagno a Gian Maria Volontè, nei panni di Carlo Levi, Franco fece l’impossibile perché i gesti avessero qualcosa di mitologico».
Quale idea di Napoli vi accomunava?
«Un’idea non convenzionale. Al pari di tutte le città del Mediterraneo, la immaginavamo come una capitale della decadenza, impegnata nella contemplazione del passato. Ma, a differenza di altre città, Napoli conserva una continuità con l’antica Grecia. E per questo, ci dicevamo, mentre altrove domina un’aridità comunicativa, Napoli è un’ansa che custodisce un certo calore. Franco, uomo buono, ne era un esempio».

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ARIANNA FINOS, LA REPUBBLICA -
ROMA .
Ettore Scola, 83 anni, accende una sigaretta dopo l’altra. È appena tornato nel suo studio, dopo aver fatto visita alla casa dell’amico Francesco Rosi. «Mi sento uno studente al terzo trimestre, le assenze all’appello sono sempre più numerose. Quella di Franco è dolorosa».
Vi telefonavate tutti i giorni.
«Era un rito fisso, la mattina, da dieci anni. Confrontavamo le opinioni sui fatti del paese. Attaccavamo il telefono e lui dieci minuti dopo richiamava per indignarsi su un altro argomento. Facevamo lunghe passeggiata da casa sua, in via Gregoriana, fino al Pincio, al bar di villa Borghese. Ci si vedeva anche per parlare di niente, intrattenere silenzi tra noi. Per sentirci solidali di un progetto comune: il miglioramento del paese. Anche la sua natura di regista era quella di affrontare continuamente la realtà che aveva intorno. L’attaccamento al paese ha fatto la grandezza del suo cinema e di lui come uomo. Film dopo film si è dedicato a dare un’identità e una coscienza a questo paese che non ha né l’una né l’altra. La sua sofferenza maggiore era nell’assistere allo spettacolo di oggi».
Sulla sua libreria spicca una foto di Gramsci. Lei e Rosi discutevate molto, di politica.
«Discussioni, mai litigi. Ci interessava la grande politica, che è espressione più alta dei rapporti umani. Non era un regista impegnato o militante, erano parole che lo facevano assai incazzare. Aveva un senso dell’umorismo che non metteva nei film ma che era presente nelle letture e nella conversazione. Io praticavo un po’ di più di lui l’ironia, ma senza perdere di vista lo scopo. I nostri film sono diversi per ispirazione e modi e linguaggi, ma gli intenti erano vicini».
Andavate spesso al cinema insieme.
«Ero goloso delle sue reazioni, sempre rumorose, evidenti, nei cinema iniziava a urlare: “ma chi è questo e che sta dicendo?” aveva un dialogo diretto con la pellicola. Come se in quel momento si potesse ancora modificare. Era uno spettatore attivo, un fabbricatore di quel che vedeva. Era divertente. S’incazzava, s’alzava, andava via, poi ritornava. Non era mai una compagnia banale».
Cosa le mancherà di più?
«Le commemorazioni — un modo per riparare all’oblio, non trasmettevano i film di Rosi spesso — riguardano le opere, i film. A me mancheranno i riti comuni, le abitudini, il suo carattere. La benevolenza verso gli altri che c’era sotto la sua ira. La gentilezza d’animo, lo era con tutti. Era elegante, come napoletano teneva moltissimo alle scarpe, all’acqua di colonia. Aveva piccole fisime sue, spesso motivo di divertimento da parte nostra. Che però descrivevano comunque una voglia di piacere agli altri e di farsi piacere gli altri».
Lei gli aveva consegnato il premio Fellini al Bifest di Bari.
«Fu una serata di divertimento, anche autoironico. Gli piaceva stare con gli amici, cenavamo spesso insieme. L’ultima occasione era stata per il suo compleanno, con Dudu La Capria, Furio Colombo, Giorgio Napolitano».
Facevate anche battaglie pubbliche «Su Franco si poteva sempre contare. Con Lizzani e Montaldo denunciammo una deputata che in Parlamento disse che Monicelli era “morto solo e abbandonato”, una falsità totale. Di recente, con logica contraria, ci siamo schierati con i ragazzi per difendere il Cinema America a Roma, punto di riferimento di Trastevere».
L’energia non gli mancava.
«Fino ad alcuni giorni fa parlava di un progetto mai realizzato su Cuba che aveva ripreso in mano. Era venuto a vedere il mio film su Fellini, si era commosso. Amava Federico e gli piaceva che un regista si occupasse di un altro regista. Perciò aveva fatto con gioia il libro con Peppuccio Tornatore».
La vostra generazione di cineasti aveva grande scambio di idee. Era una comunità.
«Non ricordo un film di cui non abbia fatto leggere la sceneggiatura ai colleghi. Per me e Federico era un’abitudine dai tempi della redazione del Marc’Aurelio. Ognuno leggeva idee e progetti, pronto a incassare pernacchie e critiche, sapendo che erano utili. Anche Rosi raccontava i film che preparava, chiedeva opinioni. I giovani di oggi non hanno questa fortuna, né i modelli che avevamo noi: Fellini ma anche Steno, Monicelli. Oggi i giovani non si frequentano. Lavorano in solitario perché gli manca il desiderio del gruppo. Noi avevamo davanti un paese da ricostruire e sapevamo di poter collaborare a questa ricostruzione. Eravamo famelici di tutti gli altri. Oggi è difficile dire a un giovane “ama l’Italia”. Ma resto ottimista, bisogna continuare a fare film con onestà e sicurezza ».
