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 2015  gennaio 10 Sabato calendario

ARTICOLI SULL’UCCISIONE DEI TERRORISTI IN FRANCIA DAI GIORNALI DEL 10 GENNAIO 2015


STEFANO MONTEFIORI, CORRIERE DELLA SERA -
La giornata del caos e della grande angoscia, i fratelli Chérif e Saïd Kouachi la cominciano terrorizzando un automobilista alle 8 e 30, a Montigny-Sainte-Félicité, nella zona a Nord-est di Parigi dove da 24 ore migliaia di agenti in tenuta d’assalto danno loro la caccia. I due assassini di Charlie Hebdo si impadroniscono della sua macchina, una Peugeot 206, e ricominciano a fuggire lungo la strada nazionale 2 che collega la campagna alla capitale. Non sono mascherati, il proprietario dell’auto li ha riconosciuti, dà l’allarme.
La RN2 è in quel momento la strada più controllata del mondo, i posti di blocco sono decine e appena i ricercati ne avvistano uno cercano di deviare. I poliziotti li stanno aspettando, c’è una sparatoria, Saïd rimane ferito al collo. Comincia l’inseguimento. I Kouachi finiscono nella zona industriale di Dammartin-en-Goële, paese a 40 chilometri da Parigi. Sono le 9 e 30 quando si rifugiano nella tipografia «Création Tendance Découverte» (CTD). Dicono di volere «morire da martiri». Un commerciante lì vicino si imbatte in uno dei due fratelli, che prima si presenta come un poliziotto per giustificare il fucile che sta imbracciando, poi gli chiede di andarsene stringendoli la mano e dicendogli, rassicurante: «Noi non uccidiamo civili».
È solo il primo di tanti momenti tra il drammatico e l’incredibile. Un dipendente dell’azienda, Lilian Lepère, 26 anni, si nasconde nei locali della CTD, tra gli scatoloni, sotto a un lavandino. Da lì comunica all’esterno mandando sms alla polizia. È così che prende corpo l’idea che i terroristi abbiano preso un ostaggio. Ma i fratelli Kouachi neanche sanno di averlo, un ostaggio: Lepère ne approfitta e continuerà ad aiutare gli agenti fino al pomeriggio, informandoli di nascosto dei movimenti dei terroristi islamici.
Tutta la Francia ormai sa che i terroristi sono individuati e braccati e alle 10, in redazione a Parigi, il reporter Igor Sahiri del canale all news BfmTv fa il numero della tipografia sperando di parlare a un dipendente, un possibile testimone. Ad alzare la cornetta è invece lo stesso Chérif Kouachi. Dice al giornalista di agire per conto di «Al Qaeda dello Yemen», di essere stato formato dall’imam Anwar Al Awaki (ucciso da un drone americano nel settembre 2011), e giustifica la strage di Charlie Hebdo definendo lui e suo fratello «difensori del profeta». Ancora una volta, assicura di non volere uccidere civili. E Charlie Hebdo? «Non erano civili, ma bersagli».
Nel frattempo, le forze speciali del GIGN (Groupe d’Intervention de la gendarmerie nationale) si preparano a dare l’assalto.
I gendarmi passano casa per casa ordinando agli abitanti di non uscire, di tenere le persiane chiuse e di restare lontano dalle finestre. A circa un chilometro in linea d’aria dalla tipografia, centinaia di studenti del liceo sono bloccati dentro il loro istituto, anche loro con finestre e persiane chiuse. I giornalisti radunati lì vicino sentono, più volte, i ragazzi che gridano in coro. È commovente. «Charlie, Charlie, Charlie!», «Je suis Charlie»: solidarietà alle vittime di mercoledì, sberleffo e sfida ai terroristi. Negli stessi minuti, ospitati nei locali di Libération a Parigi, i superstiti di Charlie Hebdo tengono la loro prima riunione di redazione della nuova era, quella senza Charb, Wolinksi e gli altri.
I francesi guardano a Dammartin-en-Goële, sperano che l’incubo cominciato mercoledì finisca presto ma - in quel momento appare incredibile - ne comincia un altro. Intorno alle 13, a Parigi, nella zona di Vincennes, un uomo armato di fucile d’assalto e kalashnikov fa irruzione sparando in un supermercato kosher (ebraico). Fa subito quattro vittime (si scoprirà poi), e prende degli ostaggi. Il terrorista è Amedy Coulibaly, 32enne nato in Francia come i suoi amici Kouachi, e come loro vecchia conoscenza di tribunali, prigioni e servizi segreti. La mattina precedente Coulibaly, a Montrouge, ha ucciso a sangue freddo l’agente municipale Clarissa Jean-Philippe, 25 anni, che si era avvicinata all’auto del terrorista coinvolta in un tamponamento. «Non c’è alcun legame con Charlie Hebdo», si erano affrettate a dichiarare le autorità. Invece c’è eccome.
«Ci siamo sincronizzati, io e i fratelli Kouachi», dice intorno alle 15 Coulibaly in un’altra surreale telefonata a Bfm Tv, che come quella di Chérif Kouachi verrà resa pubblica alla fine della giornata. Stavolta è lui a prendere l’iniziativa di chiamare i giornalisti, vuole essere messo in contatto con la polizia, con Hollande e il premier Valls. Spiega che con i Kouachi si erano divisi i compiti: «A loro Charlie Hebdo, a me i poliziotti». Aggiunge di essere affiliato allo Stato islamico. Con lui c’è la compagna e complice Hayat Boumeddiene, 26 anni. Alcune foto impressionanti li ritraggono, qualche anni fa, mentre si esercitano a usare pistola e balestra, lei coperta dal burqa. Coulibaly poi telefona a compagni jihadisti, li esorta a uccidere poliziotti, ad attaccare commissariati.
A questo punto della giornata, la Francia si trova con due fronti aperti: a Dammartin l’assedio ai fratelli Kouachi; a Parigi, nella zona di Vincennes, la presa di ostaggi al supermercato. Per qualche istante sembra che se ne apra un terzo, ed è quello il momento psicologicamente più drammatico per una città provata. La polizia ha la segnalazione di un uomo armato tra la spianata del Trocadero e la stazione del metro. Centinaia di agenti si precipitano e decine di auto accorrono a sirene spiegate. Alcuni turisti racconteranno di essere stati spinti dai poliziotti nel vagone del treno, di corsa, perché lasciassero immediatamente la stazione. Partito il convoglio, la linea 6 del metro viene interrotta, il Trocadero evacuato anche in superficie. Una foto mostra un poliziotto che si avvicina alle scale che scendono nella metropolitana, con la pistola in pugno e il braccio teso. Dopo pochi minuti il ministero dell’Interno assicura che la zona è stata perlustrata e che l’allarme si è rivelato falso, proprio come quello del giorno prima alla Défense. Ma la gente è stravolta, nei bar e nei taxi si sentono solo le cronache in diretta di radio e tv.
Oltre 80 scuole sono state chiuse vicino al supermercato ebraico, i bambini fatti uscire in fretta. Ma chi va a prendere i figli a scuola an-che negli altri quartieri di Parigi, intorno alle 16, trova affisso sul portone il grande cartello «Plan vigipirate, Alerte Attentat» che è esibito in tutti gli uffici pubblici. È il livello massimo di allerta del piano anti-terrorismo, dovrebbe rassicurare ma ottiene l’effetto contrario, per genitori e figli.
A Vincennes il silenzio è totale, il traffico bloccato a centinaia di me-tri dal supermercato. Tram e autobus non circolano, anche la tangen-ziale è evacuata, si vive nella sospensione. La rottura dell’attesa arriva però da Dammartin, dove finalmente le teste di cuoio del GIGN entrano in azione, alle 17, su ordine di Hollande. I fratelli Kouachi hanno tenuto fede al loro proposito, alla prima avvisaglia del raid hanno cercato il martirio uscendo allo scoperto e provando a uccidere ancora. Sono stati abbattuti quasi immediatamente.
La resa dei conti finale è inevitabile, appena 10 minuti dopo ecco i reparti speciali della polizia entrare in azione a Vincennes. Alzano la saracinesca della porta principale e cominciano a fare fuoco. Si vedono chiaramente i corpi delle vittime, morte subito, alle 13, e da allora rimaste lì, sul pavimento del supermercato. I primi agenti entrano, gli altri continuano a sparare, e a un certo punto nel video di France 2 ecco Amedy Coulibaly, il terrorista islamico, che corre incontro ai poliziotti e alla morte. Va verso l’uscita, riesce quasi a imboccare la porta mentre si mette le mani alla testa con un gesto automatico di protezione, mentre gli agenti lo crivellano di colpi.
Dall’altra porta gli ostaggi corrono in modo disordinato, un papà tiene in braccio il suo neonato, una donna non sa dove andare e viene caricata sulle spalle da un gigante in elmetto e tenuta d’assalto. Tra loro, forse, c’è anche Hayat Boumeddiene, la compagna jihadista, che potrebbe essersi mescolata agli ostaggi per fuggire. Di lei si sono perse le tracce. Potrebbe colpire ancora.
Ma è finita, per adesso. I tre terroristi islamici sono stati uccisi. Gli ostaggi salvati. Resta l’immenso dolore per i 12 morti di mercoledì, e per i quattro clienti del supermercato uccisi subito, all’inizio dell’azione di Coulibaly. Un video di Al Qaeda nello Yemen rivendica le azioni terroristiche, inneggia ai martiri e minaccia altri attentati: «Non sarete al sicuro finché non smetterete di combattere Allah, il suo messaggero e i suoi fedeli».
Ma la Francia sente che i suoi tre giorni di orrore senza precedenti sono conclusi. Hollande può dire in tv «siamo stati all’altezza». Giovedì la Tour Eiffel ha spento le sue luci alle 20, in segno di lutto. Ieri sera, sull’Arco di Trionfo, una scritta splendente: «Paris est Charlie».
Stefano Montefiori


