Simona Argentieri, Mente&Cervello 1/2015, 9 gennaio 2015
LA STANCHEZZA DELLA SPIA
Melik è un giovane turco musulmano, aspirante pugile, che vive ad Amburgo con la madre, aspettando da anni di ottenere la cittadinanza tedesca. Per caso (ma sarà un caso?) offrono ospitalità a un ragazzo ceceno dallo sguardo smarrito, approdato in città dalla stazione centrale senza documenti, nato come Ivan Karpov, ma che – in odio al padre russo, colonnello dell’Armata rossa colpevole di crimini di guerra – ha voluto cambiare il suo nome in Yssa, nel segno della fede in Allah.
Tuttavia il ragazzo, che ha sul corpo i segni delle torture subite in Russia e in Turchia, porta con sé una lettera e una chiave lasciategli in eredità proprio dal padre, che gli danno accesso a un conto ipermilionario in una banca di Amburgo. Ad aiutarlo nella trattativa con il direttore della banca (un elegante e ambiguo Willem Dafoe) è chiamata una bella avvocatessa (Rachel Mc Adams) che, un po’ per idealismo radicale, un po’ per polemica con la sua ricca famiglia borghese, si dedica a difendere indiscriminatamente i diritti degli immigrati.
Intorno a Ivan-Yssa e ai suoi nuovi amici si muovono però potentemente e silenziosamente i servizi segreti tedeschi e statunitensi, a caccia di intrighi terroristici di matrice islamica. In breve, senza sforzo manifesto, viene controllato ogni minuscolo evento del presente e ogni traccia del passato di questi personaggi apparentemente insignificanti. Tutto viene intercettato, indagato, previsto, guidato in una rete incrociata di tecnologia e occulta determinazione.
Il titolo originale A most Wanted Man rende l’idea della trama assai più di quello generico con cui il film viene distribuito in Italia. Ad Amburgo infatti sembra si siano organizzati quasi indisturbati i gruppi responsabili del fatale attentato dell’11 settembre; e ora nel passato prossimo nel quale si svolge il racconto le forze internazionali anti-terrorismo si concentrano con tardiva efficienza e senza alcun residuo scrupolo per scongiurare ulteriori imprese.
Né azione né fascino
A partire da queste premesse, si annoda una complicatissima vicenda che, grazie a una sceneggiatura di rara chiarezza e puntualità, riusciamo a seguire senza mai perdere il filo dell’attenzione.
Sono all’opera una gelida agente della CIA (Robin Wright, ormai destinata ai ruoli di donna bella e senz’anima dopo il successo nella serie televisiva House of cards), che alterna nel rapporto con gli alleati collaborazione e tradimento; il dirigente della polizia, cinico e anonimo burocrate; e Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffman), a capo di una piccola sezione scalcinata, che orgogliosamente contrappone il suo metodo sottile e raffinato di indagine, basato sull’intelligenza e l’intuizione psicologica, alla sbrigativa e rozza metodologia degli altri, impegnati nell’eliminazione di ogni potenziale nemico prima ancora di avere capito chi sia e cosa nasconda.
Non si tratta dunque di un tradizionale film di spionaggio, basato sull’azione e sul fascino da supereroe dell’agente segreto. In una drammatica coincidenza fra attore e personaggio, la magnifica interpretazione di Philip Seymour Hoffman, alla sua ultima prova di attore prima della morte sciagurata per overdose, ci mostra invece un uomo stanco e solitario, dedito all’alcool e al tabacco, roso dal dubbio e dai sensi di colpa, tenero con i pochi componenti della sua squadra, devoto al suo compito fino all’ossessione, ma senza mai rinunciare a una precisa etica umana e professionale.
Günther è impegnato a fare giustizia, vuole incastrare l’indegno filantropo arabo che distoglie i fondi dalle opere benefiche per finanziare Al Qaeda; ma non rinuncia a far leva sulla confusa coscienza del figlio di lui, che abbraccia chiamandolo «ragazzo mio» mentre lo usa per avere informazioni. Fa rapire senza violenza fisica l’avvocatessa ingenua e un po’ stupida, per scoprire dove si nasconda il suo protetto; ma la rassicura che loro due insieme stanno facendo «la cosa giusta». Ricatta il banchiere, lo costringe a collaborare, ma si adopera per limitare i danni del doppio gioco alla sua immagine pubblica. Il suo intento, in sintesi, è offrire una sorta di protezione e di garanzie alle persone delle quali manipola il destino.
È evidente che non ha simpatia per la spocchiosa agente statunitense, verso la quale non prova né stima, né fiducia e che punisce dandole appuntamento in luoghi brutti e sporchi. È invece convinto dell’innocenza di Yssa, che peraltro vuole usare come esca. Lo fa dunque convincere dall’avvocatessa a riscattare il denaro sporco del padre per destinarlo a nobili e pacifiche cause in favore dei popoli musulmani più poveri.
Più amaro dell’originale
Il titolo del libro di John le Carré da cui è tratto il film è Yssa il buono; ma non possiamo essere sicuri come lo è Günther della sua bontà e buona fede. Né d’altronde possiamo schierarci con gli altri, che gli lasciano svolgere tutto il faticoso lavoro di decifrazione e costruzione dell’intrigo riservandosi poi il diritto di prendere senza spiegazioni le decisioni finali.
Prima di diventare regista, Anton Corbijn è stato il più famoso fotografo delle rockstar statunitensi; ma va detto che nei pochi film che portano il suo nome, come il thriller politico The American, con George Clooney, non c’è alcuna traccia di spettacolarità o frivolezza. Si può anzi dire che La spia ci racconta una storia ancora più amara e pessimista del libro originale. Ci viene confermato che lo strapotere delle imponenti organizzazioni di spionaggio e controspionaggio internazionali alimenta innanzi tutto se stesso, che qualche volta i «cattivi» vengono arrestati o uccisi e assai spesso coloro che sono innocenti, o semplicemente marginali, vengono sacrificati.
E che ogni sforzo, ogni disegno dell’intelligenza e della moderazione sono destinati a un anonimo fallimento, come esprime in un crescendo di rabbia disperata e impotente il volto sfatto di Philip Seymour Hoffmann in quella che è l’ultima magnifica scena del film e anche l’ultima delle sue interpretazioni.