I film di Rosi che ha amato di più?
«A parte qualche vacanza che si è voluto prendere da se stesso, i film in Sudamerica e Spagna, tutti gli altri compongono quel gruppo solido di informazioni sul paese, sulla nostra indole, mentalità, pensiero. Sono un corso di approfondimento di se stessi, per chiunque. I giovani percepiscono che Le mani sulla città, girato nel ‘63, parla di oggi, parla di Roma e non solo di Napoli. Si rivolge direttamente a loro, anche se non lo conoscono».

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FULVIA CAPRARA, LA STAMPA -
Il piglio da condottiero, il tono deciso, i modi diretti e una curiosità insaziabile per il mondo e per i suoi abitanti. Francesco Rosi era così. Dai tempi dell’esordio, con La sfida, nel 1958, radiografia della camorra del tempo «praticata da piccoli boss locali su contadini taglieggiati» agli ultimi anni, inquinati dal dolore insuperabile per la morte della compagna Giancarla, ma anche rischiarati dai tributi, dagli omaggi, soprattutto dalla vicinanza e dall’affetto degli amici e dei colleghi che con lui dividevano la passione fondante della vita: «Il cinema è conoscenza - diceva Francesco Rosi, scomparso ieri nella sua casa romana -, un grande mezzo di comunicazione che permette di offrire testimonianze sulla realtà».
Nel nome di questa certezza, Rosi ha costruito il suo percorso di regista di fama internazionale, inventore di un cinema che ha fatto scuola, ma anche, e soprattutto, di testimone della storia d’Italia: «Dai miei film non vengono mai fuori celebrazioni di personalità deviate, ma piuttosto il quadro dei rapporti tormentati tra giustizia e illegalità». Una lente usata fin dall’inizio, dopo gli anni di scuola a Napoli, dopo la giovinezza divisa con Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli e Giorgio Napolitano, che e come lui s’interessava di teatro, dopo gli studi di giurisprudenza, dopo l’infanzia in epoca fascista : «Sono nato - raccontava a Giuseppe Tornatore - nel novembre del ’22, l’anno della marcia su Roma, lo stesso giorno in cui nacque Salvatore Giuliano. Bisognava portare la divisa da balilla, poi da avanguardista, una volta ero a un’adunata senza uniforme, si incazzarono, fui punito». Più tardi la ribellione diventò voglia di capire, di indagare, e con quella spinta Rosi iniziò a fare cinema, avventurandosi ogni volta sui territori più accidentati della realtà italiana.
Ogni film era una battaglia, da combattere a viso aperto, guardando in faccia gli eventuali pericoli. Nel 1962, per girare Salvatore Giuliano, s’immerse nell’universo torbido di Cosa Nostra, conobbe Leonardo Sciascia, e poi i cittadini di Montelepre convincendoli a recitare scene cui avevano preso parte nella vita reale: «Ho descritto i criminali senza il gusto dell’avventura e del personaggio che invece oggi è tanto diffuso. Giuliano l’ho visto da morto e da lontano, inserendolo nel contesto delle sue azioni, evitando accuratamente di farlo diventare un mito».
L’anno dopo, a Napoli, per Le mani sulla città, Rosi studia i verbali delle riunioni del Consiglio Comunale scosse dagli scontri fra sinistra e destra monarchica. Al centro del film, da una parte il costruttore Nottola interpretato da Rod Steiger, dall’altra il consigliere comunista Carlo Fermariello, grandi occhi azzurri, fama di tombeur de femmes, per la prima volta davanti alla macchina da presa in un ruolo che rifletteva la sua vita. Prima di lui era stato preso in considerazione Antonio Caldoro, (padre di Stefano Caldoro attuale, governatore della regione Campania), ma Fermariello alla fine fu la scelta migliore: «L’avevo conosciuto, mi era parso che continuasse a esprimere con passione e con tenacia l’impegno e le preoccupazioni che, prima di lui, erano appartenuti all’ingegnere e architetto Luigi Cosenza. Mostrare quei personaggi serviva a innescare la discussione concreta, fattiva su quei conflitti». Alla Mostra di Venezia, quando il film vinse il Leone d’oro, attribuito all’unanimità, si scatenarono reazioni infuocate: «Signore e signori della buona società veneziana vennero alla proiezione portandosi le chiavi dei loro palazzi affacciati sulla laguna. Erano chiavi fatte a tubo, con un foro, perfette per fischiare. E per quello furono usate».
Proteste, contrasti, minacce e anche difficoltà pratiche di realizzazione dei film si trasformavano, nelle mani del Maestro, in materia creativa, stimolo a fare meglio e di più. Successe con Il caso Mattei e con Lucky Luciano: «Sai com’è - commentava con Tornatore -, quando c’è l’ombra della mafia tutto si complica, no?». E con Cronaca di una morte annunciata, girato a Cartagena de Indias, nel luglio dell’86, tra continui temporali che imponevano pause alle riprese, su un set pieno di comparse (tra le altre anche la figlia Carolina), con i protagonisti Rupert Everett e Ornella Muti afflitti dal caldo umido. Su tutti Francesco Rosi, fascia rossa intorno alla testa, regnava con elegante autorità, voce stentorea, senso pratico tipicamente partenopeo. Caratteristiche mai perse, anche quando, tanti anni dopo, confessava lo smarrimento doloroso dell’essere rimasto vedovo, oppure constatava, senza giri di parole, il peso inevitabile degli anni: «Ho un’età molto rispettabile - rispondeva alla domanda su un eventuale prossimo lavoro .- Le cose bisogna farle quando si è sicuri di poterle affrontare e portare avanti».
