Antonio Gnoli, LA REPUBBLICA 11/1/2015, 11 gennaio 2015
Ferdinando Scianna “Siamo ladri di realtà, in attesa dell’istante in cui Dio fa capolino” ANTONIO GNOLI LE STORIE di famiglie quando si raccontano sembrano storie senza armi
Ferdinando Scianna “Siamo ladri di realtà, in attesa dell’istante in cui Dio fa capolino” ANTONIO GNOLI LE STORIE di famiglie quando si raccontano sembrano storie senza armi. Senza clamori. Ricche, talvolta, di una mobilità aneddotica, ma povere di sostanza drammatica. Non che le tragedie non ci siano state. Ma il tempo e le parole le levigano, le arrotondano, le ricompongono in una ricognizione retrospettiva distaccata e tranquilla. Giunte ormai a una certa età quelle storie, fatte di alterne fortune, ci guardano con umana rassegnazione. Ferdinando Scianna — fotografo di una qualità assoluta (i suoi ultimi libri sono usciti per Contrasto), che cova la ribellione nella lingua della tradizione — accorda le parole della memoria con quelle voci lontane. Ricorda il mondo borbonico da cui gli Scianna provenivano. L’intrusione di Garibaldi. I rovesci economici. Il più grave avvenne alla fine dell’800. Proprietari di vigneti furono martoriati dalla peronospora. Il fungo distrusse tutto, desertificò e immalinconì le foglie e i tralci. Una tragedia. Chi non era abbastanza ricco, divenne povero. Ci vollero decenni per risollevarsi. Mentre racconta — questo signore dall’aria compatta, nutrita da una certa timidezza che potrebbe essere letta come una forma di superbia (ma forse coesistono entrambi i caratteri) — si ha l’impressione che la missione dell’erede sia quella di contrastare il naturale declino di una famiglia. Di fare cose delle quali andare orgoglioso: «Nel mio caso ho portato un intero mondo di facce e di storie che erano un po’ ovunque, in quest’altra parte della vita. Essermi imbattuto in loro, o loro in me ha fatto la differenza». Differenza rispetto a cosa? «A ciò che sarei potuto essere e non sono diventato. La mia partenza da Bagheria per Milano fu un modo per sfuggire a un destino piccolo borghese. Cercavo un sogno che lì, in quella terra bella e ipnotica, non avrei mai realizzato ». Il sogno era la fotografia? «Che mestiere è? Chiese mio padre. Lo guardai senza sapere cosa rispondere. Che mestiere è uno che ammazza i vivi e resuscita i morti? Pensava alle foto in ceramica nei cimiteri. Non sapeva andare oltre. Non sapeva sognare. Non sapeva vedere». Che cosa faceva? «Per vent’anni ha fatto il commesso in un negozio di tessuti a Palermo. Quando il bisnonno fu travolto dall’epidemia delle vigne, restarono i debiti. E per tutta la vita — nonostante poi ci si fosse ripresi — mio padre che aveva vissuto indirettamente quel trauma aspettava la catastrofe. Il suo mondo, fatto di regole ferree, di tradizione imsi posta, stava andando a puttane. Non se ne accorgeva. Non vedeva il nuovo, spuntare. C’è gente incapace di scorgere il nuovo. Psicologicamente si sentiva un vinto. La mia fortuna è stata di conoscere a 19 anni Leonardo Sciascia». Come accadde? «Vide una mia mostra di fotografie e lasciò un biglietto in cui mi invitava ad andare a trovarlo a Racalmuto. Mi presentai. Un po’ emozionato. Scoprii in lui quel padre culturale che non avevo mai avuto. Mi fece capire cosa stavo facendo. Dico sempre che gli devo la parte migliore di me. Il resto è il mio. Quando lasciai Bagheria per Milano capii che lui era un figlio della Sicilia e che mai avrebbe abbandonato quella terra». Si sentiva in colpa nel lasciare quei posti? «No, avvertivo la gratitudine per quello che mi aveva insegnato. Ma sapevo che la mia vita sarebbe stata altrove. Arrivai a Milano nel 1966». Come lei, molti altri avevano scelto di emigrare. «Quando guardo a quello che sta accadendo penso che noi eravamo immigrati come quelli che oggi giungono dall’Africa. Invece dei barconi avevamo i treni. Ma la paura era la stessa. Come la speranza di poter cambiare vita. Non fu facile. Trovare un alloggio, un lavoro, un futuro». Difficile ma a portata di mano. «Frequentai per un