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ELISABETTA ROSASPINA, CORRIERE DELLA SERA -
Quattro esplosioni ravvicinate, un quinto boato dopo poco meno di 30 secondi: alle 17 e 05 è chiaro, anche a 400 metri di distanza, che l’assalto delle forze speciali di polizia all’Hyper Cacher, il supermercato specializzato in prodotti kosher (conformi alle leggi alimentari ebraiche), è stato lanciato. Pochissimi minuti dopo quello di Dammartin, contro i fratelli Kouachi.
Sono passate quattro ore esatte dal momento in cui Amedy Coulibaly, detto «Doly», 32 anni, solo o in compagnia della sua misteriosa fidanzata Hayat Boumeddiene, 26 anni, ha fatto irruzione sparando con due kalashnikov nel negozio, e uccidendo quattro clienti. Della ragazza non si troverà traccia, né viva né morta, dopo l’attacco della polizia, che uccide Amedy e ferisce involontariamente quattro ostaggi. Improbabile, ma non impossibile che Hayat sia riuscita a fuggire nella confusione, mescolandosi ai clienti liberati. Forse, più semplicemente, non ha partecipato all’ultima, sanguinosa impresa del compagno. Per lei, la caccia è aperta.
Pochi minuti dopo le 13, corso de Vincennes, tra piazza de la Nation e la circonvallazione di Parigi, è una giostra di auto della polizia, ambulanze, mezzi della protezione civile.
Le facce di Hayat e di Amedy sono appiccicate sul cruscotto delle macchine degli agenti. Sono ricercati per l’omicidio di una giovane agente municipale, Clarissa Jean-Philippe, 25 anni, il giorno prima, a Montrouge, periferia sud della città. Ma soprattutto Amedy è considerato il terzo complice dei fratelli Kouachi nel massacro della redazione di Charlie Hebdo, la mattina del 7 gennaio: «Eravamo sincronizzati — conferma lui stesso nelle sue ultime ore di delirio omicida in una telefonata all’emittente Bfmtv —. Loro Charlie Hebdo, io i poliziotti».
Pare che sia stato proprio il telefono a dettare ieri il momento dell’assalto della polizia e della sua fine: Amedy aveva riattaccato male la cornetta, gli investigatori che avevano intercettato la linea hanno sentito che il terrorista iniziava alle 17 la sua preghiera, forse l’ultima, quella che doveva precedere il suo «martirio» con tutti i suoi ostaggi. In quel momento è stato dato l’ordine di intervenire. Immagini amatoriali girate da uno dei palazzi vicini, e trasmesse da France 2 , mostrano Amedy che, alle prime esplosioni, si precipita dal fondo del negozio verso i poliziotti e viene crivellato da una sessantina di colpi. Nel negozio verrà ritrovato uno zaino pieno di esplosivo che però l’uomo non ha utilizzato.
Le teste di cuoio, mascherate, erano arrivate su quattro auto mezz’ora prima, seguite da decine di Crs, i militari antisommossa, che sono stati applauditi dalla piccola folla assembrata dietro alle transenne disposte a distanza di sicurezza.
Contro quelle transenne si sono appoggiati per ore, assieme ai giornalisti, gli abitanti del quartiere, storditi, increduli o arrabbiati, come Rudy Stibon, 33 anni, la kippa ben in evidenza sulla testa: «Mia sorella era in quel supermercato fino a un quarto d’ora prima — racconta — stava facendo le ultime compere per preparare lo Shabbat, che inizia al tramonto. C’era molta gente assieme a lei. Ha salutato la cassiera, che conosciamo bene. È passata dalla pasticceria kosher a fianco, poi è rientrata nel momento in cui cominciavano già a sfrecciare le sirene. Adesso si è chiusa in casa, sotto choc. Ma io le ho detto che non si risponde al terrore con la paura». Però, ammette, non vede l’ora di andarsene in Israele.
Un’altra donna del quartiere, ad alta densità di popolazione ebraica, supera il cordone di sicurezza per allontanarsi dal supermercato dove, anche lei, aveva appena fatto compere: «Abbiamo sentito una detonazione. Abbiamo pensato allo scontro fra due auto, poi si sono sentite delle urla, e altri rumori incomprensibili. Ho pensato solamente a correre e a nascondermi».
Marilyne Bararanes, anche lei residente in zona, è stata evacuata dalla zona pericolosa. «La polizia è schierata a cento metri dal supermercato — descrive la scena poco lontano —. C’è un silenzio assoluto, angosciante, in quel tratto di deserto. Sono in contatto telefonico con i miei figli, chiusi in casa. Occorrerà poi l’intervento degli psicologi per appoggiare non solo le vittime, ma anche i testimoni di quanto sta accadendo. Lo so, perché anch’io lavoro nell’assistenza a persone traumatizzate».
Fatah, invece, aveva appuntamento con la cugina che ha un negozio da parrucchiera proprio vicino all’Hyper Cacher in cui è ancora asserragliato Amedy. Con quel che era già accaduto a Parigi negli ultimi giorni, sua cugina non è certo stata a chiedersi se fossero petardi o se stessero girando un film: «Appena ha sentito i colpi — racconta Fatah — ha tirato giù la saracinesca ed è fuggita con le sue clienti».
Elisabetta Rosaspina