Francesco Rosi ci è riuscito, fino alla fine, seguendo la voce della sua coscienza civile, il suo impulso di uomo libero, assetato di verità.

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PAOLO MEREGHETTI, CORRIERE DELLA SERA -
I film? «Mi piace vederli al cinema, in una sala di proiezione col pubblico. Voglio sentire la reazione della gente, capire se è diversa dalla mia. Il cinematografo è un miracolo, un grande sostegno per l’affermazione della democrazia. […] Perché il cinematografo sa sempre mostrarti la verità dei comportamenti».
Sono risposte di Francesco Rosi a Giuseppe Tornatore per quello straordinario libro-conversazione che è Io lo chiamo cinematografo (Mondadori) e vi si può leggere l’amore e l’entusiasmo che non ha mai abbandonato il regista, morto ieri a Roma a 92 anni (era nato a Napoli il 15 novembre 1922).
In quelle affermazioni c’è la passione civile che ha fatto di Rosi il più importante (e il più bravo) dei registi «politici» italiani, ma c’è anche la passione cinefila che l’aveva spinto, poco tempo fa, a dare il proprio sostegno ai ragazzi che lottavano per tener aperto il cinema America. «Puoi usare il cinema come vuoi — diceva ancora a Tornatore — ma è difficile che il cinema tradisca la realtà». Ed è proprio nel rispetto di quella «realtà» che è nato e cresciuto il suo cinema e che Rosi ha firmato i suoi capolavori.
Avvocato mancato, anonima comparsa per il cinema e per la rivista, disegnatore senza lavoro, trovò la sua strada grazie a Visconti che lo chiamò sul set di La terra trema e poi per collaborare alla sceneggiatura di Bellissima . Assistente di Emmer, Matarazzo, Giannini, Antonioni e Monicelli, esordì nella regia nel 1958 con La sfida , rielaborazione di un fatto di cronaca (l’ascesa e la caduta di un trafficante di sigarette nei mercati generali di Napoli) dove la lezione neorealistica si intreccia a quella del cinema americano. Anche in I magliari (1959) ritroviamo la lotta tra il vecchio boss e il nuovo arrivato in una Germania di piccoli e grandi truffatori, ma è con i due film successivi che Rosi modificherà radicalmente il modo di fare cinema politico in Italia. E non solo. Il primo è Salvatore Giuliano (1961, Orso d’argento a Berlino): le gesta del bandito e la sua misteriosa uccisione sono scomposti e ricostruiti attraverso una lunga serie di flashback dove finzione e documentario si fondono magistralmente. Il nodo economico-politico che ha portato all’affermazione della mafia viene presentato con grande chiarezza e in modo cinematograficamente esemplare. La stessa esemplarità all’origine di Le mani sulla città (1963, Leone d’oro a Venezia), dove un caso inventato di speculazione edilizia a Napoli gli serve per mostrare i compromessi del potere economico e politico (ancora una volta) e come si adatti ai cambiamenti della città. Scavare nel reale — della Storia, della Cronaca, della Politica — sarà sempre il faro che illuminerà il suo cammino di regista, sia nei film più liberi e fantasiosi, come Il momento della verità (1965, un povero andaluso cerca il riscatto nella tauromachia), C’era una volta… (1967, una favola ispirata a Basile, sulla furbizia popolaresca) o Carmen (1984, dove l’opera di Bizet è riletta in un rigoroso verismo), sia in quelli più impegnati e «militanti», come Uomini contro (1970, da Lussu, sulla prima guerra mondiale), Il caso Mattei (1972, sulla morte del padre dell’Eni), Lucky Luciano (1973, sulla carriera del boss mafioso), C adaveri eccellenti (1976, sulle trame degli anni di piombo), Cristo si è fermato a Eboli (1979, dal romanzo di Carlo Levi) o Tre fratelli (1981, sui destini di tre italiani variamente «impegnati». Per me il suo vero, struggente canto del cigno).
Tutte opere, per usare le parole di un grande esegeta di Rosi, il francese Michel Ciment, dove le «risposte contengono ulteriori domande, in una spirale infinita che viene svelata da film taglienti come una lama d’acciaio, duri e nello stesso tempo brillanti». Gli ultimi film — Cronaca di una morte annunciata , 1987; Dimenticare Palermo , 1990 e La tregua , 1997 — non ritrovano la forza delle opere precedenti ma non inficiano minimamente un’opera di grandissimo livello, capace di «rappresentare la vita e i personaggi in un contesto sociale e politico», come disse lo stesso Rosi, «sperando così di aiutare il pubblico a conoscere la realtà del nostro Paese». Beh, possiamo proprio dire che l’ha fatto, e di questo gliene saremo sempre grati.