certo tempo il Bar Giamaica. PreÈ la coda di quel luogo un tempo folgorante. Vi andavo perché sapevo che potevo trovarci Ugo Mulas. Cercavo un lavoro. Gli feci vedere un mio libro sulle feste siciliane, fu incoraggiante. Mi colpì il suo modo silenzioso di accostarsi alle cose e alle persone. Conobbi lì anche Mario Dondero. In seguito ci frequentammo per un periodo a Parigi. Un genio dell’amicizia. Nessuno come Mario sapeva raccontarti un episodio di vita. Attorno a lui sono fiorite leggende, un’aneddotica infinita che hanno un po’ messo in secondo piano il suo lavoro di fotografo». Chi è un grande fotografo? «Può essere un grande stronzo o una persona meravigliosa. Non importa. La cosa fondamentale è che nei migliori noti la capacità di trasformare il rapporto estetico e morale con il mondo in una ossessione espressiva». Mi pare una definizione complicata. «Complicata è l’esperienza mentale. In ogni grande fotografo c’è l’inquietudine di perdere o mancare l’istante. Io so perfettamente che l’istante è un’illusione. Ma so, al tempo stesso, di non poterne fare a meno. C’è sempre uno scarto fra l’illusione e l’imprescindibilità dell’istante. È lì dentro che si materializza l’ossessione. Cos’è questo stato d’animo? Detto, in termini religiosi, è l’angoscia di aspettare che Dio faccia capolino da dietro l’angolo. Fu una lezione che appresi da Cartier-Bresson ». stato un maestro per lei? «Non solo un maestro. Mi donò la sua amicizia e ne ho goduto per più di vent’anni. Fu lui a farmi entrare all’agenzia Magnum». Un luogo ancora oggi considerato leggendario. «Come tutte le leggende molte luci abbaglianti e qualche ombra obliqua». Traduca. «Mi piaceva il rigore; la severità con cui ammettevano i membri. Si riconobbe per parecchio tempo nell’utopia comunista ed ebraica. Un po’ kolchoz e un po’ kibbutz. Ricordo che una delle frasi ricorrenti di Cartier-Bresson era: alla Magnum ho avuto molti compagni e pochi amici». Cosa voleva dire seconde lei? «Che non c’erano veri affetti. C’erano i migliori fotografi del mondo, questo sì. Ma senza un pathos. Il solo con cui aveva stretto un rapporto intimo era Josef Koudelka. Capitava che la domenica mattina si vedessero a Parigi per una passeggiata. Entrambi marciatori infaticabili. Venivo chiamato per aggregarmi al loro piccolo rituale. Lungo la Senna ma spesso fuori città. Koudelka era — come posso dire? — teatrale nella conversazione. È stato il più grande fotografo della sua generazione». Perché? «Ha saputo dare alla cronaca la nobiltà e la potenza del gesto artistico. A me impressionava non solo il suo grande reportage sui fatti di Ungheria, ma il lavoro straordinario che seppe fare sugli zingari, sui gitani. Roba da restare senza fiato». «Lo so. Anzi lo avverto. A volte si traduce in una presenza minacciosa. Quando sono di fronte alla perfezione, o a qualcosa che la richiama, ho l’impressione di restarne schiacciato. Umiliato. Saprò mai raggiungere quella vetta? Capisco benissimo l’ossessione di certi alpinisti. Affrontare l’inaffrontabile. Raggiungere l’irraggiungibile ». E questa condizione le genera più frustrazione o più desiderio? «È nella natura umana avere entrambe le cose: paura di non farcela ed esaltazione quando tocchi un traguardo. Fu così anche con la Magnum. Mi piaceva sentirmi uno di loro. Fare parte del club esclusivo. Ma alla fine era davvero quello che volevo? D’altronde, da Parigi dove ormai ero da più di dieci anni sentivo il bisogno di tornare in Italia, a Milano». So che in quel ritorno c’entrava la moda. «Fu la casualità a farmi entrare in quel mondo che non amavo particolarmente. Dolce e Gabbana, allora giovani e sconosciuti, era il 1987, mi proposero un catalogo di vestiti che volevano realizzare con un fotografo non di moda. E facendolo mi sono molto divertito. Superai i pregiudizi che avevo. Sentii un senso di colpa verso Cartier-Bresson. Ma si può essere felici senza colpa? Per sette anni sono stato felice di dedicarmi alla moda. Ma le cose finiscono. A un certo punto non ne potevo più di mettere