VARIE 11/1/2015, 11 gennaio 2015
PEZZI SULLA MORTE DI ROSI
CORRIERE DELLA SERA
PAOLO MEREGHETTI
I film? «Mi piace vederli al cinema, in una sala di proiezione col pubblico. Voglio sentire la reazione della gente, capire se è diversa dalla mia. Il cinematografo è un miracolo, un grande sostegno per l’affermazione della democrazia. […] Perché il cinematografo sa sempre mostrarti la verità dei comportamenti».
Sono risposte di Francesco Rosi a Giuseppe Tornatore per quello straordinario libro-conversazione che è Io lo chiamo cinematografo (Mondadori) e vi si può leggere l’amore e l’entusiasmo che non ha mai abbandonato il regista, morto ieri a Roma a 92 anni (era nato a Napoli il 15 novembre 1922).
In quelle affermazioni c’è la passione civile che ha fatto di Rosi il più importante (e il più bravo) dei registi «politici» italiani, ma c’è anche la passione cinefila che l’aveva spinto, poco tempo fa, a dare il proprio sostegno ai ragazzi che lottavano per tener aperto il cinema America. «Puoi usare il cinema come vuoi — diceva ancora a Tornatore — ma è difficile che il cinema tradisca la realtà». Ed è proprio nel rispetto di quella «realtà» che è nato e cresciuto il suo cinema e che Rosi ha firmato i suoi capolavori.
Avvocato mancato, anonima comparsa per il cinema e per la rivista, disegnatore senza lavoro, trovò la sua strada grazie a Visconti che lo chiamò sul set di La terra trema e poi per collaborare alla sceneggiatura di Bellissima . Assistente di Emmer, Matarazzo, Giannini, Antonioni e Monicelli, esordì nella regia nel 1958 con La sfida , rielaborazione di un fatto di cronaca (l’ascesa e la caduta di un trafficante di sigarette nei mercati generali di Napoli) dove la lezione neorealistica si intreccia a quella del cinema americano. Anche in I magliari (1959) ritroviamo la lotta tra il vecchio boss e il nuovo arrivato in una Germania di piccoli e grandi truffatori, ma è con i due film successivi che Rosi modificherà radicalmente il modo di fare cinema politico in Italia. E non solo. Il primo è Salvatore Giuliano (1961, Orso d’argento a Berlino): le gesta del bandito e la sua misteriosa uccisione sono scomposti e ricostruiti attraverso una lunga serie di flashback dove finzione e documentario si fondono magistralmente. Il nodo economico-politico che ha portato all’affermazione della mafia viene presentato con grande chiarezza e in modo cinematograficamente esemplare. La stessa esemplarità all’origine di Le mani sulla città (1963, Leone d’oro a Venezia), dove un caso inventato di speculazione edilizia a Napoli gli serve per mostrare i compromessi del potere economico e politico (ancora una volta) e come si adatti ai cambiamenti della città. Scavare nel reale — della Storia, della Cronaca, della Politica — sarà sempre il faro che illuminerà il suo cammino di regista, sia nei film più liberi e fantasiosi, come Il momento della verità (1965, un povero andaluso cerca il riscatto nella tauromachia), C’era una volta… (1967, una favola ispirata a Basile, sulla furbizia popolaresca) o Carmen (1984, dove l’opera di Bizet è riletta in un rigoroso verismo), sia in quelli più impegnati e «militanti», come Uomini contro (1970, da Lussu, sulla prima guerra mondiale), Il caso Mattei (1972, sulla morte del padre dell’Eni), Lucky Luciano (1973, sulla carriera del boss mafioso), C adaveri eccellenti (1976, sulle trame degli anni di piombo), Cristo si è fermato a Eboli (1979, dal romanzo di Carlo Levi) o Tre fratelli (1981, sui destini di tre italiani variamente «impegnati». Per me il suo vero, struggente canto del cigno).
Tutte opere, per usare le parole di un grande esegeta di Rosi, il francese Michel Ciment, dove le «risposte contengono ulteriori domande, in una spirale infinita che viene svelata da film taglienti come una lama d’acciaio, duri e nello stesso tempo brillanti». Gli ultimi film — Cronaca di una morte annunciata , 1987; Dimenticare Palermo , 1990 e La tregua , 1997 — non ritrovano la forza delle opere precedenti ma non inficiano minimamente un’opera di grandissimo livello, capace di «rappresentare la vita e i personaggi in un contesto sociale e politico», come disse lo stesso Rosi, «sperando così di aiutare il pubblico a conoscere la realtà del nostro Paese». Beh, possiamo proprio dire che l’ha fatto, e di questo gliene saremo sempre grati.