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RAFFAELE LA CAPRIA, CORRIERE DELLA SERA -
Ultimamente Franco Rosi ed io ci telefonavamo tutti i giorni, lui stava male e il suo male era uno di quelli tenaci, che non perdonano. Non so quanto ne fosse consapevole, ma mi diceva sempre, con una specie di distaccata rassegnazione: è duro da sopportare, ci vuole pazienza, molta pazienza. Ha pazientato, poi ha mollato. Quando andavo a trovarlo, per distrarlo gli parlavo sempre dei suoi film che erano la sua vita, anzi erano quelli cui aveva affidato la sua sopravvivenza, perché sapeva di aver fatto dei film che avevano un posto importante nella storia del cinema. Avevamo lavorato insieme in molti film lui ed io, avevo partecipato alla sceneggiatura di Le mani sulla città , di Cristo si è fermato a Eboli , di Uomini contro , di C’era una volta , la nostra è stata non solo un’amicizia di sentimenti ma anche di lavoro, durata circa ottant’anni, da quando ragazzini ci tuffavamo nelle acque di Posillipo, poi a scuola nello stesso liceo dove studiavano Chinchino Compagna, Peppino Patroni Griffi, Giorgio Napolitano, Antonio Ghirelli, e a Roma dove arrivammo coi nostri sogni e le nostre ambizioni, e col tempo avemmo anche molte soddisfazioni. Franco riuscì a fare i suoi bellissimi film, Peppino diventò un commediografo di successo, Antonio Ghirelli si affermò come storico e grande giornalista sportivo, e Giorgio Napolitano diventò addirittura presidente della Repubblica. Non ci possiamo lamentare se si pensa a come eravamo partiti da Napoli, con pochi soldi e senza nessuna protezione.
Ma tra gli amici quello cui sono stato più vicino, anche per temperamento, è stato Franco, e oggi che non c’è più mi sembra che se ne sia andata anche una parte di me. Quante cose abbiamo fatto insieme! Non solo i film, ma anche i viaggi per i sopralluoghi. E come fu bella la sera in cui a Venezia andammo a ritirare il Leone d’oro per il film Le mani sulla città ! Franco ed io apparimmo sui giornali sotto il titolo: I leoni di Napoli. Chi lo avrebbe immaginato. Ma non solo vivemmo insieme i momenti belli della vita, anche quelli tragici, terribili, ci videro vicini. Quando morì la figlioletta di Franco in un incidente d’auto. O quando l’amata moglie Giancarla finì con la vestaglia in fiamme nella sua stanza. Molto dolore ha invaso la vita di Franco, la sua grande consolazione è stata la figlia Carolina, lei è stata il suo sostegno. Ma ora vorrei dire due parole sui film di Franco. Sono film che dopo il neorealismo introducono una nuova forma di realismo più critico e meno sentimentale, fatto di passione civile e analisi sociale, e con una struttura narrativa più complessa. Col tempo mi sono accorto che quasi tutti i suoi film presentano una storia puntualmente documentata ( Salvatore Giuliano , Il caso Mattei , Lucky Luciano ) piena di intrecci e connessioni di cui non si viene a capo. Sono tutti casi accaduti sotto gli occhi di tutti e non risolti. Tutti casi in cui sembra di intravvedere la verità o il colpevole, li si sfiora, senza mai poterli veramente incastrare. Cosa c’è di più italiano di questa situazione.
Più che un cinema politico, quello di Rosi è il cinema della democrazia ammalata che non è riuscita mai a scoprire gli autori delle stragi e dei delitti, né a chiarirne le motivazioni o le cause. Questa particolarità dei filmi di Rosi fa sì che la loro forma espressiva e la costruzione siano anch’essi in funzione di questa impossibilità di venire a capo dei fatti; la loro struttura rassomiglia a un mosaico in cui le tessere scomposte lasciano soltanto intravedere la figura nascosta e dove l’apparente disordine però produce nello spettatore il tentativo di ricomporlo, di legare i fatti, il desiderio di afferrare quella verità che il film mette sotto gli occhi e che riproduce fedelmente la realtà di questi anni. Così i film di Rosi ci trasmettono lo smarrimento tragico che attanaglia la coscienza civile di tanti italiani, ma anche la volontà, la lucida determinazione di vigilare per superarlo.

