Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa 11/1/2015, 11 gennaio 2015
NAPOLITANO, LA CAPRIA E SCOLA METTI UNA SERA A CENA A CASA ROSI
Metti una sera a cena (per citare un titolo del compagno di liceo Patroni Griffi) da Francesco Rosi, il 15 novembre scorso, giorno del suo 92esimo anniversario. Una serata amorevolmente organizzata dalla figlia Carolina che ha l’idea di festeggiare il padre riunendo i suoi più cari amici: fra cui «Dudu» La Capria, che con Franco ha sempre mantenuto un costante rapporto di affetto e lavoro; e il presidente Napolitano, che coglie al volo l’occasione di un pranzo piacevole e intimo lontano dagli impegni ufficiali. Al tavolo - dove siedono anche Furio e Alice Colombo, ed Ettore e Gigliola Scola - si gustano i deliziosi piatti cucinati da tata Maria, angelo tutelare di casa Rosi sull’arco di mezzo secolo; e si parla un po’ di tutto - di eventi planetari come di antichi ricordi di giovinezza - con una filosofica levità che tradisce un ineludibile sentimento di partecipazione.
Serate del genere da Rosi erano usuali. Per la qualità degli ospiti e il tono del discorso il suo salotto rappresentava un’oasi di civiltà; e del resto non è proprio è il profondo senso civile a contraddistinguere il privato quanto l’opera cinematografica del «Citizen Rosi»? Per innata riservatezza teneva ben segreto il suo mondo personale, ma chi lo ha conosciuto sa che sotto la maschera autorevole si celava un temperamento di fine sensibilità, intenso negli affetti per le sue adorate donne, la moglie Giancarla e Carolina; leale nei rapporti con gli amici di lunga data come Lina Wertmüller, quanto con i più «giovani» cineasti come Andò, Giordana e Tornatore.
Tuttavia, pur essendo uomo curioso, amante del cibo, del mare, di un buon sigaro, delle cose belle e della conversazione, Franco era divorato da due sole passioni inestricabilmente legate l’una all’altra, il cinema e il suo Paese. Molto si è scritto, e si scriverà, sull’opera di questo straordinario Maestro, ispiratore di cineasti del livello di Scorsese e di Stone, e non saranno certo poche righe a esaurire il tema. Ma potremmo sintetizzare così il suo paradosso d’autore: se l’accanimento a lavorare sulla realtà, imprescindibile base del suo cinema, è motivato da una radicata coscienza di homo civicus; «la verità», che è altra cosa, scaturisce da un denso talento formale. La grandezza di Rosi attiene alla coerenza e integrità con cui si è calato con tutto se stesso nell’arte e nella vita. Fino all’ultimo preoccupato di quanto succedeva in patria e nel mondo; e, nonostante avesse perso ogni illusione sulla capacità dell’Italia di riscattarsi dei mali secolari, sempre pronto a soffrirne, a indignarsi, a sperare.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa 11/1/2015