RAFFAELE LA CAPRIA
Ultimamente Franco Rosi ed io ci telefonavamo tutti i giorni, lui stava male e il suo male era uno di quelli tenaci, che non perdonano. Non so quanto ne fosse consapevole, ma mi diceva sempre, con una specie di distaccata rassegnazione: è duro da sopportare, ci vuole pazienza, molta pazienza. Ha pazientato, poi ha mollato. Quando andavo a trovarlo, per distrarlo gli parlavo sempre dei suoi film che erano la sua vita, anzi erano quelli cui aveva affidato la sua sopravvivenza, perché sapeva di aver fatto dei film che avevano un posto importante nella storia del cinema. Avevamo lavorato insieme in molti film lui ed io, avevo partecipato alla sceneggiatura di Le mani sulla città , di Cristo si è fermato a Eboli , di Uomini contro , di C’era una volta , la nostra è stata non solo un’amicizia di sentimenti ma anche di lavoro, durata circa ottant’anni, da quando ragazzini ci tuffavamo nelle acque di Posillipo, poi a scuola nello stesso liceo dove studiavano Chinchino Compagna, Peppino Patroni Griffi, Giorgio Napolitano, Antonio Ghirelli, e a Roma dove arrivammo coi nostri sogni e le nostre ambizioni, e col tempo avemmo anche molte soddisfazioni. Franco riuscì a fare i suoi bellissimi film, Peppino diventò un commediografo di successo, Antonio Ghirelli si affermò come storico e grande giornalista sportivo, e Giorgio Napolitano diventò addirittura presidente della Repubblica. Non ci possiamo lamentare se si pensa a come eravamo partiti da Napoli, con pochi soldi e senza nessuna protezione.
Ma tra gli amici quello cui sono stato più vicino, anche per temperamento, è stato Franco, e oggi che non c’è più mi sembra che se ne sia andata anche una parte di me. Quante cose abbiamo fatto insieme! Non solo i film, ma anche i viaggi per i sopralluoghi. E come fu bella la sera in cui a Venezia andammo a ritirare il Leone d’oro per il film Le mani sulla città ! Franco ed io apparimmo sui giornali sotto il titolo: I leoni di Napoli. Chi lo avrebbe immaginato. Ma non solo vivemmo insieme i momenti belli della vita, anche quelli tragici, terribili, ci videro vicini. Quando morì la figlioletta di Franco in un incidente d’auto. O quando l’amata moglie Giancarla finì con la vestaglia in fiamme nella sua stanza. Molto dolore ha invaso la vita di Franco, la sua grande consolazione è stata la figlia Carolina, lei è stata il suo sostegno. Ma ora vorrei dire due parole sui film di Franco. Sono film che dopo il neorealismo introducono una nuova forma di realismo più critico e meno sentimentale, fatto di passione civile e analisi sociale, e con una struttura narrativa più complessa. Col tempo mi sono accorto che quasi tutti i suoi film presentano una storia puntualmente documentata ( Salvatore Giuliano , Il caso Mattei , Lucky Luciano ) piena di intrecci e connessioni di cui non si viene a capo. Sono tutti casi accaduti sotto gli occhi di tutti e non risolti. Tutti casi in cui sembra di intravvedere la verità o il colpevole, li si sfiora, senza mai poterli veramente incastrare. Cosa c’è di più italiano di questa situazione.