il mondo in posa. Ero soffocato da quel successo». E cosa fece? «Tornai ai miei vecchi amori. A quel po’ di antropologia e di religione che avevo appreso dalla mia terra. Feci un’inchiesta su Lourdes. Non ero credente. Non cercavo il miracolo. Volevo capire come certi corpi reagiscono alla suggestione». C’è riuscito? «Non mi interessavano né i lamenti né la speranza. Ma la fredda presenza delle ombre. Sì, credo di esserci riuscito». A che prezzo? «Cosa intende?». Ogni grande fotografo ruba qualcosa di profondo e di insostituibile. «Forse è così. Forse siamo ladri di realtà. A volte mi siedo in silenzio in un punto indefinito del mondo. Non l’ho scelto io quel punto. Attendo che qualcosa accada. È così che funziona il mio viaggio. Sono stato nei posti più incredibili della terra. Ci sono andato con la forza di volontà, con il desiderio di impadronirmi di qualcosa. Di un segreto. Ma dopo aver consumato scarpe, preso freddo, o caldo, sofferto, faticato, c’è un momento in cui l’io si dissolve. È quello il punto indefinito». Fotografa quasi esclusivamente in bianco e nero. Perché? «Trovo il colore molto più arbitrario del bianco e nero. E poi sono per la difesa di una certa idea di tradizione. Anche di un certo modo di utilizzare la luce». È così importante, intendo la luce? «Non è solo un dato atmosferico. La luce è figlia della tua formazione sentimentale, del cielo dove sei nato. Cartier-Bresson proveniva dalla Normandia e quella luce se l’è portata dietro sempre. Io sono nato in Sicilia e per me la luce è sempre stata un’esperienza abbagliante, violenta. Per reazione ho fatto in modo che le mie immagini si compongano partendo dall’ombra». La Sicilia è ancora nel suo immaginario? «Non potrei prescinderne. Anche se volessi. Ero e sono rimasto un baarioto. Bagheria per me era il centro del mondo. Come il bar Aurora, fin quando fu in vita, fu il punto in cui ogni profumo, ogni delicatezza, ogni esperienza mondana, vi convergeva. Lì andava Guttuso, quando faceva ritorno in Sicilia. E lì lo attendevano i camerieri. Ansiosi. Pronti a servirlo, aspettando un suo cenno per fornirlo di carta e matita». Che mondo era? «Di balconi gonfi, di persiane abbassate, di sussurri e colpi di gomito. Di doppi sensi, di strafottenza e di passione. Le ridondanze di una vita immobile. Da cui ero suggestionato ma dalla quale era giusto fuggire. All’università di Palermo seguii il corso di Cesare Brandi. Le sue lezioni su Masaccio e la cappella Brancacci mi rivelarono un modo diverso di raccontare la storia dell’arte. Se mi sono dedicato alle immagini lo debbo anche a questo signore elegante, nervoso, insofferente. Quando gli dissi che avrei voluto fare seriamente il fotografo, si arrabbiò. Non voleva credere che scendessi a un livello così basso». Per uno che aveva dedicato la vita ai dipinti era comprensibile. «Non mi stupisce, certo. Del resto già Baudelaire aveva condannato la fotografia. Però non credo che, diversamente dalla pittura, la fotografia cerchi la bellezza. Preferisco parlare di stile. Erano e restano due linguaggi diversi. Con questa precisazione: la foto rispetto a un dipinto contiene la traccia insopprimibile di qualcosa che un tempo fu davanti all’obiettivo. È inoppugnabile. Se sei Cezanne puoi dipingere le mele anche se non ci sono. Il fotografo non può prescinderne. Anche se, devo ammettere, il digitale oggi ha cancellato il prestigio dell’oggetto, della realtà». Resta un rapporto tra la fotografia e la memoria. «Mi pare fondamentale, in tutti i sensi. Ho ancora viva l’immagine ovale del bisnonno Giacinto: grandi baffi a manubrio, la fronte calva, le gote pronunciate e lo sguardo. Lo sguardo fisso, assente, di una durezza indefinita. Non so se gliela fecero da morto. A Bagheria usava. Lo chiamavano “il Coglitore” il ritrattista estremo che “immortalava” il volto del defunto. Mio padre lo ricordava così. Quei vecchi ricomposti al di là della vita. In quel cerimoniale luttuoso, in quella figura intransigente del bisnonno, si celava tutto l’immemorabile futuro ».