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FULVIO BUFI, CORRIERE DELLA SERA -
Intorno alla metà degli anni 30 del secolo scorso, nelle aule e nei corridoi del liceo Umberto si conobbero e diventarono amici alcuni ragazzi che all’epoca erano solo matricole al ginnasio. I loro nomi, in ordine alfabetico come si usa a scuola, erano: Maurizio Barendson, Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Giorgio Napolitano, Francesco Rosi. L’uomo che sarebbe diventato presidente della Repubblica era il più piccolo, gli altri tutti coetanei, con solo qualche mese di differenza. Negli anni successivi ognuno fu portato dalla vita altrove, soprattutto a Roma, ma per nessuno si spezzò mai il legame con il luogo di nascita. E così fu pure per Francesco Rosi, che alla sua Napoli regalò non solo il film che meglio di qualunque altro ne ha raccontato lo scempio, quel Le mani sulla città , straordinario documento di denuncia ma nello stesso tempo anche atto d’amore per una terra devastata dal sacco edilizio e dalla corruzione quanto lo fu — 17 anni dopo l’uscita della pellicola — dal terremoto. La sofferenza di Napoli è stata anche la sofferenza di Rosi. Che se da regista ha continuato a raccontare la sua città anche quando dal cinema passò al teatro e mise in scena opere eduardiane come Napoli milionaria — dirigendo Luca De Filippo, di cui sua figlia Carolina è la compagna — da napoletano a Roma non ha mai fatto finta di non vedere. E meno di un anno e mezzo fa, quando il Tg1 lo contattò durante la realizzazione di un documentario sull’epidemia di colera che colpì Napoli nel 1973, lui fu impietoso quanto lucido: «Dopo quarant’anni Napoli si ritrova nelle stesse condizioni di allora, se non peggio. La devastazione dell’ambiente e l’aggressione del cemento è continuata grazie agli stessi interessi forti di allora». Era alla Napoli prigioniera dei rifiuti che si riferiva. Alla Napoli della camorra. Alla Napoli dell’abusivismo condonato ma mai risanato. A quella Napoli che amò sempre e dove, commosso, tornò da 90enne per ricevere la medaglia d’oro della città consegnatagli dal sindaco de Magistris.
Fulvio Bufi

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GLORIA SATTA, IL MESSAGGERO -
Francesco Rosi se n’è andato nel sonno nel suo attico-studio di via Gregoriana, assistito dall’amatissima figlia Carolina e circondato dai libri, dagli oggetti, dai ricordi di una vita. Già da giorni, da quando si era capito che la bronchite non avrebbe lasciato scampo al suo fisico ormai indebolito, erano accorsi a confortarlo Marco Tullio Giordana, Roberto Andò, Giuseppe Tornatore. Più che colleghi, amici e discepoli. Ma andava a trovarlo anche lo scrittore Raffaele La Capria, 92 anni, conosciuto ai tempi del liceo Umberto I che Rosi aveva frequentato insieme con lui, con il Presidente Napolitano e un piccolo gruppo di amici - Patroni Griffi, Barendson, Ghirelli- tutti animati dagli stessi ideali intellettuali e morali, e destinati a farsi strada a Roma.
Fino all’ultimo, il regista delle Mani sulla città non ha smesso di essere lucido, curioso, indignato per la violenza dilagante e l’incertezza del futuro del nostro Paese. Un vecchio leone sempre pronto a ruggire. «Guardava il telegiornale e si arrabbiava», racconta tra le lacrime Carolina, attrice, che per stare accanto al padre ha interrotto una tournée teatrale. «Io sono i miei film, diceva sempre, e la sua curiosità, la sua passione per il cinema e l’attaccamento alla vita gli hanno impedito di andare in pensione». L’ultimo film di Rosi è La tregua, del 1997, ma il maestro non aveva abbandonato del tutto l’idea di tornare sul set: «Dieci anni fa aveva scritto una sceneggiatura su Bruto e Cesare», rivela la figlia, «ma era un progetto troppo impegnativo».Lui stesso aveva spiegato: «La voglia di fare il film c’è, visto che ho dedicato settant’anni della mia vita al cinema, ma ci vorrebbero troppo tempo e troppi soldi».
IMPEGNO
Lui, che aveva inventato il cinema-verità, i film-inchiesta intrisi di passione civile e ricerca della verità, è stato combattivo fino all’ultimo: solo pochi mesi fa era al cinema America di Roma e ai ragazzi che l’avevano occupato parlava di cinema, vita, politica. Anche se confessava di «seguire a fatica» i teatrini italiani: «Troppe energie in contrasto, troppe regole travolte».
A novant’anni, Rosi aveva accettato di scrivere a quattro mani con Giuseppe Tornatore il magnifico libro intitolato Io lo chiamo cinematografo (Mondadori), una lunga cavalcata nella sua avventura artistica e umana. Nel 2012, ricevendo il Leone d’oro alla carriera a Venezia, rese omaggio al suo mestiere: «Il cinema ha cambiato il modo di guardare il mondo», disse, «e rimane il mezzo più potente di comunicazione, a dispetto della tv che tocca la realtà ma senza approfondirla. E, allo spettatore, noi registi dobbiamo l’onestà di una ricerca senza compromessi».
SCOMODO
La carriera del maestro è stata costellata di premi: Leone d’oro a Venezia nel 1963 per Le mani sulla città, Palma d’oro a Cannes nel 1972 per Il caso Mattei, nomination all’Oscar nel 1981 per Tre fratelli, e poi il Leone alla carriera, una pioggia di Nastri e David, i tributi di Berlino e Locarno, la cittadinanza onoraria di Matera.
I suoi film sono stati acclamati, premiati ma anche attaccati per i loro contenuti scomodi: nel 1963 Le mani sulla città che denunciava gli intrecci tra politica, corruzione e speculazione, venne contestato a Venezia e Uomini contro, sulle atrocità della Grande Guerra, gli procurò una denuncia per vilipendio dell’esercito.
E sembrava impossibile che la realtà, con tutta la sua crudezza, non si intersecasse con il cammino del regista: il 13 maggio del 1981 la notizia dell’attentato a Giovanni Paolo II piombò a Cannes mentre Rosi presentava ai giornalisti il film Tre fratelli. «Hanno sparato al Papa!», esclamò il regista terreo e fu così che la stampa internazionale venne informata di quel fatto incredibile che nessuno sceneggiatore avrebbe saputo immaginare.