Più che un cinema politico, quello di Rosi è il cinema della democrazia ammalata che non è riuscita mai a scoprire gli autori delle stragi e dei delitti, né a chiarirne le motivazioni o le cause. Questa particolarità dei filmi di Rosi fa sì che la loro forma espressiva e la costruzione siano anch’essi in funzione di questa impossibilità di venire a capo dei fatti; la loro struttura rassomiglia a un mosaico in cui le tessere scomposte lasciano soltanto intravedere la figura nascosta e dove l’apparente disordine però produce nello spettatore il tentativo di ricomporlo, di legare i fatti, il desiderio di afferrare quella verità che il film mette sotto gli occhi e che riproduce fedelmente la realtà di questi anni. Così i film di Rosi ci trasmettono lo smarrimento tragico che attanaglia la coscienza civile di tanti italiani, ma anche la volontà, la lucida determinazione di vigilare per superarlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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MAURIZIO PORRO INTERVISTA MARCO TULLIO GIORDANA
Erano tutti suoi figli: i registi italiani sono debitori a Rosi che col suo modo di far cinema ha dato esempi in tutto il mondo. Ieri nella casa del regista c’erano i colleghi «giovani» che in questi mesi non l’hanno mai lasciato solo, da Marco Tullio Giordana a Roberto Andò, da Mario Martone a Paolo Sorrentino a Giuseppe Tornatore, che con Rosi ha scritto un libro intervista.
Lui, dicono, fino alla fine è rimasto spiritoso e brillante. «Eppure — dice Giordana — era così rispettoso della libertà individuale e culturale da rifiutare di influire su qualcuno. Dava solo il suo esempio: ha fecondato il cinema stesso, ma non avrebbe mai aperto una scuola». Al milanese Marco Tullio, trasferito a Roma negli anni 70, Rosi ha dato subito il calore di un rapporto emozionale: «Non sempre i grandi artisti sono anche grandi persone: lui sì. Era famoso, io non ero nessuno, ma ricordo il suo tratto affettuoso. Quando ha incominciato a vedere i miei film, come quelli degli altri, non mancava mai di darci i suoi pareri, anche critici».
Per La meglio gioventù , che fu tra i primi a vedere, disse che mancava qualche didascalia, per capire meglio le cose: «Aveva il terrore che l’autore volasse più alto della testa degli spettatori, si preoccupava molto della leggibilità delle opere, il rispetto del pubblico veniva prima della stessa ispirazione. Quando gli raccontai 100 passi lui, che aveva alle spalle l’esperienza di Salvatore Giuliano , mi consigliò di trasferirmi con grande anticipo in Sicilia e di mostrarmi senza paura, né timidezze. E così feci». I suoi film sono stati il suo impegno civile, inascoltata Cassandra sui mali congeniti italiani: «Ma non si dava per vinto. Fino alla fine ha lottato contro l’ombra delle mani sulle città, la delusione non ha prevalso sulla speranza di cambiare le cose, non si sentiva sopraffatto, c’era sempre qualcos’altro da fare».
E pure in questi giorni Rosi parlava con i suoi «angeli custodi» delle cose della vita politica qui e altrove: «Aveva molta rabbia in corpo perché tante persone non gli piacevano, era preoccupato: fortuna negli ultimi tre giorni non è stato in grado di vedere gli orrori di Parigi». Rosi ha voluto dire un modo di essere cineasti credenti nella morale: «Non so se fosse consapevole dell’influenza che i suoi film avevano avuto su di noi e sul pubblico nel mondo. Si lamentava spesso che il cinema non fosse presente nelle scuole: lui è stato un supplente formidabile con le sue opere, meglio del professore che sostituiva perché ai suoi titoli s’aderiva per sempre, era la potenza del suo cinema». Indimenticabili quei giorni, quei volti e in quegli anni 60: «Pensa ai grandi ritratti di Volontè nei film su Mattei e Luciano, fino a Uomini contro , grandi lezioni di storia e di civiltà, certo, ma aveva anche una vena favolistica seduttiva come in C’era una volta e poi la Carmen che modificò il modo di tradurre l’opera nei film».
Dopo La tregua non aveva più lavorato. «Ma continuava a progettare, magari non film: aveva ripreso in mano forse per un libro un suo vecchio progetto sui diari del Che. Continuava a essere presente, si era mobilitato per salvare un vecchio cinema di Trastevere, fino all’ultimo ha continuato a dare al mondo il suo punto di vista. Andava al cinema e poi telefonava ai registi come se fosse una grande famiglia: aveva passione e curiosità per il lavoro anche degli altri, un carattere generoso che non si è mai chiuso nella torre d’avorio. Ed è morto in casa circondato dalle persone che gli volevano bene davvero, come quel quadro sulla Morte del Giusto che il Gattopardo vede come presagio alla fine del gran ballo».
