Stefano Bucci, Corriere della Sera - La Lettura 11/1/2015, 11 gennaio 2015
LE PAROLE OLTRE LE PAROLE LA SCRITTURA COME ARTE
Uffizi, Firenze: la Vergine, col Bambino sulle ginocchia, è incoronata da due angeli mentre sta scrivendo su un libro le parole del Vangelo di Luca: «Magnificat anima mea Dominum» (due angeli tengono il libro e il calamaio dove Maria intinge la penna); nella pagina sinistra del libro si leggono invece alcune parole del Benedictus di Zaccaria. È la Madonna del Magnificat (1482-83), uno dei capolavori di Sandro Botticelli (1445-1510).
Triennale, Milano: Énoncé impossibile (1966-67) è un collage che combina fotocopie, ritagli di riviste e pubblicazioni, fotografie e didascalie per creare un romanzo sperimentale, mentre La quindicesima riga (1966-68) è un libro sperimentale che assembla la quindicesima riga di quindici parole di 400 libri per ricopiarle con una macchina per scrivere, ritagliarle, incollarle in cartelle di trenta righe ciascuna. Scene da Cold Cinema , la mostra (fino al 22 febbraio) curata da Alessandro Rabottini e dedicata a Gianfranco Baruchello (1924), artista celebre per le sue sperimentazioni su tecniche e linguaggi, spesso ispirate alla lezione di Duchamp di cui è stato l’allievo prediletto.
Courtauld Institute, Londra: venerdì 16 gennaio, alle 18, appuntamento con l’americano Joseph Kosuth (1945), uno dei padri del Concettuale (insieme a Bruce Nauman e Mario Merz) per una lezione sul ruolo del linguaggio e della scrittura nell’arte, in concomitanza con la retrospettiva dedicata a Kosuth ( Amnesia: Various, Luminous, Fixed fino 14 febbraio) dalla Sprüth Magers Gallery che propone una serie di storici lavori al neon (come Four colors four words del 1966).
La scrittura come forma d’arte, dunque. E non tanto come «semplice» calligrafia, quanto piuttosto come elemento decorativo, come frammento essenziale dell’impianto di una tela, di un capitello, di un’installazione. Un’idea che viene da molto lontano (la Grecia antica, la Roma dei Cesari) ma che coinvolge culture apparentemente agli antipodi, almeno geograficamente. Basterebbe, ad esempio, un semplice passaggio nei depositi del Metropolitan Museum di New York dove si ritrovano fianco a fianco piatti bianco-azzurri ritrovati nell’antica Basra (Bassora, Iraq) decorati con i versetti del Corano (IX secolo) e Wang Xizhi che sorveglia le oche , una bellissima calligrafia cinese della dinastia Yuan (1295 circa) che assembla alla perfezione figure, paesaggi e (appunto) scrittura.
Lo stesso Met dove, fino all’8 marzo, sono esposti i quattro volumi della Bibbia di Manchester , commissionata intorno al 1150 e a ragione definita un capolavoro dell’arte medievale, di figure di profeti e apostoli, ma soprattutto di iscrizioni sacre. Molto simili a quella che completa la decorazione (foglie d’alloro e di quercia, corolle di fiori, stella ottagonale e a sei punte) del Tempietto del Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti, databile attorno al 1467, oggi conservato all’interno del Museo Marini di Firenze: un versetto di Matteo riportato sulla trabeazione, scolpito in caratteri simili a quelli degli antichi monumenti romani.
Futuristi come Depero, surrealisti come Magritte, «artisti poveri» come Boetti e graffitari eccellenti come Banksy: in molti hanno subito, e continuano a subire, il fascino della parola e della scrittura. Ognuno a suo modo, ognuno con una propria specifica motivazione: « La quindicesima riga — spiega Baruchello — è nata letteralmente dalla mia biblioteca di casa e da quelle dei miei amici del Gruppo 63, poeti che amavo ma che allora volevo anche prendere in giro per la loro aggressività. Biblioteche e romanzi che io ho smembrato, disperso, ricostruito e reinventato. Per me era soprattutto un modo diverso per fare poesia. Quali romanzi avevo scelto? Sicuramente Calvino, una mia grande passione oltre che un mio grande amico». Mentre più smaccatamente letterario appare l’esperimento tentato ancora da Baruchello, sempre alle soglie del Sessantotto: quell’ Avventure nell’armadio di plexiglas nato come parte integrante di un progetto che includeva testo e immagini. Ma, mentre il testo sarebbe stato effettivamente pubblicato (da Feltrinelli nel 1968), i collages che raccoglievano gli oggetti più disparati della propria quotidianità (la quarta di copertina del romanzo avrebbe addirittura dovuto ospitare le istruzioni per crearsi il proprio «armadio») sarebbero invece stati esclusi per motivi di marketing e vengono ora riproposti per la prima volta nell’ambito della mostra della Triennale.
Il catalogo degli artisti appassionati della scrittura appare eterogeneo: dei caratteri della scrittura persiana Shirin Neshat (1957) ha ricoperto i volti e i corpi delle sue donne ( Unveiling ); il tedesco Ralph Ueltzhoeffer (1966) nei suoi Text Portraits ha scritto la biografia delle celebrities immortalate (Angelina Jolie, Madonna, Michael Jackson, Elizabeth Taylor, il presidente Obama) direttamente sui loro volti; Barbara Kruger (1945) ha trasformato a colpi di slogan feroci («Non abbiamo bisogno di altri eroi») banali fotografie quotidiane in provocazioni di grande impatto politico ( Belief + Doubt ); «Una parola cancellata sarà sempre una macchia, ma resta pur sempre una parola» è la filosofia seguita da Emilio Isgrò (1937) in lavori come Fratelli d’Italia ; Jean-Michel Basquiat (1960-1988) ha colorato «violentemente» lettere e caratteri alla maniera di un writer della Grande Mela ( Just Sour ); la coreana Lee Jung (1972) ha scelto le sue installazioni al neon (ispirate alla lezione di Dan Flavin) per riempire luoghi desolati e assai poco romantici di frasi piene invece di sentimento e belle promesse ( Ps. I love you ); l’egiziano Walid Elzawi (1987) ha trasformato la domanda «Are you an artist?» in tredici box luminosi riempiti con altrettante risposte più o meno sorprendenti ( A contemporary artist vs. a con artist ). E poi (in ordine più o meno sparso) Jenny Holzer, Cerith Wyn Evans, Cristopher Wool, Lawrence Weiner, Alighiero Boetti, Corita Kent, Cliff Hengst, Ruth Ewan, Emily Floyd, Peter Davies, un grande maestro come Mario Merz e tanti anonimi artisti di strada.
Fino allo strano (ed edificante) caso dello scrittore e artista londinese Sam Winston (1978) che, oltre ad aver esibito in una mostra 20 volumi del Dizionario Oxford in pagine piegate su se stesse, racconta di aver «sfruttato» la dislessia da cui è da sempre stato affetto «per vedere di ogni testo sia l’aspetto verbale che quello visivo». Il risultato sono lavori in cui la scrittura viene meticolosamente smontata alla ricerca di un nuovo significato, quella di semplice immagine grafica. E così la Bella e la Bestia può diventare un orario ferroviario; Biancaneve, l’articolo di un quotidiano; Romeo and Juliet di Shakespeare, un collage di singole parole raggruppate secondo le categorie «amore», «rabbia», «indifferenza». Insomma, altro che semplice scrittura.