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MARCO IMARISIO, CORRIERE DELLA SERA -
All’improvviso una esplosione. Non un botto, ma qualcosa di più lacerante, che spezza l’aria e un silenzio durato sette ore. Pietr Niezynicki, un giovane fisioterapista che ha forzato il cordone di sicurezza per venire da noi giornalisti a chiedere notizie delle sue bambine chiuse all’asilo nido dalle otto del mattino, si butta per terra coprendosi la testa con le mani. Ci abbassiamo tutti voltandoci verso la massicciata che nasconde quella scatola di latta rettangolare e grigia con dentro la tipografia diventata l’ultima tappa del viaggio dei fratelli Kouachi, gli assassini di Charlie Hebdo.
C’è un attimo sospeso lungo 20 secondi, si alza una colonna di fumo, poi una raffica di mitra seguita dal crepitare di un’altra raffica più lunga, che sembra non spegnersi mai e infine una seconda deflagrazione. Sono le 16.56 di un giorno che nessuno dimenticherà, non solo qui, in questo paesino della Marna diventato capolinea di una storia che tutti sapevamo sarebbe finita com’era cominciata, nel sangue. Il villaggio tagliato fuori dal mondo per un tempo sembrato interminabile, con gli abitanti invitati a restare a casa con le luci spente, i malcapitati che erano per strada alle 9 del mattino presi di peso e condotti in una scuola media chiusa per lavori, diventa un formicaio.
«Putaìn, fermatevi e rientrate in casa» urla un cecchino accucciato sotto a una siepe a un gruppo di giornalisti che stanno correndo verso le esplosioni. Ha il dito fermo sul grilletto di un fucile enorme, gli occhi spiritati. Stesa sul marciapiede di fronte c’è una donna che piange. Abita a rue de la Cerisaie, l’ultimo lembo di villaggio prima della zona industriale, è madre di tre figli anche loro chiusi nella scuola elementare. Quando ha sentito gli spari Jeanine si è messa a correre a perdifiato, incurante dei gendarmi che cercavano di placcarla, solo una delle tante madri che in quel momento hanno seguito l’istinto primordiale, correre dai loro bambini ovunque si trovino. «Ditemi che è finita» implora «ditemi che è finita». Questa volta è davvero finita. Alle 17.30 arriva una camionetta a grande velocità. Ne scendono militari in assetto da guerra che sembrano dei capi, dal modo in cui vengono accolti. «L’operazione è conclusa» dice uno di loro a un gendarme. Si stringono la mano. Altri 10 minuti e dai capannelli di gendarmi e poliziotti, dai loro frammenti di dialoghi origliati arriva la conferma. Da un walkie-talkie si sente la richiesta di ambulanze per tre dei soldati «qui ont tué le deux mecs», che hanno ammazzato i due tizi, a fare la traduzione letterale.
La tipografia Ctd, che sta per «creation, tendance, decouverte» ha la sfortuna di essere il luogo più vicino alla strada nazionale 2 dove ieri mattina alle 8.15 i fratelli Kouachi hanno abbandonato l’auto appena rubata per sfuggire a un posto di blocco. È un cubo grigio chiaro attaccato al capannone più alto che ospita le poste del paese e altri uffici. Ci lavorano il titolare Michèl Catalano, un tipografo e un contabile. Ostaggi, dicono le tv in diretta permanente, ma non si capisce quanti erano dentro al momento dell’irruzione dei Kouachi. I gendarmi bussano di porta in porta alle case sull’altro lato della strada urlando di non uscire e chiamano i rinforzi. L’assedio è iniziato. Le strade si svuotano. I bambini delle tre scuole vengono radunati in palestra, l’ordine è tenerli dentro a ogni costo, distrarli con giochi e dvd. Dalle finestre della scuola media così nuova da non avere ancora nome, arrivano le voci dei bambini che intonano il coro «Noi siamo Charlie».
Il sindaco di Othis, il paesino accanto, viene chiamato a fare le veci del suo collega di Dammartin, alle prese con ordini draconiani. Mentre parla con i giornalisti si lascia scappare una frase dietro alla quale si nasconde una storia pazzesca. «C’è almeno una persona dentro alla Ctd» dice Michael Tevìs. «Ma non so se è un ostaggio». Nessuno ci fa caso, chi potrebbe in quel delirio, con le notizie da Vincennes che si accavallano alla quiete spettrale del villaggio che sembra abbandonato. Lilian Lepère, il contabile, è un ostaggio. Ma i fratelli Kouachi non sapranno mai di averlo avuto nelle loro mani. Il ragazzo li ha sentiti entrare e si è chiuso dietro una porta di cartongesso, nel soppalco adibito a ufficio che si affaccia sul laboratorio. Quando ascolta le notizie alla radio, il padre lo chiama sul telefonino, decine di telefonate tra le 9 e le 11 del mattino. Riceve in risposta un sms. «Sono nascosto al primo piano. Credo abbiano ammazzato tutti. Dì alla Polizia di entrare in azione». La sorella, che abita a Parigi, lo chiama a ripetizione. Poi smette. Spera sia ancora vivo, teme che il suono del telefonino possa allertare i terroristi. Lilian va oltre quel primo messaggino. Dal suo rifugio dove sente i fratelli Kouachi parlare e pregare, manda altri sms alle forze dell’ordine, spiega come è fatto il locale, quali le vie di fuga. Alle 16.30 riceve un ultimo sms. «Grazie. Rannicchiati. Stiamo per entrare». Lilian si copre con il cartone di una scatola, si accuccia sotto al lavandino. E aspetta.
Said e Chèrif Kouachi, i due fratelli che da mercoledì mattina incarnano il peggiore incubo della Francia e dell’Europa sono morti sparando, «con il kalashnikov in mano», dice un ufficiale. delle teste di cuoio. Hanno deciso loro quando, e come. Spalancando la porta principale e lanciando una granata per aprirsi una impossibile via di fuga.Poi la sparatoria, con Said che sarebbe stato abbattuto nel cortile, andando incontro ai tiratori scelti accovacciati sotto agli alberi. Lilian viene preso in consegna dalla gendarmeria. «Sto bene, solo un po’ scosso» fa dire al padre il più improbabile degli eroi. Le luci si accendono nelle case, Pietr e Jeanine riabbracciano i loro bambini. Il sindaco Michel Dutruge riappare, e un po’ piange e un po’ ride di sollievo. «Spero di non vivere mai più una giornata così».
Non succederà più, almeno qui, in questo piccolo paese che da due anni ha raddoppiato i suoi 3 mila abitanti con la costruzione della zona industriale e di alloggi popolari abitati da polacchi e maghrebini. A collegare il villaggio vecchio e quello nuovo c’è una sola strada. C’è un’altra cosa che i fratelli Kouachi non sapranno mai. Loro, che odiavano gli ebrei, sono morti su un viale che porta il nome di Anna Frank.
Marco Imarisio

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DAVIDE FRATTINI, CORRIERE DELLA SERA -
«Siamo i difensori del Profeta». Chérif Kouachi è rintanato con il fratello nella stamperia di Dammartin-en-Goele, sa di essere vicino alla morte, è quello che ha proclamato ai negoziatori della polizia («si amo pronti al sacrificio dei martiri»).
Accetta così di parlare con un giornalista della radio e televisione BfmTv , un modo di rivendicare la strage alla redazione del settimanale Charlie Hebdo , dimostra la volontà di parlare di sé, di essere ricordato. Il giovane che voleva diventare famoso come rapper non rinuncia alla notorietà dell’orrore.
Sono le dieci del mattino, l’assedio è cominciato da un paio d’ore, il reporter francese Igor Sahiri sta cercando di raggiungere testimoni dentro l’azienda. Fa squillare i telefoni, risponde una voce. Il giornalista chiede se effettivamente abbia contattato uno degli uffici, la voce dice: «Sono Kouachi».
La redazione cerca conferme, chiede di richiamare, la conversazione viene registrata.
Chérif racconta del suo addestramento, dei viaggi in Yemen dove è stato indottrinato dallo sceicco Anwar al-Awlaki, considerato uno dei leader di Al Qaeda nella regione ed eliminato da un drone americano nel settembre del 2011. Le parole dell’estremista evidenziano quanto consideri la carneficina di mercoledì un’operazione militare.
I disegnatori e le altre vittime ammazzate a colpi di fucile mitragliatore non sono civili. Li chiama «bersagli». Dice di non voler uccidere donne e bambini, «anche se gli occidentali li massacrano in Iraq e Afghanistan».
L’emittente contatta il primo ministro Manuel Valls e il ministero degli Interni, fornisce la registrazione. L’intesa è di non mandarla in onda fino a quando la crisi non è conclusa. Succede lo stesso quando alle 15 è il telefono della redazione a suonare.
Un uomo si presenta e dichiara di essere Amedy Coulibaly, il terrorista di origine africana accusato di aver ucciso la vigilessa Clarissa Jean-Philippe a Montrouge: è sceso da un’auto, le ha sparato alla gola, la parte del corpo non protetta dal giubbotto antiproiettile. Nella sua caccia del terrore adesso ha preso degli ostaggi nel supermercato per cibi e prodotti ebraici alla periferia di Parigi. La telefonata dura 4 minuti, più a lungo di quella con Chérif Kouachi .
Le prime frasi sono drammatiche, sono ancora le ore in cui la polizia non è in grado di confermare se ci siano vittime, se l’assalitore abbia sparato appena entrato. La risposta arriva in quel momento, non viene divulgata. Quando il giornalista Alexis Delahousse gli domanda «quanti siete?», Amedy dice con freddezza «quattro morti». Gli altri, gli ostaggi ancora vivi, non contano.
Coulibaly racconta di essersi coordinato con i due fratelli Said e Chérif Kouachi («a loro Charlie Hebdo , a me i poliziotti») e proclama di appartenere alle milizie dello Stato Islamico. Durante i negoziati aveva chiesto la liberazione dei fratelli, conosceva bene almeno uno di loro.
Per rivendicare le sue azioni, sceglie di usare la nuova bandiera, la più popolare tra i fondamentalisti, quella nera del Califfo. Non significa che abbia ricevuto l’ordine dalla Siria o dall’Iraq, il comando è già stato dato: colpire gli occidentali, non c’è bisogno di conferme, basta recuperare le armi, un kalashnikov costa 100 euro al mercato nero nelle periferie di Parigi.
Spiega di aver individuato quel negozio «perché volevo colpire gli ebrei». Avrebbe usato il telefono fisso del supermercato anche per chiamare altri complici e ordinare attacchi a Parigi.
Chiama pure un conoscente che avverte la polizia: Coulibaly ha riappeso male, gli investigatori possono ascoltare quello che sta succedendo all’interno. Lo sentono pregare e temono che si stia preparando al «martirio». L’attacco delle forze speciali viene deciso in quel momento.
Davide Frattini