STEFANIA ULIVI INTERVISTA LA FIGLIA CAROLINA ROSI
ROMA «Gli rimproveravo di amarmi troppo, è vero, gli dicevo che era un innamorato possessivo. Adesso non potrò più farlo...». Non ci si prepara mai alla perdita di un padre. Carolina Rosi, figlia unica e amatissima, gli è stata accanto fino agli ultimi minuti, nella casa a un passo da piazza di Spagna animata per decenni dalla figura straordinaria della madre, Giancarla Mandelli (sorella della stilista Krizia), scomparsa per un incendio provocato da una sigaretta. «Il nostro era un legame profondo, ora provo una disperazione infinita. Con Franco, lo chiamavo così, ci stavo bene, mi capitava di avere più voglia di fare cose con lui che con i miei amici».
In quella casa è passato un mondo, da Moravia a Scorsese .
«Una fortuna pazzesca per me. Personaggi di grande qualità umana e apertura mentale. Amici veri. Aveva frequentazioni assidue con artisti, letterati, registi, persone legate alla politica».
Amici come Giorgio Napolitano.
«Ho tra le mani il suo telegramma. Certo che quel liceo Umberto I è stato una vera fucina. Gli dicevo che gli invidiavo di aver vissuto in un’epoca straordinaria, non paragonabile al presente».
Quale era la qualità che amava di più in lui?
«L’onestà inattaccabile. Fino all’ultimo, una coerenza e un rigore assoluti, un’indignazione bella che non portava rabbia ma volontà di esprimersi nel modo più giusto. Attraverso i suoi film ha raccontato tutto di sé, senza ambiguità».
Però negli anni aveva rallentato .
«Ogni opera era frutto di una lunga gestazione, non solo dell’urgenza documentaristica. Un metodo sempre più difficile da applicare».
L’ultima uscita è stata su invito dei ragazzi del Piccolo Cinema America per la presentazione di «Uomini contro».
«Bellissima esperienza. Non si è mai tirato indietro, sentiva come dovere morale esserci, spinto anche dal senso di generosità, dalla forza di volontà di non cedere alla vecchiaia»
Il film più amato?
«Tutti. Ma per motivi diversi, Il caso Mattei , praticamente scomparso per vent’anni. E Carmen a cui anche lui era molto legato».
Stefania Ulivi
REPUBBLICA PAOLO D’AGOSTINI
OLO D’AGOSTINI
ROMA .
Si è spento serenamente, ieri mattina nella sua casa di via Gregoriana a Roma, a due passi da Trinità dei Monti, con la figlia, l’attrice Carolina, accanto a lui, insieme ai più giovani colleghi e discepoli, Marco Pontecorvo, figlio di Gillo, Marco Tullio Giordana, Roberto Andò, Giuseppe Tornatore, subito accorsi. Francesco Rosi, nato a Napoli il 15 novembre del 1922, da qualche tempo non stava bene, una bronchite lo aveva tenuto a lungo a letto. Ieri è morto a 92 anni. La camera ardente si aprirà domani dalle 9 alla Casa del cinema di Roma dove dalle 12 si terrà una cerimonia civile per l’ultimo saluto, dove, fa sapere la famiglia, sono graditi “non fiori ma solidarietà per gli immigrati” Non ha mai cessato Francesco Rosi (per gli amici Franco) di partecipare e intervenire. Instancabile, animato da inesauribile fiducia nella parola, nello scambio, nel dialogo, in privato e in pubblico. E sempre impeccabile, anche un po’ vanitoso. È un tratto distintivo della sua personalità. Nella primavera 2010 non si era sottratto al festeggiamento del David di Donatello per Tonino Guerra – poeta sceneggiatore tra i più immaginifici che, misteriosi assortimenti del cinema, ha più volte collaborato con il più scientifico dei nostri cineasti – malgrado i pochi giorni trascorsi dalla perdita in tragiche circostanze, un incendio in casa, dell’amata moglie Giancarla Mandelli. La gioventù borghese napoletana alla quale è appartenuto Rosi (stessa “classe” di Lizzani e Pasolini, e di Berle linguer) richiama uno di quei gruppi generazionali che hanno fatto la storia politico- culturale dell’Italia postbellica. Accanto ai nomi di Giorgio Napolitano, Peppino Patroni Griffi, Aldo Giuffré, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Domenico Rea — futuri protagonisti in una grande varietà di ambiti — spicca anche quello di Rosi. Punto di incontro e debutto per questa giovanissima intellettualità è la stazione di Radio Napoli dopo la liberazione della città e sotto la giurisdizione militare alleata. La molteplicità di esperienze e interessi, compresi gli studi di giurisprudenza, segneranno il cinema che Rosi inizierà a realizzare “in proprio” soltanto sul finale del decennio Cinquanta.
