Eugenio Scalfari, la Repubblica 11/1/2015, 11 gennaio 2015
NAZIONALE - 11
gennaio 2015
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I TERRORISTI CONFISCANO IL LORO DIO PER AMMAZZARE LA GENTE
EUGENIO SCALFARI
IL NUOVO direttore di Charlie Hebdo , interrogato da un giornalista sulla linea che il suo settimanale satirico prenderà dopo la strage subita dai due “jihadisti” mercoledì scorso, ha detto che l’impostazione del giornale non cambierà: «Noi siamo dei laici mentre i terroristi sono integralisti. Non religiosi ma integralisti. Gridano “Allah akbar” dopo ogni delitto che compiono, ma di Allah non gliene importa assolutamente niente. E dunque: laici contro integralisti. Dio, qualunque Dio, non c’entra. Lo scontro è soltanto politico, la nostra è una satira politica e il terrorismo è politico».
Ho ascoltato con molto interesse quell’intervista e pur essendo anch’io laico ed anche non credente, non sono del tutto d’accordo sulla tesi che lo scontro è solo politico. Fu così quando quaranta anni fa il terrorismo insanguinò l’Europa e in particolare l’Italia e la Germania.
Fu combattuto con argomenti politici, la sinistra comunista tagliò tutti i ponti con la sinistra terrorista e questa fu l’arma con la quale le Brigate Rosse furono scompaginate e poi, a breve distanza di tempo dall’uccisione di Aldo Moro, definitivamente sconfitte. Ma la situazione oggi non è simile a quella di allora.
Oggi il terrorismo nasce e si alimenta su radici non soltanto politiche ma anche religiose. Il capo dei talebani in Afghanistan era il mullah Omar, Bin Laden organizzava attentati in tutto l’Occidente ma al tempo stesso pregava. Il Califfato è un fenomeno politico ma religioso insieme; Al Qaeda alimenta la fede in Allah con le armi in pugno. Lo scontro tra Israele e i palestinesi è anch’esso politico e al tempo stesso religioso.
TANT’È che il governo di Netanyahu vuole ribattezzare Israele come Stato ebraico ancorché una parte dei cittadini siano arabi e musulmani ed altri di etnia ebraica ma non credenti.
Del resto Maometto, quando lanciò gli arabi che seguivano le massime del Corano e le disposizioni del Profeta, li esortò a non uccidere i bambini, i vecchi e le donne, ma di combattere nel nome di Allah loro Dio. Cristo era, secondo Maometto, un profeta ma la religione costruita non da lui ma dai suoi seguaci è nemica di Allah.
La letteratura e la poesia raccolsero e amplificarono lo scontro religioso e le guerre che ne sono derivate, a cominciare dalla battaglia di Roncisvalle, dai califfati di Cordova e dell’Andalusia, sgominati dopo qualche secolo dalla “reconquista” di Ferdinando e di Isabella.
I cattolici non furono da meno, le Crociate per la conquista della Terra Santa erano bandite dal Papa, i re cristiani fornivano le truppe e le flotte ma era il Papa di Roma a dare l’“imprimatur”. Quando la Chiesa, dopo i primi tre secoli, scoprì il potere temporale, fu quello il suo centro e su di esso fondò la sua esistenza. Non a caso il re di Spagna era definito cattolico e quello di Francia cristianissimo. L’Inquisizione fu per secoli il cuore della Chiesa avendo di mira i miscredenti, gli ebrei, i catari, i valdesi. Fede contro fede: per un millennio fu quella l’essenza della Chiesa di Roma.
Papa Francesco è stato il primo a denunciare il temporalismo, a ricordare che c’è un unico Dio, che non è cattolico ma ecumenico. Chi venera il Dio Padre o quello di Mosè o Allah, venera lo stesso Dio e il delitto maggiore è quello di distinguerli e inalberarne i simboli l’uno contro l’altro. Non a caso Bergoglio è stata la voce più alta contro i terroristi che uccidono nel nome di Allah: «Oltre ad affidare a Dio le vittime di questa crudeltà — ha detto celebrando la messa a Santa Marta giovedì scorso — invito tutti di tutte le religioni ad intercedere anche per i crudeli affinché il Signore cambi il loro cuore».