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DANIELE MASTROGIACOMO, LA REPUBBLICA -
RE colpi forti, cupi, profondi.
Con le prime ombre che calano su Porte de Vincennes, nel grande viale senza più luci artificiali, isolato e deserto, i boati annunciano l’inizio dell’assalto. Sono le 17 e 7 minuti di un venerdì teso e drammatico. Dopo quattro ore di assedio, paura e orrore, una cinquantina di agenti dei corpi speciali, vestiti di nero, passamontagna, giubbotti antiproiettile, avanza compatto dietro un mezzo blindato della polizia. Camminano lenti e sparano centinaia di colpi, a ripetizione. I muri e le vetrate interni dell’Hyper Casher, il piccolo supermercato di prodotti kosher destinati alla popolazione di fede ebraica, vanno in frantumi. I proiettili schizzano in tutte le direzioni. Ma sono concentrati su Amedy Coulibaly, 32 anni, un francese di colore con origini africane. «Liberate i fratelli Kouachi o ammazzo tutti qui dentro», aveva gridato poco prima, firmando così la propria condanna. Spara anche lui. A raffica. Colpisce quattro agenti alle gambe e al ventre. Crollano a terra. Ma i colpi delle teste di cuoio lo abbattono come un cane rabbioso.
Amedy, che si dichiara collegato allo Stato Islamico, era entrato nel negozio kasher in questo lembo residenziale di Parigi est poco dopo le 13 Si trova davanti una trentina di persone. Francesi di origine ebraica. Domani è shabbat. La folla si accalca per la spesa in vista della festività. Amedy imbraccia uno dei fucili automatici. Grida «sapete chi sono, sapete chi sono», spara una lunga raffica. Almeno tre persone sono colpite a morte. Si accasciano a terra. Un quarto sarà ucciso più tardi. Gli altri urlano, cercano scampo all’esterno. Travolgono i passanti che sbandano come un gregge: gridano e fuggono a loro volta travolti da questo fiume umano impazzito. Dentro il negozio, alla mercé del killer, ci sono anche donne e bambini. C’è anche un piccolo di sei mesi. Saranno ore di angoscia, terrore. Secondo alcune ricostruzioni Amedy ha anche materiale esplosivo nascosto «in una o più borse». Altri media riferiscono che ad un certo punto avrebbe chiamato non meglio specificati “amici” per chiedere loro di organizzare altri attacchi. C’è chi dice sia collegato al commando assassino nella redazione di Charlie Hebdo.
Forse ispirato dai “fratelli di sangue” Chérif e Said il giorno prima, a Montrouge, aveva freddato con un colpo di pistola in testa una poliziotta che tentava di bloccarlo. Per questo era stato inseguito, segnalato, braccato, dalle forze speciali per 24 ore. La fuga finisce in questo quartiere popolare a est della capitale. È solo, armato di due Ak-47 quando fa irruzione nel negozio di Vincennes sparando come un pazzo. Nel piccolo supermercato restano bloccati in 15. Coulibaly li minaccia tutti con i due kalashnikov che si è portato dietro.
Fuori il grande viale si svuota all’improvviso. Blindati, camionette, motociclisti, un elicottero, la Porte de Vincennes improvvisamente sprofonda in uno scenario di guerra. Il silenzio è rotto solo dalle sirene di polizia e delle ambulanze. Tutti cercano riparo dietro qualsiasi barriera. Si fermano tram, bus e gli stessi vagoni della linea della metropolitana. Tutta la zona viene transennata e isolata per un raggio di 400 metri. Un cordone impenetrabile di sicurezza blinda tutta la zona. Nessuno può uscire o entrare nei palazzi di dieci piani che costellano il viale. La strada è occupata da decine di furgoni della polizia e mezzi dei vigili del fuoco, auto civili, motociclette. Formano un muro, lungo 200 metri, che protegge su tre fila l’entrata del supermercato. Sigillati i portoni, chiusi i negozi, i bistrot, gli uffici. Anche gli studenti del liceo Helène Boucher sono trattenuti dentro la scuola. Si affacciano alla finestra, intonano la Marsigliese, applaudono. I genitori accorrono. Hanno i visi stravolti. Qualcuno piange.
Fuori dal negozio ci sono anche gli specialisti delle trattative. Gira voce che siano arrivati pure quelli del Mossad. Tra la folla spiccano molte teste coperte dalla kippah. Sono francesi ebrei che si ribellano alla guerra psicologica cui sono sottoposti in questi terribili giorni. «Sono qui per gridare che non ho paura», ci dice Rudy Sitbon, 32 anni, disoccupato. La folla lo circonda, lo sostiene. Sono decine di ragazzi e ragazze musulmani. Da sempre convivono in questo quartiere. Prevale l’angoscia. Hanno tutti voglia di reagire. «Ribelliamoci, scendiamo in piazza, marciamo uniti: musulmani, ebrei, cristiani. Questa non è una guerra di religione, è una guerra contro il terrorismo ». Il cielo grigio diventa nero. Il quartiere adesso è avvolto da un silenzio assoluto, pesante.
Sono arrivati gli incursori. È il segnale della fine. Il jihadista è solo. Fuori si era diffusa la voce che dentro ci fosse anche la sua donna, Hayat Boumeddiene, 26 anni, ma non è così. Di nuovo si sente sparare. A ripetizione. Come una girandola di botti d’artificio. Dal negozio kasher escono i sopravvissuti, sorreggendosi l’uno all’altro. C’è un ragazzo, portato a braccio. È la fine dell’incubo. Quattro poliziotti escono sorretti dai colleghi. Zoppicano. Sono feriti alle gambe dai proiettili. Hanno concentrato il fuoco del killer su di loro per evitare che colpisse gli ostaggi. Le ambulanze lasciano la zona a sirene spiegate. Restano i cordoni di sicurezza. Qualcuno applaude, qualcuno piange. Altri imprecano, alzano i pugni verso il cielo buio come la pece. C’è una sola certezza: può accadere di nuovo. Da mercoledì 7 gennaio siamo tutti meno liberi.