PASSIONE
Nato in una famiglia borghese (il padre gestiva una compagnia marittima), laureato in legge, Rosi scoprì la sua vocazione al cinema grazie a Luchino Visconti del quale fu assistente sul set di La terra trema. Passione, senso dell’umorismo, rigore: la sua lunga vita si è svolta all’insegna di questi valori, ma amava anche Charlot, il jazz, l’opera. E il suo più grande dolore fu la morte dell’adorata moglie Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia e punto di riferimento della Roma intellettuale: quattro anni fa fu vittima di un incendio scoppiato nell’appartamento di via Gregoriana.
Domani alla Casa del Cinema, dalle 9 alle 18, sarà allestita una camera ardente e ci sarà una cerimonia civile in memoria di Rosi. Parteciperà anche il Presidente, anzi l’amico Napolitano.
Gloria Satta

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MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO -
Amici veri, Francesco Rosi e Giorgio Napolitano. «Perdo l’amico di una vita e il Paese perde una delle sue voci migliori», ha detto infatti ieri il presidente della Repubblica. Per lui, Rosi non è mai stato Francesco, ma Franco: così lo hanno sempre chiamato le persone che gli volevano bene. Amavano il cinema e il teatro, nella Napoli dei primi anni ’40, Franco e Giorgio. Poi uno avrebbe fatto il regista, l’altro avrebbe voluto fare l’attore - «Fui tentato di avventurami su quella strada. Poi mi sono perso per altre strade», ha ricordato tempo fa il presidente della Repubblica rievocando il suo legame con Rosi che risaliva agli anni del liceo Umberto a Napoli. Uno era figlio del direttore di una compagnia marittima, l’altro ha avuto un padre avvocato: entrambi appartenevano a quella borghesia napoletana, mai rassegnata a lasciare nel sottosviluppo il Mezzogiorno e la sua capitale.
«Ci hanno unito sempre gli stessi valori», quello della libertà e dell’antifascismo: è un altro ricordo recente che Napolitano ha espresso su Rosi. E la cena che loro due, insieme a un altro grande amico di entrambi, lo scrittore di Ferito a morte - Raffaele ”Duddù” La Capria - hanno avuto appena pochi mesi fa, il 15 novembre nella casa romana del regista ora scomparso, si è svolta proprio in questo clima di affetto incommensurabile. Si celebrava l’ultimo compleanno di Rosi e Giorgio e Duddù non potevano non esserci insieme alle loro consorti. E si è parlato del comune passato ma soprattutto del futuro, di ciò che poteva essere e non è stato e di ciò che potrebbe migliorare nel mondo che abbiamo davanti. Nella sezione ricordi, a Napolitano piace raccontare questo: «Ai tempi dell’università, nel 1942, quando arrivò la notizia dello sbarco alleato in Nord Africa uscimmo a festeggiare, passeggiando vestiti a festa. Appuntamento alla pensione Mauritius. Franco indossò abiti sgargianti». Stavano festeggiando la speranza che il fascismo sarebbe presto crollato. «Era quello - avrebbe raccontato Napolitano molti decenni più tardi, nel 2012, alla presentazione del libro-intervista di Rosi e Giuseppe Tornatore, Io lo chiamo cinematografo - un flebilissimo modo per esprimere soddisfazione. Con Napoli ancora in mano ai fascisti, come diceva Benedetto Croce, l’unica salvezza per l’Italia era perdere la guerra».
DIFFERENZE
Una differenza tra Rosi e Napolitano è che il regista è sempre stato di simpatie socialiste (fu membro dell’Assemblea nazionale del Psi), mentre il futuro presidente della Repubblica - mai anti-socialista nonostante le posizioni del suo partito non solo ai tempi di Enrico Berlinguer ma anche prima e dopo - fin da giovane cominciò ad avvicinarsi al Pci. Due riformisti, ecco: questo tratto comune non lo hanno perduto mai. Sarebbero pure potuti diventare colleghi nella professione, ma poi le cose sono andate come sono andate e la loro colleganza si fermò agli anni ’40. Quando entrambi, insieme ad Antonio Ghirelli e a Maurizio Barendson, animavano la Compagnia degli illusi. «Giorgio - ha ricordato Rosi - scrisse una sceneggiatura e la mise anche in scena come regista». Successivamente, da Mani sulla città in poi, Napolitano non ha perso neanche un film di Rosi. Ne ha sempre apprezzato la forza spettacolare e la verità del messaggio. Dal punto di vista caratteriale però - a parte la pignoleria, e l’iper-accuratezza di Rosi nel preparare i suoi film che lo ha portato ad essere chiamato “Il Professore” - i due non si può dire che siano stati simili. Durante un famoso comizio di Pietro Nenni a Napoli, dove Rosi era in prima fila, quando il leader socialista fece un accenno al Vaticano il regista lanciò un grido: «Abbasso il Papa!». Napolitano non avrebbe mai cacciato un urlo così. E probabilmente, sia pure non in slang e al netto delle parolacce, avrebbe rivolto all’amico le parole che a Rosi rivolse in quell’occasione un operaio di Bagnoli in piazza in quel momento: «Si ’ncominciamm’ a di’ strunzate nuie, è finita!». Quel rimprovero così realista e così politico - avrebbe confessato tempo più tardi Rosi - «mi ha seguito tutta la vita».