Accanto al Papa c’erano i quattro imam francesi che hanno diffuso con lui una dichiarazione comune che sottolinea la necessità di promuovere con ogni mezzo una cultura di pace e di speranza capace di vincere la paura e di costruire ponti tra gli uomini. Infine hanno ribadito che «il dialogo interreligioso è la sola via da percorrere insieme. Il bene fondamentale è la convivenza pacifica tra le persone e i popoli superando le differenze di civiltà, di cultura e di religione ».
Questa è la via. Per i laici questa via si identifica con la democrazia, per le religioni con il Dio unico che nessuno può ipotizzare come proprio: due parallele che convergono verso lo stesso obiettivo.
La guerra al terrorismo, insieme ai lutti, alle tensioni, alle paure, ha però un aspetto positivo che non va sottovalutato: fa emergere anche a chi finora era indifferente o addirittura ostile, la necessità di costruire l’Europa unita da raggiungere in parte con specifici accordi su temi di sicurezza e di investigazione e in parte con deliberazioni dei 28 Paesi dell’Unione che equivalgono a vere e proprie cessioni di sovranità.
Il terrorismo sembra avere scelto l’Europa come terreno di scontro; l’Europa non può che rispondere muovendo un passo verso l’unità non più soltanto economica ma politica e non soltanto per i diciannove Paesi dell’eurozona ma per l’Unione intera perché l’immigrazione e la presenza di sempre più numerose minoranze stanziate in molti Paesi del nostro continente già da due o tre generazioni rendono indispensabile tener conto delle loro diversità nel quadro d’uno spazio comune dove tutti debbono convivere.
Queste minoranze rischiano di diventare terreno di proselitismo per i terroristi ma possono essere anche educate alla democrazia, al lavoro, ai diritti e ai doveri che una civile convivenza comporta. Cittadini europei molto più che cittadini delle singole nazionalità.
Quest’obiettivo sta diventando fondamentale man mano che il fenomeno migratorio si infittisce soprattutto tra le due sponde del Mediterraneo, ma per dare un esito positivo esso richiede maggiore occupazione, maggiore equità sociale, più investimenti, più consumi, più commercio intraeuropeo e internazionale.
Le ricadute economiche e sociali necessarie per realizzare questi obiettivi sono evidenti: bisogna combattere la deflazione, bisogna migliorare i tassi d’interesse spingendo quelli ancora troppo elevati verso un sostanziale equilibrio e bisogna recuperare con le parti sociali e in particolare con quelle che rappresentano i lavoratori una concertazione che produsse negli anni Novanta risultati eccellenti e può produrne di nuovo in una fase in cui i contrasti aziendali e locali fanno premio su quelli nazionali e richiedono la presenza costante dei sindacati d’azienda. Non si tratta, come troppo spesso si dice, di ascoltare tutti e decidere da soli. Al contrario: facendo prevalere con l’intervento politico, il contrasto aziendale o locale. La concertazione avviene a quel punto, dove le parti sono oggettivamente più orientate all’interesse comune.
Può sembrare strano e teorico questo rilancio dell’Europa politica che comporta un rilancio analogo dell’Europa economica e d’un decentramento partecipato verso la microeconomia e la microsocialità ed invece è una dinamica assolutamente logica che consente di attribuire a Mario Draghi il merito d’esser stato tra i primi ad indicarla e, per quanto riguarda le sue competenze, ad attuarla utilizzando lo strumento monetario.
Il prossimo 22 gennaio la Bce deciderà l’attuazione del “quantitative easing”, cioè l’acquisto di titoli del debito pubblico nei Paesi con maggiore necessità ma anche in quelli più solidi e quindi chiamati a contribuire alla crescita generale.
Draghi affiderà alle Banche centrali nazionali alcune mansioni importanti ma il timone non può che restare nelle mani del direttorio della Bce al quale partecipano a turno le Banche naziona- li. Si parla di un “qe” di 500 miliardi. Credo che la cifra sarà maggiore, probabilmente il doppio, anche se distribuita in uno o due anni. Saranno comunque acquisti di titoli destinati a restare a lungo nelle casse della Bce la quale nel frattempo effettuerà anche operazioni consuete di prestiti lunghi alle banche ordinarie e di interventi sul mercato interbancario a bassissimi tassi d’interesse.