Dopo apprendistati eclettici che vanno dalla collaborazione con il commediografo Ettore Giannini alle incursioni anche attoriali nel teatro musicale, ecco l’occasione di affiancare — destino condiviso con un coetaneo fiorentino, Franco Zeffirelli — l’astro di Luchino Visconti su set capitali: La terra trema, Bellissima, Senso.
La scuola è dura (confessa di aver pianto per i mortificanti trattamenti inflitti dal Conte Rosso) ma ne vale la pena. Stargli accanto in quelle stagioni innovatrici su tutti i fronti, cinema e teatro, equivale a una laurea.
Nel 1958 può firmare con La sfida la prima eloquente prova della sua poetica. È un’inchiesta — in sintonia con l’energico mix tra spettacolo e sensibilità sociale che sostiene la scuola americana del dopoguerra e i film di Elia Kazan — sul mercato ortofrutticolo napoletano dominato dalla camorra. “Inchiesta” sarà la parola chiave del cinema di Rosi. Il quale ha tuttavia sempre tenuto a rivendicare il carattere di interpretazione e di trasfigurazione artistica, sia pur puntigliosamente documentati, dei suoi ritratti sociali e storici.
Dopo un capitolo anomalo come I magliari ( la presenza di Sordi porta il film un po’ fuori centro), irrompono sulla fertile scena dei primi Sessanta i due capolavori. Salvatore Giuliano nel ‘62 e Le mani sulla città l’anno dopo premiato con il Leone d’oro di Venezia. Effettivamente le due così incisive analisi dei mali italiani contemporanei — il malaffare intrecciato alla corruzione politica e agli interessi oscuri di apparati statali o di gruppi di pressione economici o di strategie segrete internazionali, nella Sicilia del dopoguerra e nella Napoli della speculazione edilizia — risultano tanto potenti in primo luogo grazie alla scelte di stile e di sguardo. Clamorosa prova: nella memoria visiva comune immagini del film sul bandito di Montelepre si sostituiscono a quelle della cronaca.
Inizia dunque la serie di incontri con l’interprete per eccellenza del suo cinema, Gian Maria Volonté. Sarà il personaggio alter ego di Emilio Lussu, autore di Un anno sull’Altopiano cui si ispira il film Uomi ni contro destinato a entrare nella galleria del grande cinema antimilitarista sulla Grande Guerra. E poi Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli . Per chiudere con il Cristo Bedoya di Cronaca di una morte annunciata da Gabriel Garcia Marquez.
Intanto il regista sigla anche Cadaveri eccellenti ( da Il contesto di Sciascia) e Tre fratelli dove all’alba degli anni 80 si disegna il malessere che percorre l’Italia di quella stagione. Chiude il suo contributo alla storia del nostro cinema nel ‘97 con un imponente adattamento de La tregua di Primo Levi, il romanzo del ritorno da Auschwitz.
La dolorosa mancanza di attività cinematografica che ha accomunato gli ultimi anni di Rosi a quelli di Fellini, è stata parzialmente sostituita con l’attivismo teatrale che dopo il Duemila lo ha visto portare in scena Eduardo: Napoli milionaria, Le voci di dentro, Filumena Marturano . Tra i numerosi progetti non realizzati un film sulla figura di Ernesto Guevara, andato a monte per il fermo rifiuto di soddisfare le pretese di controllo da parte dell’establishment cubano.
Profilo singolare nel panorama di un’attività sempre assediata dalla cialtroneria e contaminata da esigenze extrartistiche. Esigente e pignolo, sul suo rigore si è qualche volta ironizzato bollandolo come professorale e pedante. Uomo di sinistra ma ideologicamente non allineato, salvo la parentesi di fiducia nella nouvelle vague craxiana. Artista ma – caso raro nello spettacolo – anche intellettuale di alto profilo. Ha segnato in profondità i migliori anni del cinema italiano.