Mario Ajello

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FABIO FERZETTI, IL MESSAGGERO -
«Il regista deve solo far capire moralmente da che parte sta». - «E tu da che parte stai?». - «Contro».
In questo scambio di battute tra Francesco Rosi e Tullio Kezich c’è tutto il meglio di ciò che l’autore di Salvatore Giuliano ha fatto in mezzo secolo. Lo scavo dietro le apparenze per svelare i rapporti di potere e dominazione celati da norme e consuetudini. La ricerca della “giusta distanza” tra il regista e la sua materia, ma anche tra il film e lo spettatore, sempre spinto a ragionare su ciò che vede e a non perdersi nello spettacolo. L’imperativo categorico di una vita, scavare in cerca della verità, pur sapendo che la verità vera è inafferrabile.
Infine l’ostinata ricerca dell’autenticità - ne La sfida o in Salvatore Giuliano volti, luoghi, gesti, perfino accessori di scena erano spesso quelli veri - non per banale feticismo ma per aggiungere un brivido metafisico alla ricerca senza fine che è il senso ultimo dei suoi film-mosaico. Sempre pronti a trasformare l’inchiesta nel romanzo di un’inchiesta, magari con il regista in scena tra i personaggi. O a rovesciare un’ipotesi nel suo contrario, suggerendo mille altre interpretazioni dietro ogni parvenza di verità.
Pochi cineasti hanno avuto un impatto più decisivo sul rapporto fra il cinema e la realtà. Prima di Rosi c’erano i documentari o i film di finzione, punto. Dopo Salvatore Giuliano (e più tardi Il caso Mattei e Lucky Luciano), la faccenda si rivelò molto più aggrovigliata. Oltre che molto più ricca di significato. Parafrasando il celebre reportage di Tommaso Besozzi sulla fine misteriosa del bandito siciliano («Di sicuro c’è solo che è morto»), di sicuro nei film di Rosi c’era solo il nome del protagonista. Il resto era un vertiginoso castello di congetture che usava tutti i mezzi noti e qualcuno in più per dissipare, ma solo in parte, le mille ombre di un “caso” ancora aperto.
Rivedere per credere Salvatore Giuliano, il primo, il più radicale e inventivo dei suoi film-inchiesta, tanto che il protagonista non si vede mai se non di spalle o da lontano. Un film che lascia ancora a bocca aperta per l’audacia della concezione e delle implicazioni politiche. Anche se forse proprio la sua estrema novità permise a Rosi di arrivare in fondo, superando mille ostacoli. Produttori che sparivano, banche che ritiravano i finanziamenti, parenti del bandito che intimidivano il regista, Venezia che lo rifiuta scambiandolo, scusa patetica, per un documentario...
INTRECCIO DI POTERI
Mentre in Salvatore Giuliano tutto è stato girato ex novo ma sui luoghi e a volte con i personaggi stessi del dramma. In un alternarsi di materiali, punti di vista, piani temporali, stili di regia, che fa girare la testa e ricrea in tutta la sua complessità l’intreccio di poteri (i latifondisti, la mafia, la politica) nascosti dietro la parabola del bandito che con i suoi picciotti fece la strage di Portella della Ginestra. Senza mai un momento di emozione, espediente facile, se non per la scena straziante e insieme brechtiana della madre che piange sul cadavere del figlio (nel bel libro-intervista a Tornatore, Rosi si commuove ancora a ricordarla).
In queste inchieste “espanse”, progressivamente segnate da prove d’attore sempre più importanti (il Volonté del Caso Mattei e di Lucky Luciano), sta il contributo più alto di un regista intellettuale, appassionato, aperto a mille curiosità e suggestioni. Dalla lezione del thriller impegnato americano, fusa al lavoro sulla realtà sociale napoletana (La sfida e Le mani sulla città), all’istrionismo di Alberto Sordi, che domina ma non compromette il sottovalutato I magliari, fino alle favole del Basile (C’era una volta, con una grande Loren). Dal Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, al Lussu di Un anno sull’Altipiano, da cui nascerà Uomini contro, allo Sciascia del Contesto, sullo schermo Cadaveri eccellenti (tutti puntualmente accompagnati da molte polemiche, anche politiche). Fino alle prove più tarde ma anche meno incisive di Tre fratelli, Carmen, Cronaca di una morte annunciata, Dimenticare Palermo, La tregua, da Primo Levi.
Come se abbandonando la struttura dell’inchiesta Rosi avesse un po’ perso la forza, la convinzione intima, il coraggio di sperimentare nuove forme di racconto che rendeva così unici i suoi film migliori. Creando a volte ambigui cortocircuiti tra cinema e realtà se per anni la Rai ha usato, spacciandole per brani di repertorio, scene da Salvatore Giuliano ogni volta che aveva bisogno di immagini sul tema. Destino paradossale di un’opera molto più contraddittoria di quanto non si creda. Che il Bif&st di Bari, a marzo, riproporrà nella sua integralità.
