Michele Farina, Corriere della Sera 10/1/2015, 10 gennaio 2015
Quante divisioni ha il Califfo? Quante città controlla Boko Haram? Quanti ostaggi ha catturato Abu Sayaf? Quanti kamikaze è in grado di esportare Al Qaeda nella Penisola Arabica? Nella multinazionale del terrorismo islamico vige la specializzazione del lavoro e la concorrenza è molto alta
Quante divisioni ha il Califfo? Quante città controlla Boko Haram? Quanti ostaggi ha catturato Abu Sayaf? Quanti kamikaze è in grado di esportare Al Qaeda nella Penisola Arabica? Nella multinazionale del terrorismo islamico vige la specializzazione del lavoro e la concorrenza è molto alta. Chi pensasse a un direttorio o a una rete mondiale, a un G8 della Jihad o anche soltanto a una strategia unificante faticherebbe a trovarli. I leader quaedisti per esempio si oppongono al richiamo di sottomissione del Califfo dell’Isis Abubakar Al Baghdadi, mentre l’altro Abubakar molto in auge in questo momento, Abubakar Shekau di Boko Haram, sembra fare (con successo) guerra a sé nel Nordest della Nigeria anche le sue mire riguardano sempre di più Paesi vicini come il Camerun. I brand islamisti sono o cercano di essere glocal : un occhio globale alla Rete (quella di Internet) e i kalashnikov possibilmente ben piantati sul territorio. Difficile stabilire se nel risiko 2015 i gruppi armati che professano una qualche forma di guerra santa nel segno del Profeta stiano guadagnando o perdendo terreno. Dopo la grande avanzata dell’anno scorso l’Isis è di fatto sotto pressione in Iraq e in Siria. Boko Haram è nettamente in ascesa in Africa Occidentale, mentre dall’altra parte del continente i «giovani» somali di Al Shebab hanno compensato la perdita di posizioni interne incentivando gli attacchi terroristici e i raid nel vicino Kenya. Nel teatro del Sahara la missione francese in Mali ha impedito che i gruppi coagulatisi intorno ad Al Qaeda nel Maghreb islamico si impadronissero del Paese da Timbuktu a Bamako. Il leader Abdelmalek Droukdel, in difficoltà sul lato Sahel, riorganizza le sue forze sul Fronte Nord. Dove, lungo le coste del Mediterraneo, il fuoco delle diplomazie e dell’intelligence occidentali dovrebbe essere puntato sulla Libia: l’ex regno di Gheddafi in un paio d’anni è diventato il gran calderone delle milizie più o meno islamiste, un Paese spaccato in due zone in guerra tra loro, dove i conflitti tribali si sovrappongono alle mire personali degli emiri, la lotta per i pozzi petroliferi si intreccia alle rivalità di Paesi alleati molto interessati: Turchia e Qatar a sostegno della metà «islamista» con roccaforti tra Misurata e Tripoli, Egitto ed Emirati Arabi vicini alla metà più laica con base a Tobruk in Cirenaica. Il fronte orientale del Vecchio Continente sembra più coperto sul lato Caucaso: nell’era putiniana la Cecenia è «normalizzata», anche se nel vicino Daghestan (dove i salafiti si scontrano con i seguaci dei movimenti Sufi) le stime ufficiali parlano di 280 morti in attentati del 2014. Gli jihadisti che fanno paura oggi vengono dallo scacchiere Siria-Iraq e, più a Sud, dallo Yemen. Se Bagdad sembra più sicura di qualche mese fa, l’Afghanistan teme il ritorno in forze dei talebani complice il ritiro occidentale. Al Qaeda continua a fabbricare terroristi da esportazione addestrandoli tra i grattacieli di fango nel Sud dello Yemen. A confronto i tagliagole di Abu Sayaf, impegnati nel business dei sequestri nelle isole sud delle Filippine, sembrano vecchi artigiani. Michele Farina mikele_farina