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PAOLO BERIZZI, LA REPUBBLICA -
Il tonfo sordo delle esplosioni, tre, devastanti, a duecento metri da una scuola elementare evacuata. Venti secondi di silenzio, poi una raffica di mitragliate e, subito dopo, una seconda, definitiva tempesta di fuoco, a chiudere l’assedio. Game over. La scia di terrore seminata dai fratelli Kouachi è rotta alle 17,03 nella trincea eretta tra i capannoni di Rue Clement, nella zona industriale di Danmartin-en-Goële, a nord di Parigi. L’ultimo campo di battaglia di Said e Chérif. Il conto presentato al radicalismo islamista per l’atroce massacro di Charlie Hebdo.
L’assalto delle teste di cuoio scatta in fondo alla giornata più lunga: quella oltre la quale, davvero, era impensabile immaginare gli effetti. È l’ora dell’epilogo, finalmente vanno a colpo sicuro. I fratelli Kouachi sono nella trappola, e lì moriranno. Ci si sono infilati loro, alle nove del mattino. Pensavano di fare un altro “botto”, lo show down finale. O di negoziare chissà cosa. «Vogliamo morire come martiri », era stato l’ultimo ringhio degli attentatori, prima di asserragliarsi in un piccolo stabile.
La trappola si chiama “Creation Tendance Decouverte”. È una tipografia che produce stampe e materiale pubblicitario. Lavora molto nel pubblico ma fa anche lanci spot per pizzerie e kebab. Stampano qui, al numero civico 27 di rue Clement. Duecento metri quadrati su due piani. Said e Chérif — braccia armate al servizio della costola yemenita di Al Qaeda, dodici morti sulle spalle e 90 mila poliziotti alle calcagna — sono ormai cani braccati. Randagi pronti a tutto, soprattutto a vendere cara la pelle. Vagano da 48 ore tra Reims, i boschi della Piccardia e queste terre dell’Ile de France piantonate da quasi dieci mila agenti della polizia e dell’esercito. Ore 9,04: tre elicotteri si alzano in volo sulla zona industriale di Dammartin. È il segnale di inizio dell’operazione. È la “prova” che là sotto, lungo la strada nazionale 2, si sono materializzati di nuovo. I Kouachi. Una notte alla macchia nelle campagne al confine tra Francia e Belgio, pronti a un’altra sfida da bagnare nel sangue dell’Occidente. Sfrecciano da Nord verso Parigi. Li hanno tracciati e i radar delle forze speciali della polizia li “fotografano” mentre escono dall’autostrada: uscita en-Goële Othis. Prima di Dammartin. Eccoli, hanno bloccato un’automobilista, l’hanno tirata fuori dalla macchina e sono saliti. Come a Parigi mercoledì. La folle corsa si ferma in rue Clement. I due terroristi si infilano nella tipografia. Dentro c’è un grafico di ventisette anni, Lillyan. Non ci sono né il titolare, Michel Catalano, né il figlio Valentin. Gli altri quattro dipendenti non sono ancora arrivati, chissà come sarebbe finita se ci fossero stati. C’è un commerciante all’ingresso, Didier, è qui per un ritiro. «Quando sono arrivato — racconta il testimone — una persona armata, vestita di nero, si è presentata come un poliziotto e mi ha detto di andarmene. Aggiungendo che comunque non avrebbero ucciso i civili. Ho subito chiamato la polizia ».
Quella vera. Nel giro di mezz’ora i gruppi specializzati del Raid e del Gign cingono d’assedio il blocco di capannoni. Tutte le vie d’accesso a Dammartin en Goele sono bloccate. Le strade, dall’autostrada ai vicoli del paese, piene di agenti schierati. Sono cinque, adesso, gli elicotteri che sorvolano la zona. Così fino alle 11. Quando la scena si “deposita”. Dentro la tipografia, battono le agenzie, ci sono «i due terroristi e degli ostaggi». No, «un solo ostaggio». Prima è «una donna». No, È il grafico ed è vivo perché, incredibilmente, riesce a nascondersi in uno scatolone.
Gli occhi della Francia, del mondo si posano su un’area di mezzo chilometro. È la protesi di un villaggio fatto di case basse, una palestra, quattro scuole elementari, un collegio, un liceo. Un migliaio di studenti da 6 a 18 anni. Li fanno evacuare mano a mano: gli ultimi salgono sui pullman scortati dai poliziotti alle 16, un’ora prima del blitz. Immaginate un paese ostaggio del terrore. Le finestre abbassate, tutto chiuso. Chi non è in casa è costretto a muoversi sotto scorta. Anche i giornalisti. Il centro stampa è allestito in una palestra, a 500 metri dalla stamperia. «Charlie! Charlie!» scandiscono in coro dalle aule gli allievi di una scuola media. I più piccoli, quelli dell’elementare Henry Dunant, fanno tenerezza mentre escono per mano agli agenti. Salgono sugli autobus, i genitori che si sforzano di sorridere. Ma è un lungo incubo.
Otto ore di operazione. Alle 13,25 si diffonde la notizia dell’altra carneficina a Parigi. Ancora ostaggi, ancora terrore. «Sono qui per prendere i miei bambini, per fare una carezza» dice Hassan Mellouci, franco algerino, due figli all’elementare Dunant. «Questi assassini sono la vergogna della nostra religione, lo scriva». Valeria Mahmutovic, origini croate, abita vicino alla stamperia. «Non so quando potrò tornare a casa, sono in giro da questa mattina alle 8...». I Kouachi sono a fine corsa, ma danno filo da torcere fino all’ultimo. Fino al finale, tre minuti dopo le cinque. Il silenzio è squarciato dalle granate delle teste di cuoio. Dentro la tipografia si diffonde il gas dei lacrimogeni: i fratelli jihadisti non hanno scampo. Escono fuori dall’edificio, si mettono a sparare all’impazzata contro gli agenti (un ferito lieve). Non c’è più il metodo della strage di mercoledì. C’è la furia scomposta. Le mitragliate dei militari li falciano. Gli elicotteri sono di nuovo in cielo, verso Parigi. È finita, forse.

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LA REPUBBLICA -
SONO le
dieci di mattina quando nella stamperia dove sono asserragliati i fratelli Kouachi, suona il telefono fisso. È Cherif a rispondere. Dall’altro capo del filo c’è un giornalista di Bfmtv che per due minuti parla col terrorista che ha la voce calma, tranquilla. Sembra freddo e lucido mentre spiega i perché della strage, chi lo manda, chi lo ha finanziato. Ripete di essere un «difensore del profeta, un uomo di Al Qaeda, finanziato dall’imam Al Awlaki», considerato un importante reclutatore internazionale nella penisola arabica, ucciso dai droni americani nel 2011. Due minuti intensi poi le ultime parole: «Ci siamo vendicati». Alle 15 suona il telefono alla redazione di Bmftv, questa volta a chiamare è Amedy Coulibaly, il sequestratore del supermercato kosher. Al vicedirettore racconta di essere un uomo del Califfato e di essere stato in contatto con i fratelli Kouachi. «Abbiamo sincronizzato le nostre operazioni: loro Hebdo io i poliziotti». Poi lascia il telefono fuori posto e viene intercettato dalla polizia che entra in azione quando sente che ha iniziato a pregare. La radio ha mandato in onda le conversazioni solo a blitz conclusi.
VI stiamo dicendo che siamo difensori del profeta, pace e benedizioni su di lui, e che io, Cherif Kouachi, sono stato mandato da Al Qaeda in Yemen. Ok?».
«Sono andato in Yemen e chi mi ha finanziato è stato l’imam Al Awlaki».
E quanto tempo fa è accaduto?
«Molto tempo fa, prima che fosse ammazzato
Quindi sei tornato in Francia poco tempo fa?
«Si, qualche tempo fa... I servizi segreti li conosco, non preoccuparti. So di aver fatto le cose per bene».
Adesso siete lì solo tu e tuo fratello?
«Questo non è un tuo problema»
Ci sono altre persone in appoggio?
Va bene, pensate di uccidere ancora nel nome di Allah oppure no?
«Uccidere chi?»
Non lo so. È quello che ti chiedo
«Abbiamo forse ucciso civili negli ultimi due giorni quando tutti ci cercavano? » Avete ucciso giornalisti
«No, ma... vi risulta che abbiamo ucciso civili o persone durante i due giorni che avete passato a cercarci?».
Aspetta Cherif, avete ucciso questa mattina?
«Non siamo killer. Siamo difensori del profeta. Noi non ammazziamo donne, non ammazziamo nessuno. Noi difendiamo il profeta. Se qualcuno offende il profeta allora non c’è problema, possiamo ucciderlo. Ma noi non uccidiamo donne. Non come voi. Siete voi che uccidete i bambini dei musulmani in Iraq, Siria e Afghanistan. Siete voi. Non noi. Nell’Islam noi abbiamo codici d’onore».
Adesso vi siete vendicati? Avete ucciso persone?
«Esatto, ci siamo vendicati. L’hai detto tu: ci siamo vendicati».
Cinque ore dopo la conversazione tra Cherif Kouachi con il reporter Igor Sahiri suona il telefono nella redazione di Bfmtv . A chiamare Coulibaly, il terrorista del sequestro a Porte de Vincennes. Gli risponde il vicedirettore dell’emittente Alexis Delahousse.
Perché siete là?
«Sono qui perché il governo francese ha attaccato l’Is»
Hai ricevuto istruzioni?
«Sì».
Sei in contatto con i fratelli Kouachi?
«Si siamo sincronizzati per queste operazioni, dall’inizio. Loro Charlie Hebdo , io i poliziotti».
Siete tuttora in contatto? Vi siete sentiti al telefono?
«No».
È con la sua fidanzata?
«No, sono solo. La mia fidanzata non è qui».
Ci sono molte persone nel negozio?
«Qui ci sono quattro morti e 16 persone e un bambino. In tutto 17 persone. Ci sono otto donne».
Che vuole?
«Chiedo che l’esercito si ritiri dallo Stato islamico, da tutti i luoghi dove combatte l’Islam. Sono pronto a negoziare. Dica che mi chiamino».
A quale gruppo appartiene?
«Lo Stato islamico».
Avete scelto quel supermercato per una ragione?
«Sì. Gli ebrei. L’ho fatto per tutte le oppressioni, in particolare lo Stato islamico. L’ho fatto per difendere tutti i Paesi dove sono oppressi i musulmani. Come la Palestina».
Oltre ai due fratelli, è in contatto con qualcun altro?
«Non rispondo più. Basta con le domande. Dia il mio numero alla polizia».