INTERVISTA A LA CAPRIA
FRANCESCO ERBANI
Li divideva poco più di un mese. L’anno era lo stesso, il 1922. Francesco Rosi è nato a metà novembre, Raffaele La Capria i primi di ottobre. Ma erano ancora bambini quando d’estate si tuffavano dagli scogli di Posillipo, a Napoli, sotto villa Rosebery. Racconta La Capria: «È stato il mio amico più caro, con lui in ottant’anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all’affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee». Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici - Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna... - la stessa idea di lasciare Napoli, «forti solo dei nostri sogni» e quindi i film - Rosi regista, La Capria sceneggiatore. Basta ricordarne due, Mani sulla città ( 1963) e Cristo si è fermato a Eboli ( 1979).
Con Rosi avete condiviso la stessa formazione?
«Al liceo Umberto avevamo un preside, D’Alfonso, che s’ispirava a Croce. L’ambiente era naturalmente antifascista e da lì scaturirono due filoni, quello comunista e il nostro, liberaldemocratico. Dopo la guerra demmo vita alla rivista Sud, diretta da Pasquale Prunas. Collaboravano Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea. Io mi occupavo di letteratura angloamericana, Franco scriveva note di cinema. A guardarle ora, quelle pagine emanavano un entusiasmo che fa sorridere, ma si resta sorpresi dalle cose che sapevamo ».
Nel ’48, a ventisei anni, Rosi era già assistente di Visconti per La terra trema .
«La naturale precocità di un artista. Fin da ragazzo, più che elaborare intellettualmente, Franco coltivava immagini che immagazzinava. Eravamo in un clima neorealista, ma lui pur ammirando quel cinema, diffidava di certo sentimentalismo patetico. Era un razionalista, tendeva a raffreddare gli umori».
Che cosa ricorda di Mani sulla città?
«Un giorno, a Roma, Franco mi disse che voleva girare un film su Napoli, ma diverso dai soliti modelli. Passeggiavamo e non so chi dei due parlò per primo di un palazzo che crolla come spunto per indagare su che cosa la nostra città era diventata».
La speculazione edilizia patrocinata da Achille Lauro.
«Sì, ma senza impigliarsi in questioni teoriche. Ricorda la scena in cui Rod Steiger traccia con un bastone un quadrato per terra e dice: “Questo quadrato vale tanto, ma se noi ci portiamo la luce, le strade, le fogne, questo stesso quadrato varrà mille volte di più”? Ecco: con quell’immagine e quelle parole raccontammo la speculazione edilizia, che cambiò la morfologia della città e dell’Italia intera, distruggendo valori e rapporti umani».
Nel film Rosi faceva emergere una terribile realtà politica, anche quella non solo napoletana.
«È vero. Ma sempre e solo manovrando la macchina da presa. Franco la metteva a pochi centimetri dai volti dei consiglieri comunali, ne catturava le occhiate, le smorfie e così documentò il passaggio di alcuni di loro da Lauro alla Dc. Una vicenda politicamente dirompente, testimoniata attraverso un artificio, un’invenzione. Direi, uno stile».
Lavoraste insieme per C’era una volta (1967), liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, poi per Uomini contro (1970) ispirato al romanzo di Emilio Lussu. E quindi per Cristo si è fermato a Eboli .
«Il suo film più bello. Franco cercava la verità di quel Mezzogiorno entrando nelle case dei contadini, misurando la distanza fra la civiltà e un’arcaica forma di vita. Quando la domestica Giulia, interpretata da Irene Papas, fa il bagno a Gian Maria Volontè, nei panni di Carlo Levi, Franco fece l’impossibile perché i gesti avessero qualcosa di mitologico».
Quale idea di Napoli vi accomunava?
«Un’idea non convenzionale. Al pari di tutte le città del Mediterraneo, la immaginavamo come una capitale della decadenza, impegnata nella contemplazione del passato. Ma, a differenza di altre città, Napoli conserva una continuità con l’antica Grecia. E per questo, ci dicevamo, mentre altrove domina un’aridità comunicativa, Napoli è un’ansa che custodisce un certo calore. Franco, uomo buono, ne era un esempio ».