Draghi, oltre allo strumento monetario, ha in mente un’Europa politicamente federata. Anche qui si tratta di parallele convergenti che alimentano speranze d’un futuro migliore.
* * * Due parole sulla politica italiana che si avvia verso un decisivo appuntamento: le dimissioni di Giorgio Napolitano che avverranno — come ormai è di fatto stabilito — il 14 gennaio.
È inutile ripetere che la sua sostituzione non sarà affatto facile e non tanto perché manchino candidati più che accettabili quanto perché l’uscita di Napolitano dal Quirinale lascia un vuoto assai difficile da colmare dopo oltre 15 anni che hanno visto due personalità di eccezione come Ciampi e il Presidente che sta esercitando il suo mandato ancora per pochissimi giorni.
Interrogato venerdì scorso nella trasmissione televisiva della Gruber sul successore di Napolitano, Matteo Renzi ha risposto che non dirà nulla e si vieta perfino di pensarci fino a quando le dimissioni di Napolitano non saranno state effettuate. Ha perfettamente ragione, non spetta al presidente del Consiglio immaginare candidature fin quando quella carica è ancora ricoperta. Lo farà a partire dal 15. Ed ha aggiunto che il candidato non sarà né eletto e neppure indicato esplicitamente fino alla quarta votazione del “plenum” parlamentare, quando cioè termina la maggioranza qualificata e comincia quella del 50,1 per cento degli aventi diritto. Tutto giusto e avveduto.
Renzi ha anche parlato in termini a mio avviso ben pensati della tensione vissuta in questi giorni in Europa, della necessità di unire di più il nostro continente, dell’importanza dell’Egitto per sconfiggere il Califfato e Al Qaeda e infine dell’importanza che per noi italiani ha la crisi libica, dove l’Italia dovrà intervenire al più presto diplomaticamente e se necessario e con l’appoggio dell’Onu anche militarmente. Tutto giusto e avveduto anche su questi argomenti.
Dove non è stato e non è né giusto né avveduto riguarda il “salva Berlusconi” e la politica economica e di riforme costituzionali. Di questi argomenti ho scritto ripetutamente e quindi non mi ripeterò se non per rilevare che aver posticipato la decisione sul “salva Berlusconi” al 20 febbraio è un segnale inaccettabile. Il salva Berlusconi sarà riconfermato sempre che lui e il suo partito accettino per il Quirinale la persona indicata da Renzi. Inutile dire che questo è un marchingegno di cattiva qualità. Per quanto riguarda la riforma fiscale essa fu preparata da Monti, ricevuta in eredità da Letta e infine da Renzi. Una legge delega che non è mai stata discussa in Parlamento e che Renzi fece approvare quando il suo governo era stato appena nominato e insediato da Napolitano.
Quanto alla politica economica il governo continua ad immaginare non so bene che cosa ma nel frattempo si registra un deficit nei primi nove mesi dell’anno che ha sfondato il 3 per cento e si colloca ora al 3,7. Non è affatto un bel vedere, con una disoccupazione in aumento a cifre record. Sulla riforma del Senato non ho nulla da aggiungere e ne ho parlato già molte volte: così come concepita la reputo pessima.
Concludo ricordando che domenica scorsa indicai come eventuali candidati accettabili per il Quirinale alcune personalità che rappresentano ciascuna a suo modo un alto livello di qualità. M’accorsi il giorno dopo che ne avevo dimenticato una: quella di Giuliano Amato. Lo faccio ora anche perché non ho avuto da lui alcuna rimostranza. Vorrei aggiungere a quella breve lista anche il nome di Roberto Benigni che non è affatto un comico come molti credono, ma un grande e coltissimo attore che rappresenta molto bene i pregi e denuncia altrettanto bene i difetti del nostro Paese. Ma non lo faccio perché si arrabbierebbe moltissimo.
P. S. È morto ieri Franco Rosi. Un grande uomo di cinema ed anche di impegno civile, sociale, politico. Per me è un grande dolore. Lo porterò nella mia memoria finché vivrò.
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I jihadisti sembrano aver scelto l’Europa come terreno di scontro Quest’ultima non può che rispondere muovendo un passo verso l’unità politica
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La presenza di sempre più numerose minoranze nel nostro continente rende indispensabile tener conto delle loro diversità