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ALBERTO MATTIOLI, LA STAMPA -
«Da questa prova usciremo ancora più forti. Viva la Repubblica, viva la Francia!». François Hollande chiude così, in tivù, davanti a un Tricolore listato a lutto, i tre giorni più lunghi della sua presidenza. Bilancio: tre terroristi uccisi e quattro ostaggi assassinati, due blitz delle forze dell’ordine, allarmi continui, qualche mistero di troppo e un Paese che alterna paura e fierezza in un’altalena di emozioni e di angoscia. Una giornata pazzesca, surreale: Parigi come Baghdad.
E a suo modo storica, perché da ieri in Francia «ci sarà un prima e un dopo», come dice il primo ministro, Manuel Valls.
Risveglio di fuoco
Al risveglio, il Paese scopre che la colossale caccia agli uomini che mercoledì hanno massacrato la redazione di «Charlie Hebdo» sta per giungere alla fine. Dopo due giorni di fuga e di avvistamenti, l’epilogo è vicino. Il paesino che passa di botto dall’anonimato alla storia si chiama Dammartin-en-Goële, 8.058 abitanti a pochi chilometri dall’aeroporto Charles de Gaulle. Questa volta non ci sono dubbi: dopo aver rubato l’ennesima auto, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, i due boia islamisti di «Charlie», sono lì, trincerati in una stamperia. Ma c’è anche molta paura: dal controllo degli impiegati dello stabilimento, risulta che ne manca uno. Quindi è probabile che i fratelli del terrore non siano solo armati fino ai denti, ma abbiano pure un ostaggio.
Le teste di cuoio del Gign e del Raid, i reparti speciali di Gendarmeria e Polizia divisi da sempre da un’accanita rivalità, stavolta lavorano insieme. L’intera zona è blindata, i giornalisti vengono allontanati di un chilometro, gli studenti consegnati nelle scuole. I liceali urlano dalle finestre: «Charlie! Charlie!». Lo spiegamento di forze è impressionante. Ma per il momento è stallo.
L’assalto al supermarket
Intorno alle 13, brusco cambio di scena. L’attenzione torna su Parigi. Arriva la notizia che un altro terrorista ha preso in ostaggio una decina di persone, bambini compresi, all’«Hyper Cacher», un supermercato ebreo alla porta di Vincennes, limite orientale della città. Tutti pensano subito all’ipotesi più probabile, che lui conferma immediatamente: «Sapete chi sono!», urla ai poliziotti. È l’uomo che giovedì mattina, alla porta di Montrouge, aveva ucciso una poliziotta. Si chiama Amedy Coulibaly, ha 32 anni, origini maliane e la fedina penale molto sporca: otto condanne e sei anni in galera per rapina. Qui avrebbe conosciuto Chérif Kouachi. La prigione si conferma la grande incubatrice del fanatismo. A meno che non sia un altro membro della «filiera delle Buttes-Chaumonts», chiamata così dal nome del parco del XIX arrondissement di Parigi dove i suoi membri andavano a correre per essere in forma per la jihad. A Vincennes, altro spiegamento di forze, altra zona blindata e isolata, altre evacuazioni, altra paura. E, per ora, altro stallo.
Raffica di falsi allarmi
Intanto la Francia sembra impazzita. Viene segnalato un sequestro di persona a Montpellier, ma si scopre subito che si tratta di una «normale» rapina. Poi scatta l’allarme alla stazione della metro del Trocadéro, di fronte alla Torre Eiffel: falso. Poi viene segnalato un uomo armato a Rouen e un altro che avrebbe preso degli ostaggi al municipio di Pantin: falso e falso, ancora. Invece è verissimo che la polizia presidia massicciamente la rue des Rosiers e i dintorni, il quartiere ebraico di Parigi. Le autorità invitano le botteghe a chiudere, la sinagoga della rue Pavée annulla la preghiera. «Siamo in guerra», ripetono i commentatori delle tivù e anche Nicolas Sarkozy. Un tweet fra i moltissimi: «Ho paura a prendere il metro».
Dalla provincia arrivano, con il consueto ritardo di tutto quel che non è parigino, le notizie di attacchi contro le moschee, che vanno dalle teste di porco lasciate davanti alle porte ai colpi d’arma da fuoco. A Le Mans, Saint-Juéry, Aix-les-Bains, Liévin, Béthune, Vendôme, Corte, Rennes, Bischwiller. «Ma questo è il Paese di Voltaire!», grida sconvolta una collega francese. Il sonno della ragione sta generando mostri. E anche danni collaterali molto meno gravi ma fastidiosi. La chiusura della porta di Vincennes provoca ingorghi mai visti sulla Périphérique. Le auto in coda alle 14, alle 16 sono ancora lì. Ma, dettaglio interessante, ci sono poche proteste e pochi colpi di clacson. «È la guerra civile. Ma per fortuna la polizia fa bene il suo lavoro», dice un artigiano.

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PAOLO LEVI, LA STAMPA -
Tre violente esplosioni, poi un lungo silenzio, e l’ultima scarica delle mitragliatrici: sono le 17:15 quando le teste di cuoio del Raid, le forze speciali della Police Nationale, lanciano l’assalto al supermercato kasher della Porte de Vincennes, un quartiere dell’est di Parigi, uccidendo Amedy Coulibaly, il fondamentalista islamico di 32 anni che da quattro ore si era asserragliato all’interno del negozio ebraico a poche ore dai festeggiamenti dello shabbat.
«Sapete chi sono»
Nella sua sanguinaria impresa compiuta in nome dello Stato Islamico, il ragazzo di 32 anni - che apparteneva alla stessa filiera dei fratelli Kouachi, gli autori della strage a Charlie Hebdo - ha subito giustiziato tre persone. Poi, per circa quattro ore, ne ha tenute in ostaggio un’altra decina, tra cui molte donne e un bebe di otto mesi. «Sapete chi sono! Sapete chi sono!»: grida il boia di Vincennes, in riferimento al crimine di cui si è macchiato il giorno prima, quando a Montrouge, nel sud di Parigi, ha sparato alle spalle di una giovane agente della polizia municipale, dileguandosi nel nulla. All’esterno dell’Hyper Kocher, la situazione è surreale. «Mai vista una cose del genere», ripetono i reporter bloccati dai Robocop della polizia a circa duecento metri dal luogo del sequestro. Davanti al negozio, l’inquietudine di una giovane che ha ricevuto una telefonata dell’anziana madre, rinchiusa all’interno con il terrorista.
Stop a metro e tangenziale
Blindati, camionette, un elicottero, la Porte de Vincennes è in guerra, blindata, presidiata, avvolta da un silenzio surreale, spezzato solo dalle sirene di polizia e ambulanze. Ferma la metro, i tram, gli autobus, gli abitanti del quartiere sono confinati in casa. Da una finestra del secondo piano,un’anziana signora si affaccia timidamente, con lo sguardo di chi non riconosce la strada di casa. Nel vicinissimo périphérique, la grande tangenziale di Parigi, il traffico è bloccato nelle due direzioni.
La telefonata alla tv
«Sono dello Stato islamico. Ho agito in sincronia con i fratelli Kouachi: loro Charlie Hebdo, io la polizia»: alle 15:10 il sequestratore alza il telefono del supermercato e contatta Bfm-Tv. Accanto a lui, i cadaveri di tre innocenti uccisi, un quarto morirà poco dopo. L’assalto parigino è stato lanciato praticamente in simultanea con quello alla tipografia della Seine-et-Marne, dove erano asserragliati i fratelli Kouachi. Un blitz congiunto involontariamente dettato dallo stesso Coulibaly, che poco prima aveva minacciato di uccidere gli altri ostaggi se le unità di élite schierate non avessero lasciato tranquilli Chérif e Said. Con sé aveva una o più borse con esplosivi.
Il cellulare lasciato acceso
Durante le ore del sequestro, Coulibaly, ha involontariamente aiutato gli agenti ad organizzare il blitz, riattaccando male il telefono all’interno del supermercato. Una «svista» che ha permesso alle teste di cuoio di ascoltare in diretta tutto ciò che succedeva all’interno del negozio. Prima dell’assalto, pare stesse pregando.

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NINO CIRILLO, IL MESSAGGERO -
Un blitz, due blitz. Due morti, cinque morti. Le esplosioni, il fuoco, gli elicotteri. Se questo vuol dire la guerra, allora è stato un giorno di guerra. Fra l’aeroporto di Roissy-Charles de Gaulle e la Porte de Vincennes, tra la Val d’Oise e il Ventesimo, cinquanta chilometri più giù, nella Parigi dei parchi più belli. Fra una piccola tipografia di paese, la Creation Tendence Decouverte, e un negozio di cibo kosher, frequentato, popolare, amatissimo dalla gente del quartiere.
IL PIANO DEI TERRORISTI

L’avevano studiata bene, i tre macellai della Jihad. I due fratelli Kouachi, i franco algerini della strage al Charlie Hebdo asserragliati negli uffici della Creation, armati fino ai denti, e il loro vecchio sodale, Ahmedy Coulibaly, poco più che trentenne come loro, a seminare sangue altrove. Prima a uccidere la vigilessa, giovedì mattina a Montrouge, e poi a portare il terrore nel negozio di Porte de Vincennes. Il terrore e la morte, perché solo irrompendo in quell’Hyper Casher avrebbe subito falciato quattro clienti.
I fratelli Kouachi a resistere a oltranza e Ahmedy a sostenerli, con cinque ostaggi apparentemente nelle sue mani - poi si sarebbero rivelati molti di più - e lui a minacciare e a ricattare: «Sapete bene chi sono io. Se solo toccate i miei amici, ammazzo tutti». Avrebbe voluto uccidere anche Noah, un bambinetto di sei mesi capitato con la madre in quel negozio, ma per fortuna non c’è riuscito.
FRANCIA SCONVOLTA

