Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 11/1/2015, 11 gennaio 2015
ROSI ADDIO AL REGISTA DELL’IMPEGNO CIVILE. DICEVA: IL CINEMA È REALTÀ
I film? «Mi piace vederli al cinema, in una sala di proiezione col pubblico. Voglio sentire la reazione della gente, capire se è diversa dalla mia. Il cinematografo è un miracolo, un grande sostegno per l’affermazione della democrazia. […] Perché il cinematografo sa sempre mostrarti la verità dei comportamenti».
Sono risposte di Francesco Rosi a Giuseppe Tornatore per quello straordinario libro-conversazione che è Io lo chiamo cinematografo (Mondadori) e vi si può leggere l’amore e l’entusiasmo che non ha mai abbandonato il regista, morto ieri a Roma a 92 anni (era nato a Napoli il 15 novembre 1922).
In quelle affermazioni c’è la passione civile che ha fatto di Rosi il più importante (e il più bravo) dei registi «politici» italiani, ma c’è anche la passione cinefila che l’aveva spinto, poco tempo fa, a dare il proprio sostegno ai ragazzi che lottavano per tener aperto il cinema America. «Puoi usare il cinema come vuoi — diceva ancora a Tornatore — ma è difficile che il cinema tradisca la realtà». Ed è proprio nel rispetto di quella «realtà» che è nato e cresciuto il suo cinema e che Rosi ha firmato i suoi capolavori.
Avvocato mancato, anonima comparsa per il cinema e per la rivista, disegnatore senza lavoro, trovò la sua strada grazie a Visconti che lo chiamò sul set di La terra trema e poi per collaborare alla sceneggiatura di Bellissima . Assistente di Emmer, Matarazzo, Giannini, Antonioni e Monicelli, esordì nella regia nel 1958 con La sfida , rielaborazione di un fatto di cronaca (l’ascesa e la caduta di un trafficante di sigarette nei mercati generali di Napoli) dove la lezione neorealistica si intreccia a quella del cinema americano. Anche in I magliari (1959) ritroviamo la lotta tra il vecchio boss e il nuovo arrivato in una Germania di piccoli e grandi truffatori, ma è con i due film successivi che Rosi modificherà radicalmente il modo di fare cinema politico in Italia. E non solo. Il primo è Salvatore Giuliano (1961, Orso d’argento a Berlino): le gesta del bandito e la sua misteriosa uccisione sono scomposti e ricostruiti attraverso una lunga serie di flashback dove finzione e documentario si fondono magistralmente. Il nodo economico-politico che ha portato all’affermazione della mafia viene presentato con grande chiarezza e in modo cinematograficamente esemplare. La stessa esemplarità all’origine di Le mani sulla città (1963, Leone d’oro a Venezia), dove un caso inventato di speculazione edilizia a Napoli gli serve per mostrare i compromessi del potere economico e politico (ancora una volta) e come si adatti ai cambiamenti della città. Scavare nel reale — della Storia, della Cronaca, della Politica — sarà sempre il faro che illuminerà il suo cammino di regista, sia nei film più liberi e fantasiosi, come Il momento della verità (1965, un povero andaluso cerca il riscatto nella tauromachia), C’era una volta… (1967, una favola ispirata a Basile, sulla furbizia popolaresca) o Carmen (1984, dove l’opera di Bizet è riletta in un rigoroso verismo), sia in quelli più impegnati e «militanti», come Uomini contro (1970, da Lussu, sulla prima guerra mondiale), Il caso Mattei (1972, sulla morte del padre dell’Eni), Lucky Luciano (1973, sulla carriera del boss mafioso), C adaveri eccellenti (1976, sulle trame degli anni di piombo), Cristo si è fermato a Eboli (1979, dal romanzo di Carlo Levi) o Tre fratelli (1981, sui destini di tre italiani variamente «impegnati». Per me il suo vero, struggente canto del cigno).
Tutte opere, per usare le parole di un grande esegeta di Rosi, il francese Michel Ciment, dove le «risposte contengono ulteriori domande, in una spirale infinita che viene svelata da film taglienti come una lama d’acciaio, duri e nello stesso tempo brillanti». Gli ultimi film — Cronaca di una morte annunciata , 1987; Dimenticare Palermo , 1990 e La tregua , 1997 — non ritrovano la forza delle opere precedenti ma non inficiano minimamente un’opera di grandissimo livello, capace di «rappresentare la vita e i personaggi in un contesto sociale e politico», come disse lo stesso Rosi, «sperando così di aiutare il pubblico a conoscere la realtà del nostro Paese». Beh, possiamo proprio dire che l’ha fatto, e di questo gliene saremo sempre grati.