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 2015  gennaio 11 Domenica calendario

IL VERO SENSO DI HELSINKI PER LA VITA È IN UN POMELLO

Poi, un giorno della mia gioventù, sull’Appennino intorno a Bologna sbocciò una chiesa insolita, progettata da un architetto finlandese di nome Alvar Aalto. L’aveva voluta un don Camillo, il cardinal Lercaro, ma ai Pepponi non piaceva e commentavano: «Certa roba sta bene a Helsinki». Poiché a me sembrava bellissima, provai il desiderio di vedere tutta quella “roba che stava bene a Helsinki”, ma non avevo i mezzi per arrivarci. Poco tempo dopo mi iscrissi a Giurisprudenza e frequentai il corso di filosofia del diritto. Il professore era un appassionato del positivismo giuridico, inneggiava al “contratto sociale” citando Hobbes e Rousseau, stravedeva per Norberto Bobbio, ma ancor più per un discusso pensatore scandinavo di nome Karl Olivecrona. Proprio per seguire un congresso a lui dedicato propose un viaggio di studio a Helsinki. Avevo i bagagli pronti quando la spedizione fu disdetta perché l’ateneo rifiutò il finanziamento. Ho dovuto così aspettare oltre trent’anni per scoprire la relazione che lega l’architettura organica al giuspositivismo, un mobile finlandese alla sola possibilità di convivenza davvero civile. C’è voluta una vita. C’è voluto un pomello.
Helsinki è una capitale del vuoto. Non c’è mai traffico, mai folla, mai rumore. Per andare da A a B segui una linea retta, non un’onda sinusoidale. Le coordinate devi averle dentro, perché non ti darà mai punti di riferimento: non nel tempo, non nello spazio. Ci sarà sempre luce, o sempre oscurità. E orizzonte a perdere. Chi non ha un’idea di sé o del mondo non può che naufragarci, ma non ha senso incolpare il sistema se ti lascia libero anche di annegare dopo averti insegnato a nuotare.
Delle società scandinave si è finito per parlare come della chiesa di Alvar Aalto: democrazie troppo bizzarre e cortesi per essere esportate, soprattutto a sud. Le archistar contemporanee fanno progetti disorganici: adeguano la cascata alla casa anziché la casa alla cascata. All’idea che l’unico diritto sia quello positivo, sancito da leggi create dall’uomo e per cui giustizia e legalità coincidono, si antepongono vagheggiamenti giusnaturalistici secondo i quali vengono prima il comandamento di un profeta, la tradizione e, più d’ogni altra cosa, l’interesse personale.
Cercando il senso di Helsinki per la vita ho preso un tram, come faccio spesso nelle città che non conosco. Ho scelto la linea 4, che dal centro procede verso il mare e ritorno. Neve; palazzi dalle grandi finestre, un candelabro per ognuna; tempi moderni e tempi trascorsi che trovano fusione nella pietra e nei comportamenti. Un’autista gentile, quando rimaniamo soli e fermi al capolinea, mi indica una strada in salita e dice: «Lì c’è la casa di Alvar Aalto». Scendo, seguendo un indizio. Una biblioteca, un campo di calcio e, oltre, un’accademia militare.
La casa di Aalto è di cemento imbiancato e legno. L’entrata è protetta, indistinguibile, il giardino è sul retro. Appare chiusa e silenziosa, ma illuminata al piano superiore. Suono più volte finché viene ad aprire una ragazza-elfo, custode e domestica. Mi informa che le visite sono sospese per un mese. Quando dico che arrivo dall’Italia, da una chiesa sull’Appennino, fa eccezione alla regola.
L’architetto comprò il terreno insieme con la prima moglie, Aino. Quando, rimasto vedovo, ci tornò a vivere con la seconda, Elissa, il ritratto dell’altra rimase posato sul pianoforte a coda. La casa parla di spazi condivisi, ma divisibili. Più che muri, ha tende e scorrevoli. I tavoli hanno prolunghe che scompaiono dietro ante segrete delle credenze. Ogni cosa può essere fruita in più modi, a seconda dei bisogni. Quel che mi colpisce è un mobile al fondo della sala da pranzo. Lo disegnò Elissa. Occupa l’intera parete a fianco della porta che conduce in cucina. Ha due grandi sportelli e una fila di cassetti. La ragazza-elfo li osserva con l’espressione di chi sta per svelare un trucco. Et voilà: sportelli e cassetti sono bifronte. Si aprono e tirano dalla sala come dalla cucina. Ciascuno ha due pomelli: uno di qua e uno di là. Il mobile è uno, ma esiste in due ambienti. Mi sorge il dubbio: che accade se cercano di occuparlo da entrambi i lati? Se uno tira di qua e l’altro di là? La ragazza-elfo scuote il capo. La risposta è nelle cose: chi abitava questa casa si amava, quindi si rispettava. Non invadeva spazi, li concedeva. Questo, alla fine, è il fondamento del contratto sociale: il reciproco rispetto e una qualche forma d’amore. Funziona se lo Stato protegge i cittadini, anziché spremerli. Impone tasse, ma offre servizi e tutele. Se l’azienda e chi ci lavora si sentono sulla stessa barca anziché cercare di fregarsi a vicenda. Se il confine del vicino è un freno e non una tentazione. Altrimenti: costituzione, jobs act e diritto internazionale sono soltanto pezzi d’arredamento nella casa di un’archistar presuntuosa.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 11/1/2015