Alle otto della sera, sono tutti a tre su un selciato, i Kouachi e Coulibaly, abbattuti dai colpi dei reparti speciali, ma la Francia è sconvolta, costretta a piangere altri morti innocenti dopo i dodici martiri di Charlie Hebdo, martiri della libertà d’espressione. Un Paese devastato nel cuore prima ancora che nelle sue scuole evacuate, nelle strade interrotte, nell’angoscia di chi ha aspettato notizie a un semaforo, bloccato per ore.
Quando le teste di cuoio sono passate all’azione, fra le 16.55 e le 17.10, non erano trascorse che cinquantaquattro ore - sì, il mondo intero le ha contate - dalla strage di rue Nicolas Appert. Eppure sono sembrate un secolo, un arco di tempo così dilatato da aver fatto cambiare a tutti noi la visione del mondo. Le tv inquadravano in simultanea una scelta praticamente obbligata: la polizia francese non avrebbe potuto distinguere fra un’operazione e l’altra, non avrebbe potuto lasciare a una delle due posizioni dei terroristi una forza inestimabile di ricatto finale.
E cosi è stato, prima con Dammartin en Goele, con la tipografia del paese, e poi con Porte de Vincennes. Quando lassù, in Val d’Oise, gli uomini in tuta mimetica sono comparsi sui tetti, si è capito subito che l’operazione era riuscita. Quando le ambulanze si sono precipitate davanti al negozio kosher a raccogliere gli ostaggi sconvolti e i feriti, è stato evidente, invece, che qualcosa non quadrava: continuavano a uscire in cinque, in sei, compreso il piccolo Noah, e non era finita.
AGENTI FERITI

Gli agenti sparavano ancora. Ahmedy, prima di morire, avrebbe fatto in tempo a ferirne addirittura quattro. Eppoi la terribile scoperta, quattro corpi in fondo al locale, probabilmente uccisi subito da Coulibaly, al momento della sua irruzione. E nessuna traccia della donna che le tv francesi davano per sicura al suo fianco, un’algerina di 26 anni, Hatyet Boumedienne. La Cnn ha sostenuto addiruttura che sia riuscita a fuggire confusa tra gli ostaggi, ma è tutto da provare. Di sicuro le stanno dando la caccia per la Francia intera.
Sfiora il grottesco, poi, la rivelazione di un’emittente tv francese, la Bfm. Coulibaly, concessa a loro una farneticante intervista, avrebbe lasciato il telefonino in funzione. La polizia l’avrebbe ascoltato mentre recitava delle preghiere, quasi un atto finale, e avrebbe deciso a quel punto di intervenire. Non solo: quella di Amedy è stata una specie di intervista «sincronizzata» con uno dei fratelli Kouachi, con Cherif. Lui di al Qaeda, l’altro che dichiara di aver abbracciato lo Stato islamico. Pazzesco.
A Dammartin, come in un film d’azione purtroppo visto dal vero, veniva intanto fuori un altro particolare che ha dell’incredibile. I fratelli Kouachi, così spietati, così organizzati, così efficaci, erano usciti allo scoperto, incalzati dai primi colpi dei gendarmi, senza neanche sapere di avere un ostaggio a disposizione. Erano rimasti per ore in quegli uffici, prima ad avviare una specie di trattativa e poi a ritirarsi in una resistenza disperata, senza sapere che, nascosto al primo piano dell’edificio c’era una persona, un grafico. Fa sensazione rilevarlo: i due Kouachi avevano un ostaggio a disposizione e non l’hanno sfruttato. Il loro terzo clamoroso, inaspettato errore in questi tre giorni di folle fuga: prima l’indirizzo sbagliato in rue Nicolas Appert, poi la scarpa da ginnastica fortunosamente recuperata sotto la Citroen nera e infine, ieri mattina, quell’uomo nascosto sotto il lavandino che li ha beffati. Mentre il mondo intero sapeva che nella palazzina stavano tenendo prigionieri degli ostaggi, almeno uno.
IL GRIDO DEGLI STUDENTI

Sono potuti tornare a casa, comunque, insieme a Michel Catalano, anche le centinaia di liceali di Dammartin: bloccati per tutta la giornata nelle loro classi con le tapparelle abbassate, di quando in quando intonavano il nuovo “inno” della libertà francese facendo giungere chiaro alle forze dell’ordine, e probabilmente anche ai due killer, il grido “Charlie Charlie”. Poteva tirare un sospiro di sollievo tutta la Val d ’Oise, compresi quei coraggiosi cittadini che a un certo punto si sono addirittura offerti come potenziali ostaggi, purché quell’angoscia avesse una fine. A Porte de Vincennes, invece, l’inferno è cominciato all’ora di pranzo, intorno all’una, e si può dire che non è ancora finito. La furia assassina di Ahmedy Coulibaly, il suo disperato tentativo di funzionare da estremo back up per i fratelli Kouachi e la loro fuga, ha mandato prima di tutto la città in tilt. E non una città qualsiasi, ma Parigi, una sterminata metropoli abituata a vivere le sue giornate in una dimensione di orgogliosa, consolidata, storica sicurezza.
Chiuso in tutti e due i sensi il Boulevard periferique, una specie di gigantesca tangenziale. Chiusa la linea uno del metro, interrotta la linea 3 dei bus. Eppoi la Cité Scolaire, che sta proprio da quelle parti. Un concentrato di istituti di ogni ordine e grado, dai 5 ai 18 anni, tutti bloccati negli edifici fino a quando non è arrivato il cessato allarme.
GLI INTERROGATIVI

Ci vorrà tempo per capire. Ci vorrà tempo per sapere come e quando Amedy e i due fratelli abbiano potuto progettare tutto questo, senza neanche essere sfiorati da indagini di polizia. Se siano mai stati in contatto in queste ore, e come, e cosa sia esattamente accaduto a Montrouge giovedì mattina: un banale controllo di traffico che ha fatto imbracciare il fucile ad Ahmedy o una provcazione voluta, fino a uccidere una povera vigilessa e a organizzare l’irruzione nel negozio kosher?
È ancora stupefacente come sia riuscito a sfuggire per ventiquatt’ore buone alla caccia della polizia, fino a ritrovarselo a Porte de Vincennes, fino al punto di immaginare che abbia avuto le sue basi, i suoi appoggi probabilmente nell’arrondissement più vicino, il Diciannovesimo, il quartiere dell’imam Beynattou. È qui che venivano ad ascoltare le prediche anche i fratelli Kouachi, è qui che un giorno Cherif ebbe a dire: «L’ho capito dai testi, è bene essere un martire»
Ci sono foto che li ritraggono insieme, tutti e tre. Ci sono indagini che li collegano, almeno da sei-sette anni. Eppure, tutti e tre, in queste cinquantaquattro ore sono riusciti a mettere in scacco la Francia. Lasciando nell’ombra, per un ruolo ancora tutto da decifrare la compagna di Ahmedy, ma soprattutto facendo rimanere aperto un interrogativo: chi era l’autista di rue Nicolas Appert? Se non Ahmedy, se non il diciottenne che facilmente ha potuto dimostrare di essere stato a scuola quella mattina, chi si trovava al volante della Cifroen nera con i vetri oscurati?
Nino Cirillo