Fabio Ferzetti

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FEDERICO PONTIGGIA E FRANCESCO CORALLO, IL FATTO QUOTIDIANO -
Il Professore non c’è più. Professore, lo chiamavano gli amici e i colleghi, perché maniaco del dettaglio, della precisione, ma insieme curioso, attento, informatissimo. Ancora a 92 anni, non si perdeva un tg né i cinque quotidiani letti e dibattuti ogni giorno. Se qualcosa non gli andava, non c’era orologio che tenesse: chiamava a tarda sera, prendeva posizione, s’indignava, tracimava passione civile. Francesco Rosi è stato fino alla fine un Cittadino, con la C maiuscola. Fiero, orgoglioso dei suoi film, che ogni occasione era buona per rivedere in dvd e in tv: dal film-reportage sul bandito Salvatore Giuliano (1962) all’eterno Le mani sulla città (1963) sulla speculazione criminale ai tempi del boom economico, da Il caso Mattei (1972), dedicato allo scomparso presidente dell’Eni a Cristo si è fermato a Eboli (1979) erano tutti suoi figli, senza un preferito da mettere sopra gli altri.

Come gli attori, dove però nel suo cuore avevano un posto speciale John Turturro, che per il Primo Levi de La tregua perse 15 chili, e soprattutto Gian Maria Volonté, il volto pensante di tanto suo cinema, ben cinque film, da Uomini contro (1970) sull’altopiano di Lussu a Cronaca di una morte annunciata (1987) da Garcia Marquez . Ancor prima di parlare della parte, Rosi portava Gian Maria dal suo barbiere: forbici e rasoio per scolpire il volto e trovare il personaggio. Cinema di bottega: taglia e trova. Volonté lo trovò più volte, Rosi, ma sempre dialetticamente: si stimavano, si amavano, pertanto si scontravano, non fosse altro che per l’hotel di lusso ideologicamente rifiutato da Volonté durante la lavorazione del Cristo. Preferendo una casa di contadini, faceva arrabbiare Franco.

BAZZECOLE, se paragonate alla relazione pericolosa tra Franco e la moglie, amatissima, Giancarla, scomparsa l’8 aprile 2010: baruffe e rimbrotti, ma l’affetto era sempre il grande sottinteso. Una sera nel loro frequentatissimo salotto di via Gregoriana, c’erano l’amico Tullio Kezich e Garcia Marquez, sodale di Rosi sin dagli anni 50: Kezich era preoccupato, la discussione che impegnava Franco e Giancarla non era oltremodo disdicevole davanti a cotanto ospite? Lo tranquillizzò lo stesso Marquez: “Sono 25 anni che frequento questa casa, ed è sempre così: inizio a sospettare sia la felicità”. Sono stati gli amici, insieme all’adorata figlia Carolina, a sorreggerlo dopo la morte di Giancarla. Amici ritrovati quali Raffaele La Capria, con cui, giovane, se ne venne a Roma da Napoli insieme a Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson, tutti ex allievi del liceo Umberto I.

E poi, Peppuccio Tornatore, con cui ha condiviso la scrittura di Io lo chiamo cinematografo, Marco Tullio Giordana e Roberto Andò, Furio Colombo ed Ettore Scola. Ancora, Giorgio Napolitano, amicizia di vecchissima data. Recentemente si erano visti al Quirinale, per la proiezione privata de Il giovane favoloso di Mario Martone, e poi il 15 novembre: 92° compleanno di Franco, cena per pochi intimi, tra cui il presidente della Repubblica. Hanno condiviso molto, Rosi e Napolitano, non la fede politica: comunista Giorgio, socialista deluso da Craxi Franco, che nell’urna avrebbe trovato infine la stessa cifra poetica del suo cinema, indipendente di sinistra. Ma senza snobismi, senza elitarismi: figuriamoci, gli piacevano persino i premi.

Il Leone d’Oro alla carriera di Venezia nel 2012, la cittadinanza onoraria di Matera e Matelica (il paese natale di Enrico Mattei) e, ultima uscita pubblica, l’omaggio del Cinema America di Trastevere, con i giovanissimi cinefili a salutare il maestro di tante battaglie civili che presentava il suo Uomini contro.

AMAVA i riconoscimenti, ancor più le persone, i colleghi: quando un film gli piaceva, voleva il numero del regista, voleva, doveva farglielo sapere. Ha chiamato, entusiasta, Daniele Vicari per Diaz, prima Marco Amenta per La siciliana ribelle, Placido per Un eroe borghese: su Ambrosoli avrebbe voluto vedere anche la recente fiction con Favino, Qualunque cosa succeda. Non ce l’ha fatta. Ma se ne va, tra gli altri, con l’ammirazione di Costa-Gavras, che lo volle protagonista di una prestigiosa retrospettiva alla Cinémathèque Française. Avevano lo stesso progetto, un film sul caso Moro: Franco declinò perché osteggiava gli instant-movie, Costa-Gavras, che aveva scritto la sceneggiatura con Scalfari, perché gli infiltrati allontanavano la verità. Peccato. Ma Rosi aveva già fatto tanto, almeno abbastanza per meritarsi la sconfinata riconoscenza di Scorsese: dopo i due doc sul cinema italiano, Martin avrebbe voluto dedicare un terzo interamente al regista napoletano. Vedremo, non tutti i progetti vanno in porto. Se doveste trovarvi a passeggiare a piazza Argentina, ricordate Francesco Rosi: “Qui è morto”, diceva, parlando del film su Giulio Cesare che aveva scritto con Dudù La Capria. Il ciak datelo voi.