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Raccontò i traffici nell’edilizia e nell’Italia che cambiava senza troppe teorie
Sotto il Vesuvio c’è un’ansa che custodisce un certo calore. E lui ne era un esempio
INTERVISTA A SCOLA
ARIANNA FINOS
NAZIONALE - 11 gennaio 2015
CERCA
20/21 di 64
ATTUALITÀ
Ettore Scola
Il regista racconta il suo rapporto con Rosi “Eravamo una comunità, eravamo famelici di tutti gli altri in un paese da ricostruire Ora i giovani non hanno questa fortuna sono solitari, senza il desiderio del gruppo”
“Franco, Fellini e io... La nostra generazione ha cambiato l’Italia”
Il maestro: “Con lui c’era il rito quotidiano della telefonata. Mi mancherà Di quella stagione, purtroppo, sono andate perdute rabbia e umanità”
ARIANNA FINOS
ROMA .
Ettore Scola, 83 anni, accende una sigaretta dopo l’altra. È appena tornato nel suo studio, dopo aver fatto visita alla casa dell’amico Francesco Rosi. «Mi sento uno studente al terzo trimestre, le assenze all’appello sono sempre più numerose. Quella di Franco è dolorosa».
Vi telefonavate tutti i giorni.
«Era un rito fisso, la mattina, da dieci anni. Confrontavamo le opinioni sui fatti del paese. Attaccavamo il telefono e lui dieci minuti dopo richiamava per indignarsi su un altro argomento. Facevamo lunghe passeggiata da casa sua, in via Gregoriana, fino al Pincio, al bar di villa Borghese. Ci si vedeva anche per parlare di niente, intrattenere silenzi tra noi. Per sentirci solidali di un progetto comune: il miglioramento del paese. Anche la sua natura di regista era quella di affrontare continuamente la realtà che aveva intorno. L’attaccamento al paese ha fatto la grandezza del suo cinema e di lui come uomo. Film dopo film si è dedicato a dare un’identità e una coscienza a questo paese che non ha né l’una né l’altra. La sua sofferenza maggiore era nell’assistere allo spettacolo di oggi».
Sulla sua libreria spicca una foto di Gramsci. Lei e Rosi discutevate molto, di politica.
«Discussioni, mai litigi. Ci interessava la grande politica, che è espressione più alta dei rapporti umani. Non era un regista impegnato o militante, erano parole che lo facevano assai incazzare. Aveva un senso dell’umorismo che non metteva nei film ma che era presente nelle letture e nella conversazione. Io praticavo un po’ di più di lui l’ironia, ma senza perdere di vista lo scopo. I nostri film sono diversi per ispirazione e modi e linguaggi, ma gli intenti erano vicini».
Andavate spesso al cinema insieme.
«Ero goloso delle sue reazioni, sempre rumorose, evidenti, nei cinema iniziava a urlare: “ma chi è questo e che sta dicendo?” aveva un dialogo diretto con la pellicola. Come se in quel momento si potesse ancora modificare. Era uno spettatore attivo, un fabbricatore di quel che vedeva. Era divertente. S’incazzava, s’alzava, andava via, poi ritornava. Non era mai una compagnia banale».
Cosa le mancherà di più?
«Le commemorazioni — un modo per riparare all’oblio, non trasmettevano i film di Rosi spesso — riguardano le opere, i film. A me mancheranno i riti comuni, le abitudini, il suo carattere. La benevolenza verso gli altri che c’era sotto la sua ira. La gentilezza d’animo, lo era con tutti. Era elegante, come napoletano teneva moltissimo alle scarpe, all’acqua di colonia. Aveva piccole fisime sue, spesso motivo di divertimento da parte nostra. Che però descrivevano comunque una voglia di piacere agli altri e di farsi piacere gli altri».
Lei gli aveva consegnato il premio Fellini al Bifest di Bari.
«Fu una serata di divertimento, anche autoironico. Gli piaceva stare con gli amici, cenavamo spesso insieme. L’ultima occasione era stata per il suo compleanno, con Dudu La Capria, Furio Colombo, Giorgio Napolitano».
Facevate anche battaglie pubbliche «Su Franco si poteva sempre contare. Con Lizzani e Montaldo denunciammo una deputata che in Parlamento disse che Monicelli era “morto solo e abbandonato”, una falsità totale. Di recente, con logica contraria, ci siamo schierati con i ragazzi per difendere il Cinema America a Roma, punto di riferimento di Trastevere».
L’energia non gli mancava.
«Fino ad alcuni giorni fa parlava di un progetto mai realizzato su Cuba che aveva ripreso in mano. Era venuto a vedere il mio film su Fellini, si era commosso. Amava Federico e gli piaceva che un regista si occupasse di un altro regista. Perciò aveva fatto con gioia il libro con Peppuccio Tornatore».