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FRANCESCA PIERANTOZZI, IL MESSAGGERO -
È l’una del pomeriggio, dal supermercato Hyper Kacher di Vincennes, arriva una telefonata, una signora anziana alla figlia, entrambe abitano nel quartiere: «sono al supermercato, ti voglio tanto bene». Poi più niente, fino alle cinque, fino alla liberazione. La donna non ha voluto dare il suo nome ai cronisti, ha aspettato per ore, dietro al perimetro di sicurezza e alle teste di cuoio, sapendo che la madre era lì dentro, con Amedy Courdaly e il suo kalashnikov. E con gli altri ostaggi, gli altri clienti dell’Hyper Kacher, che sono sempre tanti il venerdì mattina, quando si va a fare la spesa per la festa di shabbat.
Ieri, tra i nove ostaggi di Courdaly c’era anche un bambino di otto mesi con la mamma: usciranno sani e salvi quando tutto sarà finito. Anche Jeremy è un cliente abituale dell’Hyper. Ieri però stava prendendo un caffè di fronte quando Courdaly è entrato sparando. «Ho sentito sparare, poi un grido in arabo - racconta - non so se sia stato il terrorista a gridare, ma sono sicuro che fosse in arabo, è una lingua che conosco. Poi ci sono stati altri colpi, delle raffiche, eravamo a pochi metri, tutti quelli che stavano fuori sono entrati di corsa nel bar. Ci siamo seduti per terra mentre arrivavano le teste di cuoio. Improvvisamente è sceso il silenzio, la strada si è fatta completamente deserta, sembrava un film western. Siamo rimasti fino all’ultimo, eravamo una quarantina, abbiamo acceso la tv».
JÉRÉMY
Jérémy è ebreo, vive nel quartiere da anni. «Ho amici di tutte le confessioni, di tutti i colori - dirà alla fine - per me, quello che sta succedendo è semplicemente inimmaginabile». Per gli abitanti del quartiere ieri era lo stupore, il dolore. Di negozi kacher ce ne sono diversi nell’isolato, ma non è un ghetto, assicura Rima: «questo è un quartiere calmo, senza problemi. Ci sono, arabi, neri, ebrei, qui si vive bene tutti insieme». Ma ieri è stato un giorno di guerra. Joakim passava davanti all’Hyper Kacher quando è cominciata la sparatoria. Ha avuto il tempo di soccorrere due persone leggermente ferite a un braccio e a una gamba, poi gli agenti gli hanno chiesto di allontanarsi.
Anche per la famiglia che abita nel palazzo di fronte al supermercato, al secondo piano, sono state ore di terrore. I genitori erano fuori, la figlia diciottenne a casa. «Mia figlia non è andata a scuola perché ha subito un intervento ai denti» grida la madre ai poliziotti che le impediscono di rientrare a casa. Il palazzo è completamente isolato. Sua figlia è dentro. Il padre chiama: «Non possiamo salire. Tu devi restare nella nostra stanza, non devi affacciarti per nessun motivo dalla finestra. Mettiti davanti alla tv e aspetta. Non succederà niente». Accanto a lui, un poliziotto gli raccomanda di precisare che «un kalashnikov può tirare fino a trecento metri».
VIRGINIE
Momenti di paura anche per Virginie Khalfaoui che abita proprio sopra al supermercato. E’ rimasta barricata in casa per tutto il tempo, fino al blitz finale. E’ stato suo marito Anass a chiamarla: «Chiudi la porta, blocca tutto. Gli agenti dicono che devi restare seduta per terra».
Francesca Pierantozzi

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MARCO MOUSSANET -
L’incubo è finito. Anche se il bilancio di questi tre giorni terribili è drammatico: venti morti, tra cui i tre terroristi che hanno seminato la morte e il panico a Parigi. Con azioni che gli stessi assassini, in colloqui telefonici con i giornalisti dell’emittente televisiva Bfm, hanno dichiarato essere state sincronizzate.
Seppure i fratelli Chérif e Said Kouachi, gli autori del massacro di Charlie Hebdo (12 morti), abbiano sostenuto di essersi mossi per conto di Aqpa, il ramo yemenita di al-Qaeda (che ieri sera ha rivendicato l’attentato e ha lanciato nuove minacce « La Francia smetta di attaccare l’Islam, i suoi simboli e i musulmani o ci saranno nuove operazioni» ha detto uno dei suoi responsabili Harith bin Ghazi al-Nadhari in un video). E seppure Amedy Coulibaly, l’uomo che giovedì mattina ha ucciso una vigilessa e ieri pomeriggio ha preso alcune persone in ostaggio in un ipermercato kosher, abbia detto di essere stato inviato dall’Isis, lo Stato islamico. «Ci eravamo messi d’accordo sull’inizio delle operazioni, a loro Charlie, a me i poliziotti», ha detto Coulibaly.
Venti morti. Dal 1961, quando una bomba dell’Oas esplose sul treno Strasburgo-Parigi, la Francia non aveva pagato un tributo di sangue così alto alla guerra contro il terrorismo. E non c’è dubbio che i francesi si ricorderanno per sempre lo sgomento di questi giorni. In particolare della giornata di ieri. Non era mai accaduto che le squadre speciali di polizia e gendarmeria, Raid e Gign, dovessero far fronte contemporaneamente a due emergenze.
La giornata che nessuno avrebbe mai voluto vivere è iniziata poco prima delle nove, quando i due fratelli Kouachi hanno rubato un’auto a Montagny Sainte Félicité – non lontano dalla foresta di Longpont dove sono stati cercati nella notte tra giovedì e venerdì – e dopo essere stati intercettati si sono barricati nel capannone di una piccola tipografia dell’area industriale di Dammartin-en-Göele, paesino di 8mila abitanti a due passi dall’aeroporto di Roissy, una quarantina di chilometri a Nord-Est di Parigi. Il lungo assedio delle teste di cuoio della gendarmeria (guidate dal generale Denis Favier, che nel 1994 diresse l’attacco ai terroristi del Gia algerino all’aeroporto di Marsiglia) è iniziato, con il timore che i due terroristi avessero almeno un ostaggio. Solo più tardi si è saputo che Lilian, un grafico di 27 anni presente nell’edificio, era riuscito a nascondersi in uno scatolone.
Quattro ore più tardi, intorno alle 13, è nuovamente entrato in azione Coulibaly, che era riuscito a far perdere le proprie tracce dopo l’uccisione a freddo, con un colpo di fucile alle spalle, della vigilessa a Montrouge. E ancora non è chiaro se si sia trattato di un obiettivo casuale, come sembra, oppure no. Ha fatto irruzione, con due kalashnikov, in un ipermercato di prodotti alimentari kosher sull’Avenue della Porte de Vincennes, ai confini Est della città, nel ventesimo arrondissement, prendendo in ostaggio una quindicina di persone, tra cui un bambino. Un obiettivo questa volta scelto non a caso. Tant’è che la Prefettura ha immediatamente ordinato la chiusura dei negozi di rue des Rosiers, cuore del quartiere ebraico del Marais.
Le forze dell’ordine si sono trovate tra due fuochi. Il messaggio di Coulibaly era chiaro: se date l’assalto al capannone di Dammartin ammazzo gli ostaggi.
È iniziata un’attesa di pesante silenzio e di altissima tensione. La svolta è arrivata intorno alle cinque, quando i due fratelli Kouachi sono usciti sparando dal capannone e sono stati immediatamente uccisi dagli uomini del Gign. A questo punto è scattata l’operazione alla Porta di Vincennes. I commando del Raid hanno fatto saltare la porta dell’ipermercato ed eliminato Coulibaly (che stava iniziando la preghiera prima del martirio, come i poliziotti hanno appreso grazie a una cornetta telefonica posata male), liberando gli ostaggi. Quattro di loro purtroppo erano già morti, a quanto sembra uccisi dal terrorista al momento della sua irruzione. Mentre la fidanzata di Coulibaly, Hayat Boumedienne, è tuttora ricercata.
I francesi, in particolare i parigini, che hanno trascorso l’intera giornata incollati alle dirette televisive, hanno finalmente tirato un sospiro di sollievo. Anche se le domande restano: com’è possibile che questi tre mostri abbiano potuto organizzare e realizzare una simile carneficina? Si tratta di episodi isolati o di una dichiarazione di guerra, dell’inizio di una vera e propria offensiva?
Quanti altri terroristi, più o meno lupi solitari, sono pronti a entrare in azione?
Il presidente François Hollande, che ieri sera ha nuovamente parlato ai francesi, è stato purtroppo chiaro: «La Francia non ha finito con le minacce di cui è oggetto».
Hollande ha invitato tutti «alla vigilanza, all’unità e alla mobilitazione». Quella che c’è già stata, spontanea, in questi giorni. E quella che ci sarà domenica pomeriggio con manifestazioni in tutto il Paese e la grande marcia repubblicana di Parigi, da Place de la République a Place de la Nation. Dove a fianco di Hollande sfileranno la cancelliera tedesca Angela Merkel, i premier inglese David Cameron, spagnolo Mariano Rajoy e italiano Matteo Renzi, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, quello della Commissione Jean-Claude Juncker e il ministro degli Esteri europeo Federica Mogherini.
Anche se alla marcia non ci sarà il primo partito francese, il Front National di Marine Le Pen, che ha ritenuto di essere stato volutamente emarginato dall’organizzazione del corteo. E il cui presidente onorario, il vecchio Jean-Marie Le Pen ha avuto il cattivo gusto di inviare via Twitter un manifesto della figlia con lo slogan «Keep calm and vote Le Pen». Intanto, nella redazione di Libération, i giornalisti di Charlie Hebdo lavorano alla preparazione del numero di mercoledì prossimo, il numero “dei sopravvissuti”. Pochi ma buoni.
Marco Moussanet