Fabio Ferzetti, Il Messaggero 11/1/2015, 11 gennaio 2015
CON I FILM DI INDAGINE HA CREATO UN GENERE
«Il regista deve solo far capire moralmente da che parte sta». - «E tu da che parte stai?». - «Contro».
In questo scambio di battute tra Francesco Rosi e Tullio Kezich c’è tutto il meglio di ciò che l’autore di Salvatore Giuliano ha fatto in mezzo secolo. Lo scavo dietro le apparenze per svelare i rapporti di potere e dominazione celati da norme e consuetudini. La ricerca della “giusta distanza” tra il regista e la sua materia, ma anche tra il film e lo spettatore, sempre spinto a ragionare su ciò che vede e a non perdersi nello spettacolo. L’imperativo categorico di una vita, scavare in cerca della verità, pur sapendo che la verità vera è inafferrabile.
Infine l’ostinata ricerca dell’autenticità - ne La sfida o in Salvatore Giuliano volti, luoghi, gesti, perfino accessori di scena erano spesso quelli veri - non per banale feticismo ma per aggiungere un brivido metafisico alla ricerca senza fine che è il senso ultimo dei suoi film-mosaico. Sempre pronti a trasformare l’inchiesta nel romanzo di un’inchiesta, magari con il regista in scena tra i personaggi. O a rovesciare un’ipotesi nel suo contrario, suggerendo mille altre interpretazioni dietro ogni parvenza di verità.
Pochi cineasti hanno avuto un impatto più decisivo sul rapporto fra il cinema e la realtà. Prima di Rosi c’erano i documentari o i film di finzione, punto. Dopo Salvatore Giuliano (e più tardi Il caso Mattei e Lucky Luciano), la faccenda si rivelò molto più aggrovigliata. Oltre che molto più ricca di significato. Parafrasando il celebre reportage di Tommaso Besozzi sulla fine misteriosa del bandito siciliano («Di sicuro c’è solo che è morto»), di sicuro nei film di Rosi c’era solo il nome del protagonista. Il resto era un vertiginoso castello di congetture che usava tutti i mezzi noti e qualcuno in più per dissipare, ma solo in parte, le mille ombre di un “caso” ancora aperto.
Rivedere per credere Salvatore Giuliano, il primo, il più radicale e inventivo dei suoi film-inchiesta, tanto che il protagonista non si vede mai se non di spalle o da lontano. Un film che lascia ancora a bocca aperta per l’audacia della concezione e delle implicazioni politiche. Anche se forse proprio la sua estrema novità permise a Rosi di arrivare in fondo, superando mille ostacoli. Produttori che sparivano, banche che ritiravano i finanziamenti, parenti del bandito che intimidivano il regista, Venezia che lo rifiuta scambiandolo, scusa patetica, per un documentario...
INTRECCIO DI POTERI
Mentre in Salvatore Giuliano tutto è stato girato ex novo ma sui luoghi e a volte con i personaggi stessi del dramma. In un alternarsi di materiali, punti di vista, piani temporali, stili di regia, che fa girare la testa e ricrea in tutta la sua complessità l’intreccio di poteri (i latifondisti, la mafia, la politica) nascosti dietro la parabola del bandito che con i suoi picciotti fece la strage di Portella della Ginestra. Senza mai un momento di emozione, espediente facile, se non per la scena straziante e insieme brechtiana della madre che piange sul cadavere del figlio (nel bel libro-intervista a Tornatore, Rosi si commuove ancora a ricordarla).
In queste inchieste “espanse”, progressivamente segnate da prove d’attore sempre più importanti (il Volonté del Caso Mattei e di Lucky Luciano), sta il contributo più alto di un regista intellettuale, appassionato, aperto a mille curiosità e suggestioni. Dalla lezione del thriller impegnato americano, fusa al lavoro sulla realtà sociale napoletana (La sfida e Le mani sulla città), all’istrionismo di Alberto Sordi, che domina ma non compromette il sottovalutato I magliari, fino alle favole del Basile (C’era una volta, con una grande Loren). Dal Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, al Lussu di Un anno sull’Altipiano, da cui nascerà Uomini contro, allo Sciascia del Contesto, sullo schermo Cadaveri eccellenti (tutti puntualmente accompagnati da molte polemiche, anche politiche). Fino alle prove più tarde ma anche meno incisive di Tre fratelli, Carmen, Cronaca di una morte annunciata, Dimenticare Palermo, La tregua, da Primo Levi.
Come se abbandonando la struttura dell’inchiesta Rosi avesse un po’ perso la forza, la convinzione intima, il coraggio di sperimentare nuove forme di racconto che rendeva così unici i suoi film migliori. Creando a volte ambigui cortocircuiti tra cinema e realtà se per anni la Rai ha usato, spacciandole per brani di repertorio, scene da Salvatore Giuliano ogni volta che aveva bisogno di immagini sul tema. Destino paradossale di un’opera molto più contraddittoria di quanto non si creda. Che il Bif&st di Bari, a marzo, riproporrà nella sua integralità.