La vostra generazione di cineasti aveva grande scambio di idee. Era una comunità.
«Non ricordo un film di cui non abbia fatto leggere la sceneggiatura ai colleghi. Per me e Federico era un’abitudine dai tempi della redazione del Marc’Aurelio. Ognuno leggeva idee e progetti, pronto a incassare pernacchie e critiche, sapendo che erano utili. Anche Rosi raccontava i film che preparava, chiedeva opinioni. I giovani di oggi non hanno questa fortuna, né i modelli che avevamo noi: Fellini ma anche Steno, Monicelli. Oggi i giovani non si frequentano. Lavorano in solitario perché gli manca il desiderio del gruppo. Noi avevamo davanti un paese da ricostruire e sapevamo di poter collaborare a questa ricostruzione. Eravamo famelici di tutti gli altri. Oggi è difficile dire a un giovane “ama l’Italia”. Ma resto ottimista, bisogna continuare a fare film con onestà e sicurezza ».
I film di Rosi che ha amato di più?
«A parte qualche vacanza che si è voluto prendere da se stesso, i film in Sudamerica e Spagna, tutti gli altri compongono quel gruppo solido di informazioni sul paese, sulla nostra indole, mentalità, pensiero. Sono un corso di approfondimento di se stessi, per chiunque. I giovani percepiscono che Le mani sulla città, girato nel ‘63, parla di oggi, parla di Roma e non solo di Napoli. Si rivolge direttamente a loro, anche se non lo conoscono».
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PAOLO SORRENTINO
IL REGISTA AVEVA 92 ANNI: DAL “CASO MATTEI” A MÁRQUEZ TRA IMPEGNO E SOGNO
PAOLO SORRENTINO
ADISPETTO di un modo di essere che poteva sembrare sbrigativo, Francesco Rosi aveva un’immensa grazia. Era uno dei pochi registi che, se gli piaceva un tuo film, ti chiamava. Io rimasi impietrito quando ricevetti una sua telefonata per L’uomo in più, avevo trent’anni. Sarebbe successo altre volte. Rosi è stato uno dei pochi registi nella storia del cinema, portatore di un mondo o di più mondi nuovi.
Francesco Rosi nel 1984
CON uno stile inedito, che non ricalcava quel che c’era stato prima. Succede solo ai grandi autori, una ristretta e immensa cerchia mondiale a cui appartiene. L’etichetta di regista d’impegno era una delle tanti semplificazioni che un autore complesso come Rosi è stato costretto a sopportare. Non è solo l’autore di Le mani sulla città, ma di numerosi e splendidi film diversi tra loro. I magliari o Il caso Mattei sono anche strepitosi racconti della grandezza e miseria dell’essere umano, che Rosi realizzava con un metodo, uno stile e una potenza visiva completamente originali e personali. Aveva un suo universo, che non apparteneva e non apparterrà a nessun altro, come è successo solo per pochi grandi registi, come Fellini, Visconti e Antonioni. Il suo lavoro è un’inesauribile fonte di ispirazione per tutti noi che facciamo questo lavoro, lo è stato anche per tanto cinema americano che si è occupato di politica e che forse prima di Rosi non sapeva nemmeno come doveva occuparsene. Sono gli stessi registi americani a riconoscerlo. I tempi sono cambiati, ma il metodo, la serietà, la “cura del tutto” sono una parte del patrimonio di Rosi imprescindibile anche per le generazioni presenti e future, non a fini imitativi, ma perché, come mi diceva oggi Tornatore, il cinema di Rosi è un cinema percorribile. E ha aperto strade laddove prima c’erano vicoli tortuosi su come raccontare al cinema l’ostico, il complicato, le sfumature dei rapporti tra gli esseri umani, attraverso uno stile e una sensibilità irripetibili. Mi porto nel cuore una cena molto bella, viva e divertente di qualche anno fa in cui lui e Raffaele La Capria si appassionarono a parlare di Napoli, della loro gioventù e di un vecchissimo amore in comune, prima dimenticato, ma poi ricordato come se fosse trascorso appena un mese. L’ultimo film che ho girato è anche debitore di quella meravigliosa cena e sarà dedicato a Francesco Rosi.